Addio Leoncavallo. Perché non esiste uno spazio a sinistra del Pd
Lo spazio per una classica formazione socialdemocratica che si collochi a sinistra del Pd di Renzi, vale a dire della principale forza del Partito del socialismo europeo, è forse ancora più evanescente di quello riservato dagli elettori alla destra moderna e antiberlusconiana di questi venti anni.
C’è in Italia uno stuolo di politologi che ha passato gli ultimi vent’anni a preconizzare l’avvento di una destra moderna, liberale e finalmente europea, che avrebbe immediatamente posto fine all’anomalia rappresentata da Silvio Berlusconi. Dal 1994 a oggi, il campione di questa nuova destra presentabile è stato indicato, di volta in volta, in una lunga serie di potenziali leader, talmente lunga che per ragioni di spazio dobbiamo limitarci ai cognomi: Dini, Follini, Casini, Fini (problemini, per un Berlusconi, oggi perlopiù scomparsi dalla scena politica assieme ai rispettivi partiti) e infine Monti, il cui partito ha prodotto in pochi mesi più esodati della legge Fornero. Dopo vent’anni di simili analisi e retroscena, ovviamente sempre confermati da sondaggi da urlo, il primo e unico esempio di leadership alternativa che sia riuscita a togliere qualche voto a Forza Italia è venuto dall’inventore del “Vaffa Day”. Alla faccia della destra presentabile, liberale e finalmente europea.
Gli esponenti più agguerriti delle varie minoranze del Pd farebbero bene a meditare a lungo su questa vicenda, prima di immaginare o minacciare scissioni. Lo spazio per una classica formazione socialdemocratica che si collochi a sinistra del Pd di Renzi, vale a dire della principale forza del Partito del socialismo europeo, è forse ancora più evanescente di quello riservato dagli elettori alla destra moderna e antiberlusconiana di questi venti anni: un monolocale uso retroscena. Alle prossime elezioni, per il Pd, i problemi potranno venire semmai da una formazione radicale e antagonista, che faccia concorrenza al populismo grillino sul fianco sinistro, così come sul fianco destro ha già cominciato a fare Matteo Salvini. Ma è un ruolo inimmaginabile per gran parte degli esponenti della minoranza. E se il passaggio di Pippo Civati dalla Leopolda al Leoncavallo potrebbe essere traumatico, l’idea di una manifestazione antagonista guidata da Massimo D’Alema o Rosy Bindi a braccetto con qualche indignato con la maschera di Guy Fawkes appare addirittura surreale.
[**Video_box_2**]Eppure, a giudicare da toni, gesti e parole dei suoi diversi esponenti, si direbbe che tra le molteplici minoranze del Pd l’idea di una rottura sia ormai entrata nel novero delle ipotesi possibili e degne di considerazione. Di sicuro, ha da tempo superato il livello in cui uno scenario, a forza di evocarlo, rischia di realizzarsi da sé, persino contro la volontà degli evocatori. E chissà che Alfredo D’Attorre non volesse allontanarla, quell’ipotesi, quando mostrava ai giornalisti l’epistolario togliattiano dal titolo “La guerra di posizione in Italia”, per assicurare di prepararsi a una lunga guerra di posizione nel Pd. Non ci avventureremo in un’esegesi gramsciana del concetto e tanto meno della sua trasposizione dattorriana all’attuale campagna contro il social-renzismo. La guerra è chiarissima ed evidente a tutti. La posizione un po’ meno.
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