Falce e trivella
E ora come fa Obama, se il grande oleodotto glielo chiede il suo partito?
La scheggia pragmatica della sinistra lotta per approvare la pipeline Keystone su cui il presidente minaccia il veto. Un ritardo di sei anni.
New York. Barack Obama dice che la posizione sull’oleodotto Keystone che dovrebbe congiungere i giacimenti del Canada alle raffinerie che si affacciano sul Golfo del Messico “non è cambiata”, il che significa che una posizione non c’è. Si tratta di aspettare l’ennesimo parere del dipartimento di stato, capire l’esatta traiettoria dell’opera, riquantificare l’impatto ambientale e, insomma, prendere altro tempo, come la Casa Bianca ha fatto con metodo negli ultimi sei anni. Dal momento che un disegno di legge per approvare l’oleodotto si affaccia al Congresso, il portavoce della Casa Bianca durante il viaggio asiatico ha ricordato che in passato “i consiglieri della Casa Bianca hanno raccomandato il veto presidenziale su una legislazione del genere”. Non significa necessariamente che Obama sia pronto a bloccare l’operazione per decreto, ma il messaggio è chiaro. Problema: ora la proposta arriva dalla sponda democratica. Diverse corse elettorali del midterm, specialmente nel sud dove l’industria petrolifera sostiene decine di migliaia di posti di lavoro, hanno visto l’allineamento degli sfidanti su trivellazioni e promozioni di energie non rinnovabili; la League of Conservation Voters, il gruppo ambientalista più danaroso, ha deciso di sostenere alle elezioni molti candidati repubblicani, un po’ per sottolineare che la difesa dell’ambiente è una causa bipartisan, un po’ perché essere democratici non significa necessariamente battersi con furore antagonista contro l’industria petrolifera. Basta chiedere alla senatrice democratica della Louisiana Mary Landrieu, che per ribadire il suo sostegno all’oleodotto Keystone ha introdotto un progetto di legge che ne approverebbe la costruzione. Il Senato potrà votarlo a partire da martedì. Ieri un testo simile è passato alla Camera con 31 voti democratici e la firma del repubblicano Bill Cassidy, il deputato che ha sfidato l’uscente Landrieu per un seggio al Senato. I due sono andati al ballottaggio, e da qui al 6 dicembre la democratica si gioca le residue speranze di rielezione sulla fiorente industria del petrolio.
Il senatore repubblicano John Hoeven – del North Dakota, stato dove il petrolio ha invertito perfino il declino demografico – co-sponsor del disegno di legge, non è certo che si riescano a trovare i sessanta voti necessari per far passare il progetto, ma la conta di Landrieu al momento si ferma a quota 58, e c’è ancora margine di persuasione. Ovviamente per la senatrice si tratta della battaglia della vita: le sue speranze di rielezione sono appese all’oleodotto della discordia e a quella manciata di voti che la eleggerebbero madrina del progetto. Ma oltre la circostanza elettorale c’è l’imbarazzo evidente di un partito e di un presidente che hanno appena strappato alla Cina la promessa di iniziare a ridurre, un giorno, le emissioni nocive, primo passo verso la (ri)costruzione dell’immagine obamiana come eroe dell’ambiente e castigatore degli scettici sui cambiamenti climatici.
[**Video_box_2**]L’affare Keystone mostra però che la realtà è più complicata di un convegno sul clima. L’oleodotto promette migliaia di posti di lavoro e incremento della produzione petrolifera interna, un altro passo verso l’indipendenza energetica che dopo la rivoluzione dello shale non appare così lontana. In più, una review del dipartimento di stato – a cui Obama ha affidato il giudizio sul dossier – dice che “è improbabile che l’approvazione o il rifiuto del progetto influenzi in modo significativo l’estrazione”. Significa che anche senza l’oleodotto le inquinanti attività estrattive in Canada non rallenteranno e il petrolio sarà portato in raffineria con mezzi lenti e costosi, per lo più alimentati a benzina. Landrieu e i democratici pro petrolio ne fanno una questione di efficienza e di crescita, parole che trovano più consensi a destra che nella Casa Bianca degli accordi storici sul clima.
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