Taylor Swift prova che siamo ancora disposti a pagare la musica
La cantante con rossetto cremisi ed espressione “oh my god!” ha venduto abbastanza da far riscoprire l’acqua calda: nella musica il rapporto fra domanda e offerta se la passa a meraviglia. Lo streaming è il futuro, ma bisogna ancora trovare l’assetto virtuoso, come sa bene anche Google.
New York. Taylor Swift è la prova che il declino dell’industria musicale non è un fenomeno irreversibile, e concetti come album, classifiche, etichette, distribuzione eccetera non sono stati del tutto rottamati. Il mondo è ancora disposto a pagare per ascoltare, non tutto è finito nel tritacarne del download gratuito e della condivisione pirata. E’ soltanto una mastodontica eccezione, si dirà. Il volto della ragazzina in rossetto cremisi ed espressione “oh my god!” è onnipresente, sovrasta ogni celebrità e meme, anche il culo di Kim Kardashian si ritrae di fronte a tanta potenza mediatica. E l’oliato nudo della signora passata dal sex tape alla notorietà planetaria senza passare per il talento viene consumato a costo zero, mentre il disco della cantante che faceva country-pop e ora solo pop costa fra i 13.99 e i 60 dollari, perché ci sono le serie limitate e le edizioni da collezione, come usava un tempo. Bloomberg Businessweek pensa che l’industria musicale e Taylor Swift non esistano come entità separate: Swift “è l’industria musicale”, scrivono in copertina, e in effetti è molto difficile trovare, negli ultimi dieci anni, un artista che abbia venduto così tante copie in così poco tempo da trasformarsi istantaneamente in battistrada di una nuova concezione commerciale (che poi è vecchissima) che s’organizza intorno a un principio fondativo: pagare per ascoltare. Una cosa è il musicista di successo, un’altra è quello che cambia le regole del gioco. Nella prima settimana il disco “1989” ha venduto un milione e trecentomila copie, ovvero il 22 per cento dell’intera industria discografica. Il secondo disco di quest’anno che nella prima settimana ha venduto di più è quello dei Coldplay, “Ghost Story”, con 383 mila copie, giusto per fare un paragone. La potenza commerciale Swift è di un altro livello, viaggia su altre galassie, roba da far sembrare Lady Gaga, Beyoncé o Katy Perry fenomeni passeggeri. Per battere il record delle vendite settimanali bisogna tornare al “The Eminem Show”, anno 2002, il mesozoico delle ère discografiche, quando ancora i Metallica litigavano con Napster e YouTube non era stato concepito.
La ragazza che a Nashville sognava di diventare una star del country e ora va a vedere le partite dei New York Knicks con Kate Upton e si fa i selfie con Lena Dunham ha fatto un balzo talmente lungo e rapido che ora può influenzare lo sviluppo futuro della distribuzione musicale. Ha dimostrato che la gente è disposta a pagare i prodotti che desidera, e ci voleva lei per riscoprire l’acqua calda e con gesto perentorio ritirare il suo prezioso materiale dal repertorio di Spotify, che offre abbonamenti flat per sentire musica in streaming. Certo, non tutti gli utenti comprano Spotify per ascoltare Taylor Swift, ma se la piattaforma musicale che vuole cambiare il mondo non distribuisce l’album che vuole cambiare le piattaforme musicali qualcosa non va. La vastità dell’archivio è un tratto decisivo di chi offre musica in streaming, ne va della riuscita del modello, e i miseri 500 mila dollari che sono finiti – secondo il produttore di Swift, il ceo dell’azienda, Daniel Ek, ha una proiezione dei profitti leggermente diversa – nelle sue tasche sono ridicoli rispetto all’enormità del successo della cantante. Da Spotify l’artista ha ricavato l’equivalente di 50 mila cd venduti sugli scaffali, e visto che quel traguardo lo ha superato probabilmente nel giro di un quarto d’ora dalla messa in vendita, tutto il resto è profitto incongruo, lavoro sottopagato, forse addirittura furto. La gente là fuori è disposta a pagare per la musica e voi la svendete così? E via dunque a gambe levate, seguita con passo appena più incerto da altri artisti ed etichette che scelgono la via della diserzione dallo streaming sottopagato. Non che Taylor Swift abbia intenzione di esibirsi in una critica del plusvalore, ma concettualmente si parla della riappropriazione, da parte degli artisti, di un valore che esiste in quanto gli utenti – noi – sono disposti a pagare. Pagare, d’accordo, ma con quale modello? Dall’inizio dell’anno i download di singole canzoni su iTunes sono crollati del 14 per cento, e il gigante di Tim Cook ha iniziato a offrire tariffe flat da 10 dollari al mese per musica e video in streaming.
[**Video_box_2**]Al parco buoi dell’industria musicale il modello dello streaming con molte condivisioni e bassissimi margini piace. Il mercato di Spotify e simili è pieno di musica per cui gli utenti pagano (pochissimo) ma che non comprerebbero mai se dovessero fare un download mirato: per il gruppo di periferia che cerca di pagarsi un tour meglio pochi spiccioli dello streaming che la totale assenza di mercato. Per Swift è tutto completamente diverso, eppure la piattaforma in cui le sue canzoni milionarie scorrono è la stessa dei gruppi emergenti e mediocri. Casey Rae, vicepresidente della Future of Music Coalition, dice che “non c’è mai stato un singolo business della musica. Perché ci aspettiamo che l’èra digitale offra una soluzione che va bene per tutti? Dovremmo considerare quali modelli di business generano la maggiore quantità di opportunità, per i musicisti, di raggiungere ascoltatori e guadagnarsi da vivere”.
A ciascuno il suo posto nel mercato
Se si accetta la premessa di Rae si può dire che mandando a quel paese Spotify, Swift ha fatto a tutti i suoi colleghi un favore enorme. Le è bastato comportarsi da Taylor Swift, dare un’occhiata al mercato e pretendere di massimizzare i profitti, abbandonando le piattaforme inadeguate al cash flow che la sua musica genera e incoraggiando così la ricerca di nuovi modelli modelli di business, o di nuovi strati e categorie nel grande modello dello streaming, soluzione inevitabilmente vincente. Dal punto di vista del mercato, il gesto della cantante e del suo produttore è molto più rivoluzionario di quello degli U2 che rilasciano gratuitamente il disco su iTunes, alimentando i luoghi comuni sulla gente che ormai non paga più per la musica, polverizzato da Swift poco dopo. Lo streaming è il presente e il futuro dell’industria musicale, ma deve ancora trovare un assetto adeguato alla complessità del mercato. E’ quello che cercherà di fare YouTube con il nuovo servizio Music Key.
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