Anche la Birmania è diventata una visita “difficile” per Obama
I commentatori di Pechino ironizzano sugli slogan “insipidi” del presidente americano, a cominciare da quello sul “pivot asiatico”, che da anni galleggia nell’ambiguità. Il record sui diritti umani non è cristallino, e Aung San Suu Kyi dice che, sulla transizione birmana, l’America è troppo ottimista.
Milano. “Perdere la faccia”: in Asia è un dramma. Si può risolvere con la rinuncia ad apparire in pubblico, il ritiro in monastero, in casi estremi il suicidio. E’ in questa situazione, dopo le elezioni di midterm, che Barack Obama affronta il viaggio in Asia, a Pechino per il Forum dell’Asia-Pacific Economic Cooperation (Apec), e poi in Birmania (nella nuova capitale Naypyidaw e poi a Yangon) per l’Asean (l’Associazione delle nazioni del sud-est asiatico). La definizione di “anatra zoppa” non aiuta, come commenta il Global Times, sito del Partito comunista cinese: “Ripete sempre ‘Yes we can’, ma ha fatto un lavoro insipido. La società americana è stanca della sua banalità”. Nell’incontro col presidente cinese Xi Jinping, che negli ultimi due anni ha accumulato potere e influenza, Obama parte sfavorito. Secondo molti analisti, paga anche per l’incompetenza del suo “China Team”: “Giovani” che non hanno esperienza. “In Cina, invece, ci vuole molto tempo per conquistare la mente e il cuore”, ha dichiarato l’ambasciatore cinese negli Stati Uniti Cui Tiankai. Appare così insipido un altro slogan obamiano, quel “Pivot to Asia” proclamato nel 2010 per definire la politica statunitense imperniata sull’Asia: una “tigre di carta”, più retorica che sostanza. Il governo di Pechino, tuttavia, ne ha enfatizzato la dimensione strategica per giustificare in modo assertivo le rivendicazioni nei mari della Cina del sud e dell’est. Washington, invece, sopraffatta dai problemi in politica estera, non ha saputo rassicurare i paesi dell’area. Il pivot, poi, si è dimostrato un’anatra zoppa rispetto al “soft power” cinese in campo economico. Dal 1873 al 2007 l’America ha mantenuto il predominio nel commercio con i paesi del sud-est asiatico. Ma dal 2008 in poi è stata eclissata dalla Cina: nel 2013 il commercio Cina-Asean ha toccato i 400 miliardi di dollari, il doppio di quello con gli Stati Uniti.
Gli incontri di questa settimana potevano essere una buona occasione per rovesciare il risultato. La formula magica doveva essere “Tpp”, Trans Pacific Partnership, un superaccordo tra Stati Uniti e altri undici paesi dell’area Asia-Pacifico a eccezione della Cina. In caso di ratifica raggrupperebbe un terzo di tutto il commercio mondiale. Ma il Tpp è arenato nelle anse del Potomac, prima per l’opposizione dei democratici e ora per il sostegno dei repubblicani (una delle poche questioni su cui si trovino d’accordo con Obama) che lo trasformerà in merce di scambio. Sta accadendo quello che voleva la Cina: questi incontri offrono l’occasione di presentare l’anti Tpp, la Free Trade Area of the Asia-Pacific (Ftaap). La Cina ha già disegnato una road map per renderla operativa entro il 2025, disseminando il percorso con investimenti in infrastrutture, comunicazioni, innovazione. E’ l’“Asia-Pacific dream” evocato da Xi all’Apec. Anche l’incontro tra Xi Jinping e il premier giapponese Shinzo Abe, dopo due anni di gelo per la rivendicazione sulle isole nel mar della Cina dell’est, più che un successo americano (che spingeva Tokyo al dialogo per evitare futuri coinvolgimenti), appare soprattutto come la prova di un nuovo ordine “asiatico”.
[**Video_box_2**]Se la Cina si aggiudicherà il match durante l’Apec, è all’Asean che si dovrebbero rilevare tutte le ambiguità del “Pivot to Asia”. Grazie ai tentennamenti di Obama, si è creata una situazione paradossale. Da un lato l’America tenta di “esportare la democrazia”, dall’altro non lo fa con sufficiente fermezza. E’ il caso del Vietnam: riesce a irritare il governo di Hanoi per le pressioni sul rispetto dei diritti umani e al tempo stesso si attira critiche per aver allentato l’embargo sulle armi (destinate alla marina per far fronte alle navi cinesi). E’ anche il caso della Thailandia, storico alleato degli Stati Uniti. La condanna del golpe del maggio scorso ha rafforzato i rapporti tra Bangkok e Pechino a un “livello senza precedenti”, specie nel campo della difesa. Al tempo stesso, il Pentagono ha confermato il regolare svolgimento di Cobra Gold, l’esercitazione militare Thai-Usa. In questo modo, secondo il Centre for Humanitarian Dialogue, l’America contribuisce alla “regressione democratica” in Asia.
Ambiguità e tentennamenti potrebbero minare anche quello che si può considerare l’unico successo di Obama nel sud-est asiatico: la Birmania. Il merito dell’avvio di transizione alla democrazia va accreditato al suo presidente Thein Sein e ad Aung San Suu Kyi. Ma è grazie all’impegno di Obama nel 2012 (e soprattutto dell’allora segretario di stato Hillary Clinton) se la Birmania è stata legittimata a livello internazionale, come dimostra la stessa presidenza di turno dell’Asean per il 2014. Ed è stata una telefonata di Obama pochi giorni fa ad agevolare l’incontro tra Thein Sein e Suu Kyi per discutere della riforma costituzionale. Secondo quella attuale, la Signora non potrebbe candidarsi alle presidenziali del 2015 perché è stata sposata con un cittadino straniero e andrebbe modificato l’articolo che assegna ai militari il 25 per cento dei seggi. Ma le telefonate di Obama non devono essere state convincenti. Non per la Signora: ha dichiarato che gli Stati Uniti sono “eccessivamente ottimisti”. Forse perché l’Amministrazione Obama considera il dibattito costituzionale come un affare interno birmano. In questo caso, il disappunto di Suu Kyi è apparso contraddittorio: molti la giudicano troppo morbida nei confronti del governo, specie per il suo rifiuto di condannare le violazioni dei diritti umani quando queste riguardano le minoranze etniche, in particolare quella dei Rohingya, di religione musulmana. Come invece hanno fatto gli Stati Uniti, irritando il governo di Naypyidaw. Nel suo passaggio in Birmania, quindi, Obama dovrà prima rassicurare il presidente Thein Sein e poi, l’ultimo giorno, riacquistare la fiducia di Aung San Suu Kyi. Per lui sarebbe meglio incontrare prima la Signora: potrebbe dargli qualche lezione di realpolitik. Non è un caso che il mese prossimo lei abbia in programma un viaggio in Cina: se potrà candidarsi nel 2015, la sua vittoria è quasi certa. Deve stabilire un buon rapporto con Pechino, da dove proviene il 30 per cento degli investimenti in Birmania.
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