“Sta’ tranquillo, andrà tutto bene, e adesso mangiamoci qualcosa di dolce, ci vuoi sopra un po’ di salsa?”

Autunno a New York

Annalena Benini

Due mamme, quattro bambini (più due nativi), molti hot dog, il ranger di Liberty Island, scheletri e barboncini vestiti da zucca, l’albero di pere e la vera paura. Tizio che dai pugni al vetro della porta girevole, vattene da quest’isola, esci dal regno di Oz: questo è il posto dei bimbi. Diario di viaggio.

“Caro diario, poi siamo andati al Guggenheim, che era pieno di quadri insensati e mio fratello non riusciva a bere dalla fontanella perché è basso, allora si è arrabbiato e ha provato a salire sul muretto bianco a forma di chiocciola. La mamma ha urlato, un poliziotto ha urlato ‘dengerus’, poi siamo andati al parco” (Benedetta).

 

Andare nei posti con i bambini non serve soltanto a costringerli a tenere un diario: serve a cambiare l’equilibrio degli adulti con le cose del mondo. Fino a quel pomeriggio avevo pensato che il Guggenheim di New York, così bello dentro e fuori, così placido e ciccione, con gli hot dog all’uscita e così di fronte all’ingresso di Central Park, così basso anche, in confronto alla città, fosse come Tiffany per Holly Golightly, un posto dove non può succedere niente di male. Un luogo bianco di mezza età, gentile, disposto a rappresentare qualcosa di raggiungibile, senza milioni di scale da salire, senza la fila lunga per gli ascensori, ma con la possibilità di un cappuccino, sempre, di una foto ricordo, soprattutto con le foglie degli alberi color New York in autunno. Nel momento in cui sono entrata al Guggenheim con i bambini dalla porta girevole, invece, è cambiato tutto. Anche la porta girevole ha tradito l’idea di semplicità, perché i miei figli e i loro amici non l’hanno usata come porta ma come giostra per fare cento giri al galoppo, e un tizio che invece la stava usando nel modo giusto, come la porta da cui uscire dal Guggenheim, si è infuriato e ha cominciato a dare pugni sul vetro, è intervenuta una guardia. Ehi calmati tizio, siamo a New York, non è il posto che idolatra l’infanzia questo? Dove tutti i polpacci delle signore anziane sulla Quinta strada sono martoriati dai monopattini dei ragazzini che vanno in picchiata verso il parco. Dove le persone che abitano a New York la notte sognano che nel loro appartamento all’improvviso compaiano undici metri quadri in più, e anche un figlio in più. Dove i bambini hanno molti negozi di parrucchieri solo per loro, un palazzo di caramelle a tre piani e un ingresso al parco dedicato, il Children’s Gate, anche se la scritta incisa nella pietra è un po’ nascosta dal venditore di hot dog, e hanno la statua di Alice nel paese delle meraviglie su cui arrampicarsi, le barche a vela telecomandate sul laghetto, tutte le cose per cui gli adulti vanno pazzi perché sono da bambini ma nel modo avveduto e saputello dei bambini di New York. Hanno anche, quando si sale all’Empire State Building, la possibilità (gratis per chi ha meno di sei anni) di sedersi al cinema, allacciarsi le cinture e fare una specie di finto giro in elicottero per New York, con la poltrona che si muove e, nello schermo, tutta la città in fuga dall’elicottero, anche gli scoiattoli del parco e i venditori ambulanti. Quindi, tizio che prendi a pugni la porta girevole, vattene da quest’isola di cui non sei degno, esci dal regno di Oz. Qui al Guggenheim resteranno solo i bambini e i loro orsi di pezza con i rollerblade sulle zampe, e gli adulti invece di guardare i quadri di Piero Manzoni cercheranno di impedire ai figli di usare la spirale bianca come uno scivolo fino al piano terra.

 

[**Video_box_2**]Prometteranno pretzel, pop corn, schifezze, televisione, iPad o anche tutte le cose insieme, minacceranno punizioni e prigioni (anche: ti metto su un aereo e torni a casa da solo, tutte le minacce assurde e prive di logica per cui i ragazzini giustamente ci deridono), terranno in ostaggio gli orsi, proveranno a spiegare la bellezza di un piatto sporco di sugo piantato su una tela assieme alle posate, senza riuscirci (ma che schifo, quello sarebbe un quadro?), infine, sconfortati, sudati, vergognandosi, andranno a riprendere il cappotto al guardaroba con la faccia della sconfitta. Ma la signora del guardaroba, prendendo il bigliettino con il numero, dirà: complimenti, quasi due ore con quattro bambini e quattro orsi, è il record di oggi. E sul regno di Oz tornerà a splendere la luce meravigliosa delle quattro del pomeriggio. Niente è andato sprecato, niente è troppo frustrante, è tutto ancora in bilico fra l’aspirazione e l’arrangiarsi, come in questa città dove quelli che entrano o escono dalle porte girevoli hanno un desiderio profondissimo e febbrile, ma temperato dalla capacità di adattamento (non sarà perfetto, ma intanto sono qui), placato da quegli hot dog ambulanti, e dalla vista dal parco, nel punto in cui si guardano le luci e i palazzi dall’altro lato. Ci si protende verso l’altro lato, come faceva Gatsby con la luci verde oltre la baia, ci si sente pieni di possibilità e ricchezze (“la speranza del sogno”, ha detto ai bambini, che non ascoltavano ma lanciavano in aria mucchi di foglie secche, il ranger che spiegava la storia della Statua della libertà, e ha raccontato il silenzio di quelli che arrivavano dentro le navi, e a un tratto vedevano la Statua, e subito dopo l’esplosione di gioia che si sentiva dalla città), si pensa: che bellezza, e si desidera tantissimo essere lì, pur essendoci già, insomma è un momento romantico, struggente, in cui si decide che ne valeva la pena, una settimana di bambini a New York, fino a che: “Gli altri sono con te?”, “No, erano con te!”. Abbiamo, la mia amica P. e io, perso tre bambini su sei a Liberty Island, quindici minuti prima che ripartisse il ferry boat, due ore prima della festa di Halloween/compleanno (uno dei sei), con un vento fortissimo, che faceva volare via i cappelli e copriva le voci (poteva gettare nell’Hudson tre ragazzini che si sporgono verso le papere?).

 

Perdere i bambini è il mio incubo supremo, divento pazza appena mi giro e non ne trovo uno, ho anche escogitato un sistema di magliette fluorescenti per individuarli a decine di metri di distanza, sogno un microchip con segnale luminoso e microfono, collegato a una app del telefono, vengo presa in giro per questo, ma non mi importa perché niente è peggio che guardarsi intorno e vedere una muraglia di esseri umani sconosciuti e chiamare i bambini per nome senza sentire risposta. In quel momento, sotto la Statua della libertà, ho capito perché detesto Halloween: detesto avere paura anche solo per scherzo, mi annoia fingere spavento e mi terrorizza spaventarmi davvero. Ci siamo messe a correre e a chiamarli per nome, con gli altri tre che non erano preoccupati, e anzi avevano fame, sete, pipì, male a una gamba, prurito al naso e chiedevano distrattamente se i fratelli erano morti. Li abbiamo ritrovati attorno a un ranger, eccitatissimi, mentre cercavano di dare informazioni utili al nostro ritrovamento (come se ci fossimo perse noi, che ci eravamo sgolate per spiegare la regola numero uno: appiccicàti sempre come gruppi di giapponesi): la mia mamma ha un berretto blu, la mia ha una sciarpa blu e sarà la più arrabbiata del mondo. Mia figlia mi ha abbracciato e detto: “Mamma, pensavo che stavo per morire, andiamo a pattinare sul ghiaccio?”, e siamo saltati sul traghetto urlando (tanto con il vento non si sente niente), sgridando, annullando televisione, caramelle e regali per l’eternità.

 

Sarebbe stato spiacevole, del resto, arrivare in ritardo alla casa nel New Jersey follemente addobbata da Halloween (enormi zucche gonfiabili, scheletri dondolanti, occhi cattivi alle finestre, quadri di bambine insanguinate, statue a grandezza naturale di bambine insanguinate) e dire: è stato molto bello, la Statua della libertà è commovente, si sente tutta la speranza, si sentono i sogni, solo che abbiamo perso tre bambini, tra cui uno vostro, però per fortuna non il festeggiato, l’altro. Invece c’erano tutti, mascherati e avvolti da ragnatele spray, e mangiavano muffin a forma di pupilla e würstel a forma di dita mozzate e guardavano felici la mangiatrice di fuoco, e intorno a loro, intorno a noi, si avvertiva la tensione degli adulti per la gara sulla casa meglio travestita da strega, per il trucco più spaventoso, il catering più sconvolgente (un’enorme torta a forma di casa stregata, con i pipistrelli e i mostri, veniva lodata non perché fosse assurda, coloratissima, probabilmente disgustosa, ma perché era senza glutine. Il glutine è il nemico pubblico: i genitori americani curano i figli con le anfetamine, quando sono troppo distratti a scuola, però tutto il cibo è gluten free). Si sentiva il materialismo eroico, a diciotto miglia da Manhattan, che impone a tutte le famiglie di mettere un segnale fuori dalla porta (la luce accesa nel portico, o un teschio penzolante) che significa: suonate, entrate, venite qui a fare dolcetto o scherzetto, noi vi apriremo, vi daremo porta-caramelle a forma di bara e lecca lecca a forma di cervello comprati apposta, e vi mostreremo in cambio i nostri ingressi spaziosi, il nostro giardino sul retro con le poltrone di legno, il nostro barboncino travestito da zucca. Non un solo angolo della casa era libero da scheletri, ragni, fantasmi con gli occhi rossi che si accendevano appena passavi accanto (e partiva una vocetta gracchiante che diceva: vieni quiii), e quando siamo andati a dormire, con i materassi per terra, i quattro bambini italiani hanno avuto una solenne crisi di terrore collettiva e abbiamo dovuto trasportare tutti i mostri (centinaia) nel giardino ghiacciato, mentre i bambini americani, totalmente privi di paura del mondo o anche solo soggezione e stupore, sgranocchiavano schifezze zuccherose (però senza glutine) e si addormentavano a torso nudo come veri uomini, come i tre inquilini muscolosi e universitari che di tanto in tanto scavalcavano educatamente il mio materasso per andare in bagno. In questa casa di legno – e in tutte quelle di arenaria, e negli appartamenti al piano terra di Brooklyn, e in quelli di Manhattan visti mille volte nei film di Woody Allen, con la cucina dove sembra sempre ripetersi la scena dell’aragosta di “Io e Annie”, e dove lo studio è uno scrittoio in un angolo del salotto, o un gradino sotto la finestra – è cominciata la lenta, affollatissima marcia verso il Natale. Al Rockefeller Center hanno montato l’albero di Natale (per farlo hanno chiuso la pista di pattinaggio nell’unico pomeriggio in cui abbiamo ceduto alle insistenze dei bambini e preparato calze, guanti, altre minacce e pantaloni di ricambio per portarli a pattinare; il risarcimento ricevuto dai ragazzini per questo inciampo nel regno di Oz verrà conservato nei segreti di famiglia di cui non si va fieri) e sul ponte di Brooklyn, travolti dalle biciclette, o per strada con la mano alzata nella lotta individualista e priva di qualunque lealtà per i taxi, o con in mano il panino gonfio di pastrami che cade sui pantaloni, e nelle librerie in cui i bambini italiani e americani si uniscono nell’esaltazione per il “Diario di una schiappa”, e nei ristoranti con il tavolo vicino alla vetrina, o nei supermercati con i carrellini per magri che comprano una mela e un po’ di sushi, si sente l’attesa di qualcosa di bello. L’aspirazione a un Natale fantastico, a una fine d’anno rumorosa e felice, con i palloncini attaccati a un filo fuori dai negozi, e l’albero dei sopravvissuti a Ground Zero pieno di foglie nuove. E’ l’unico albero, un albero di pere, trovato fra le macerie dell’undici settembre con il tronco ancora vivo. L’hanno portato nel Bronx, curato per anni, riportato a Ground Zero, celebrato nel modo in cui l’America sa celebrare e rinominare ogni foglia. Se ne sono accorti i bambini: perché quell’albero è più verde, perché è diverso dagli altri? Gli altri sono piccole querce bianche, centinaia, e l’albero di pere ha intorno un cerchio di ferro che lo protegge, è sostenuto da cavi d’acciaio, e però è lì, vivo, vicino alle due vasche piene d’acqua che scroscia. “Ma esiste davvero questa storia?”, ha chiesto il più piccolo, quello che voleva usare il Guggenheim come uno scivolo. Sì, certo che esiste. “Ma esiste ancora?”. Beh, sì, esiste ancora. “Ma come gli scheletri alla festa, che poi li hai messi in giardino, o davvero?”. Ecco perché, di nuovo, detesto Halloween (non solo per il tentativo violento di far travestire gli adulti da vampiri, con i denti di plastica e il rivolo di sangue dipinto e le unghie finte che impediscono di usare il telefono): lo spreco della paura finta, la paura di quella vera. Ho risposto nell’identico modo in cui mi sembra che ogni cosa risponda, a New York, dalle guglie dei palazzi ai controlli prima di prendere il battello per la Statua, alla fila nel negozio di giocattoli per costruire il proprio orso di pezza, a cui prima di tutto bisogna mettere dentro il cuore: sta’ tranquillo, andrà tutto bene, e adesso mangiamoci qualcosa di dolce, ci vuoi sopra un po’ di salsa? Il bambino non ha voluto la salsa, solo un hot dog vuoto (ma zeppo di glutine, come atto di ribellione) e per tutta la settimana ha disegnato palazzi che crollavano e gabbiani che fuggivano a piedi, nuvole con la bocca aperta per lo spavento, cani al guinzaglio che trascinavano via i padroni, anche un sole in fuga, con i raggi come gambe. Ma poi si è affacciato a lungo dall’ottantaseiesimo piano dell’Empire State Building (dove non si possono immaginare scivoli, o tuffi nell’oceano, dove non si può perdere nessun bambino), con il sole addosso, e il vento che copre tutti i rumori, e un piccolo King Kong di peluche stretto al petto, e ha detto: questo è il mondo, com’è bello.

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  • Annalena Benini
  • Annalena Benini, nata a Ferrara nel 1975, vive a Roma. Giornalista e scrittrice, è al Foglio dal 2001 e scrive di cultura, persone, storie. Dirige Review, la rivista mensile del Foglio. La rubrica di libri Lettere rubate esce ogni sabato, l’inserto Il Figlio esce ogni venerdì ed è anche un podcast. Ha scritto e condotto il programma tivù “Romanzo italiano” per Rai3. Il suo ultimo libro è “I racconti delle donne”. E’ sposata e ha due figli.