La sera ci spiava il Kgb
Il Segretario generale del Partito comunista sovietico, abitava in un palazzo d’inizio Novecento sul Kutuzovsky Prospekt. I giornalisti vedevano passare ogni giorno per due volte la Zil nera del capo delle Repubbliche socialiste sovietiche, la seconda potenza del mondo dopo gli Stati Uniti.
Il Segretario generale del Pcus, il Partito comunista sovietico, abitava in un palazzo d’inizio Novecento sul Kutuzovsky Prospekt. I giornalisti che dimoravano al numero 13 vedevano passare ogni giorno per due volte, una al mattino verso le otto e una alla sera, intorno alle sette e mezzo, la Zil nera coi vetri oscurati del grande capo delle Repubbliche socialiste sovietiche, la seconda potenza del mondo dopo gli Stati Uniti d’America.
Leonid Breznev, il più compagno dei compagni, stava seduto dietro l’autista. Nel viaggio di andata verso il suo ufficio al Cremlino leggeva i giornali, che emanavano un forte odore di inchiostro. Al ritorno scrutava la città dal finestrino.
La Zil andava veloce nella corsia riservata alla nomenklatura. I fanali antinebbia, grandi, erano sempre accesi, la sirena faceva sentire un inconfondibile fischio, capace di far capire a tutti i passanti e a tutti i residenti che “Lui” era in movimento “per il bene della patria socialista”, come soleva proclamare il commentatore di Radio Mosca. Lasciata la villa fra le betulle e gli abeti, Breznev percorreva il viale, consacrato alla memoria del maresciallo zarista Michail Illarionovicˇ Kutuzov, l’eroe che sconfisse Napoleone Bonaparte costringendo la sua armata, sepolta nella neve, a ritirarsi dalla Russia con disonore.
Sia d’estate che d’inverno la Zil procedeva alla stessa velocità. E così le auto del seguito. Una volta arrivato sulla Piazza Rossa il conducente infilava la porta Spasskaia e si fermava davanti all’ingresso di un palazzo color ocra, dove stava l’ufficio dal quale si governava l’impero rosso. Fuori, oltre le mura del Cremlino, nella Piazza Rossa c’era un gran silenzio, rotto ogni tanto dal gracchiare delle cornacchie che volavano sopra la coda di fedeli, in attesa di entrare nel mausoleo di Lenin.
Col freddo, da quelle bocche usciva un fumo bianco. Le shapke, i colbacchi, coprivano d’inverno dal gelo e dalle punture di spillo della neve gelata, spinta dal vento contro le facce degli uomini e delle donne in coda. Facce di ogni angolo dell’Urss; asiatiche, gialle con gli occhi a mandorla, oppure brune di armeni o georgiani, o bianchissime di ucraini o rosate dei russi. Gli aliti odoravano di vodka, tabacco, aglio, caffè. Qualcuno si era portato proprio il caffè o il tè molto nero dentro un thermos.
La coda per raggiungere la tomba di Lenin era scura, un serpente nero e marrone sulla neve gelata. I ricordi di Mosca che molti viaggiatori conservano sono soprattutto invernali. Era bello vedere il 7 novembre la parata dell’Armata rossa sotto la neve: le bandiere vittoriose contro i nazisti, i cappotti e i colbacchi dei soldati, i berretti neri di pelo dei marinai, i carri armati e le batterie lanciamissili, orgoglio, in quegli anni, dopo l’impresa di Yuri Gagarin, dell’industria aerospaziale sovietica.
Gli applausi della Piazza Rossa accoglievano la banda militare, e le sue marce solenni. Poi, all’apparire dei leader, con cappotto grigio, sciarpa grigia e shapka nera, tutti si mettevano sull’attenti ad ascoltare l’inno nazionale.
Le facce di Breznev, Yuri Andropov, Nikolaj Kosygin, Ekaterina Alekseevna Furceva erano pezzi di marmo. Lei, la Furceva, ministro della Cultura, appariva molto elegante nel cappotto nero con collo e manicotti di astrakan. La compagna era l’unico volto femminile dei potenti, bella e impossibile. Si diceva fosse stata l’amante di Stalin, ma si trattava di un pettegolezzo degli apparatchiki. La Furceva, donna di gran gusto, si faceva mandare i modelli di carta da Parigi per i suoi tailleur, confezionati dalle sarte del Cremlino. Teneva nel bagno dell’ufficio un flacone di Shalimar di Guerlain, il suo profumo preferito. Se ne metteva una goccia anche prima di recarsi alle riunioni del Politburo dal compagno Breznev.
Anche lui amava profumarsi con una misteriosa acqua di colonia tedesca, gli piaceva imbrillantinarsi i capelli e aveva la mania degli abiti sempre ben stirati, con una piega perfetta a ogni ora del giorno e della sera. Accanto al suo ufficio c’era il guardaroba, talvolta il profumo dei vapori del ferro da stiro raggiungevano la scrivania del segretario. Quando leggeva i dossier da solo, Breznev si rilassava un poco: pantofole, camicia senza cravatta, un pullover di lana grigio. Al compagno Leonid toccava farsi la barba due volte al giorno, ammorbidendosi la pelle con una crema alla mandorla, la stessa che andava a ruba quando appariva sui banchi del Gum.
A Mosca tutti sapevano che al Segretario piacevano le belle auto e anche le belle donne. Ma rare sono le sue foto con splendide vetture. E nessuna immagine è mai apparsa del compagno Leonid con accompagnatrice. A Breznev le istantanee che lo ritraevano in privato davano fastidio. Non ce ne sono molte e tutte sono passate attraverso il vaglio inflessibile dell’ufficio propaganda e soprattutto del Kgb.
Il palazzo della Lubjanka, in piazza Dzerjinski, nel cuore di Mosca, non lontano dal Bolshoi, era il regno di Yuri Andropov. Il capo del Kgb, potentissimo e temutissimo, abitava sul Kutuzovski Prospekt, nello stesso palazzo di Breznev, una residenza della grande nomenklatura attentamente sorvegliata 24 ore su 24 dalle guardie in divisa (berretto con fascia rossa) del Kgb. Nel suo appartamento, librerie con molti volumi americani e inglesi e finestroni con tende di lino pesante, come negli alberghi di lusso moscoviti.
Andropov, come del resto Breznev, poteva vedere le palazzine del numero 13, riservate agli stranieri, uomini d’affari, diplomatici e giornalisti. Un ghetto ben sorvegliato dal Kgb, dove era impossibile entrare senza mostrare i documenti e farseli registrare. Gli appartamenti erano pieni di microfoni. Si diceva che gli apparecchi di registrazione ambientale fossero in soffitta, sotto il controllo dei servizi di intelligence. La stampa straniera, in quel tempo in cui la voce dei dissidenti pur soffocata arrivava all’informazione e all’editoria internazionale, era molto studiata dal Kgb. Aveva fatto paura la comparsa in occidente del “Dottor Zivago” di Boris Pasternak, romanzo pubblicato per primo dall’editore italiano Feltrinelli e trafugato a Mosca.
Erano sotto osservazione Andrej Siniavski e Yuri Daniel, ma anche Evgenij Evtusenko e poetesse come Bella Achmadulina. Ma il nemico numero uno del Cremlino era Aleksandr Solgenitsin, perseguitato, mandato in esilio in Siberia e infine costretto a lasciare la Russia. La parola Solgenitsin faceva venire la scarlattina a Breznev. E anni dopo lo stesso prurito venne a Andropov quando scappò il famoso ballerino Barishnikov.
Ancora prima di recarsi in ufficio, Andropov, che conosceva l’inglese, si faceva mandare la rassegna stampa dei giornali internazionali di Londra e di New York, inviata via telex dall’Agenzia Novosti .
Andropov sottolineava gli attacchi all’Urss e ai dirigenti con una matita viola, il colore della rabbia.
Ai sovietici davano però soprattutto fastidio gli scoop dei corrispondenti occidentali a Mosca. Erano pochi ma buoni, in grado di far indispettire parecchio i vertici del Cremlino. I reporter stranieri non erano graditi e il Kgb li teneva sotto controllo per scoprire abitudini, amori segreti, relazioni con cittadini sovietici. Si paventavano soprattutto le indiscrezioni provenienti dal Cremlino e date in pasto alla cremlinologia, una scienza, non proprio perfetta, ma molto invisa. La Pravda e l’Izvestia attaccavano con nome e cognome i giornalisti oppure, con l’eufemismo “circoli occidentali”, i diplomatici che fornivano ai corrispondenti preziose notizie. Non era gradevole per un giornalista europeo o americano subire una reprimenda al ministero degli Esteri, in quel palazzo in stile staliniano dove tutti guardavano gli stranieri con un sorriso molto sospettoso, impensabile altrove.
Allora il ministero degli Esteri era il regno di un impenetrabile personaggio con una faccia da giocatore di poker, Andrej Gromyko. Anche lui abitava nel palazzo della grande nomenklatura sul Kutuzovski prospekt. In casa aveva un impianto della Rca per ascoltare la sua musica preferita: lo swing americano di Ella Fitzgerald e degli altri cantanti jazz dal 1930 in poi. Gli piaceva bere un drink, prima di cena sentendo Ella nei duetti con Louis Armstrong. Oppurte Nat King Cole, un po’ più popular e molto gradito alla sua consorte.
Quando arrivarono i Beatles, fu Gromyko uno dei principali fan segreti del complesso inglese. I figli dei leader si scambiavano dischi e libri occidentali. Il Kgb aveva un bel da fare a spiarli attraverso inservienti, autisti e camerieri. Nulla doveva sfuggire ai suoi occhi attenti. Al servizio segreto avevano le piantine delle abitazioni, con foto dei mobili e tanti particolari che potevano mettere in mostra il benessere dei padroni di casa.
[**Video_box_2**]Su una bella residenza, un po’ burocratica, ma interessante soprattutto per i libri, come quella di Vjacˇeslav Molotov, ministro deglio Esteri di Stalin, caduto in disgrazia dopo il XX congresso del Pcus, ha scritto un magnifico saggio-racconto Rachel Polonsky. E’ un viaggio nel mondo sovietico attraverso Molotov (“La lanterna magica di Molotov”, Adelphi, 434 pagine., 28 euro). E’ un piccolo capolavoro che insegna come analizzare politicamente, letterariamente, storicamente, umanamente le case di certi personaggi che hanno fatto la storia.
Nelle città del mondo capita al viaggiatore che passeggia di vedere sulla facciata di case o palazzi delle targhe commemorative di uomini grandi e meno grandi, dall’arte alla politica allo sport, che hanno abitato fra quelle mura. In genere le epigrafi sono abbastanza banali e tutte simili. Ma aiutano a collocare il protagonista dentro un mondo.
Un mondo che dalla casa si allarga alla via, dalla via alla città, dalla città al paese. Per poi far ritorno nella casa. Sulla casa di un uomo che è stato protagonista di qualcosa che lo ha reso famoso, magari un assassino seriale, si può scrivere parecchio. La casa è la fotografia più vera dell’anima di un uomo o di una donna. Basta guardare i libri per capire tante cose. Ma anche i quadri, se ci sono, parlano, e così i mobili, gli armadi coi vestiti, le scarpe, il bagno. Capita di soffermarsi in una via, leggere una epigrafe e immaginare quell’uomo nel suo tempo, nelle sue abitudini, magari nei suoi amori. Quando si va in una città è sempre meglio avere un’idea di chi vi ha abitato per non rimanere sorpresi dalle informazioni incise su una lastra di marmo.
Una volta a Parigi, a Mosca, a Berlino, a New York c’erano tassisti che sapevano tutto sulle case degli altri, sui palazzi che avevano vissuto la felicità e il terrore, come gli alberghi di Roma o di Parigi dove la Gestapo interrogava e torturava le sue vittime.
Tutti possono conoscere dalle guide delle città gli indirizzi degli alberghi dove tante vite sono passate o dei ristoranti o dei locali notturni che ne hanno viste di tutti i colori. Ma è la scoperta delle abitazioni private che richiede una ricerca a volte faticosa Le scoperte si fanno, quasi per intero, sui libri. Ma bisogna avere a disposizione grandi biblioteche per indagare e scoprire, come fa un poliziotto che cerca un assassino. Gli indirizzi amano nascondersi, si divertono giocando a rimpiattino con chi li cerca. E, a volte, quando si trova l’indirizzo ci si accorge, andando sul posto, che quella casa non c’è più, che è scomparsa anche l’epigrafe, e che un altro palazzo con un’altra architettura ha preso il posto del precedente. E che anche la portinaia non possiede un briciolo di memoria storica.
Chi abitava a Mosca in piazza Arbatskaia, o in Piazza Vosstanja dove si ferma l’autobus 10 o piazza Komsomolskaia, accanto al vecchio caffè “Romantiki”? Guardando quelle finestre all’ora del pranzo e della cena, vengono in mente amati piatti russi come gli zakuski, il salmone o lo storione in gelatina, i bliny col caviale e la panna acida, il borscht caldo di barbabietole, i pelmeni, la kacha di semola, il kissel e il tè forte dopo un bicchierino di vodka Kristal.
Per fortuna Mosca, la città dura, che non crede alle lacrime (Moskva slezam ne verit) ha dedicato molte epigrafi ai suoi personaggi: militari, artisti o politici. Diverse furono le case abitate da Anton Pavlovicˇ Cˇechov, il commediografo più amato, più russo. Ciascuna a Mosca ha una targa. Le sue commedie hanno una suprema semplicità scenografica che fa da sfondo a drammi, passioni, amori, in una Russia ottocentesca tutta fiorellini e nebbioline e signorine di belle speranze e ufficialetti in divisa e giovanotti dabbene in redingote ma pronti a togliersela se è il caso e ne vale la pena.
Ci sono a Mosca dei letterati che arrotondano raccontando uomini e luoghi della letteratura. Aliosha, un interprete molto colto e simpatico, passo dopo passo mi fece rivivere, citando a memoria in russo, Trechpruduj Pereulok, dietro piazza Pusˇkin, luogo del “Maestro e Margherita”. Aliosha era non solo un appassionato di romanzi, ma anche di architettura. Gli piacevano i palazzi della “ricostruzione”, della crescita della città con Stalin e col suo capomastro Lazar Moiseevic Kaganovic, messo nel 1930 al vertice della organizzazione bolscevica della capitale. Fu Kaganovic a far abbattere la cattedrale di Cristo Salvatore (ricostruita da Boris Eltsin).
Per il compagno Lazar, Mosca “doveva essere la capitale del rosso rivoluzionario”. E lo fu fin quasi a Kruscev. Poi il rosso cominciò ad appannarsi, prima col XX congresso, che condannò i crimini di Stalin, e poi con la perestroika di Michail Gorbaciov.
Non c’è più la bandiera rossa con la falce e martello a sventolare sulla cupola più alta del Cremlino, ma la bandiera russa bianca, rossa e celeste. Mosca, la città che non crede né alle lacrime né alle nostalgie, si è presto adeguata a questi colori. Do svidanija Lenin.
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