L'operaio di successo
Da una portineria di Torino fino ai vertici della Fiat. Riccardo Ruggeri racconta la sua epopea di imprenditore. Tanta nostalgia per Valletta. Poi fu il diluvio. Le macchine agricole erano sull’orlo del fallimento. La sua cura ha triplicato il fatturato, New Holland è diventata un modello.
E’ la storia di un bambino cui il padre insegna che le carriole bisogna spingerle, mai tirarle, lo vediamo in una foto a sette anni che spinge con fierezza, guardando dritto davanti a sé. E’ la storia di un operaio, figlio di operaio, nipote di operaio, che si ritrova a salire nella gerarchia Fiat del secolo scorso, fino a diventare il Marchionne degli anni 90, a entrare nel sancta sanctorum al fianco dell’Avvocato, a gestire il settore delle macchine agricole, ircocervo un po’ Fiat e un po’ Ford perché Gianni Agnelli non ha saputo dire di no all’amico Henry e siccome è un vero signore non ha nemmeno tirato sul prezzo, il risultato è un gruppo sull’orlo del fallimento, anzi tecnicamente già fallito. Ma l’operaio figlio di operaio in millecinquecento giorni lo rimette in sesto, ne triplica il fatturato, lo introduce alla Borsa di New York, dove in poco tempo prende trentadue volte il valore che aveva prima della cura e comincia a generare per gli azionisti profitti a valanga: la New Holland diventa un esempio di management studiato in tutto il mondo. Come ringraziamento per aver vinto una sfida difficile, viene dall’oggi al domani pregato di accomodarsi fuori, ufficialmente per aver raggiunto i limiti d’età dei manager operativi, 61 anni, in verità perché gira e rigira la Fiat è comunque Italia e anche lì una sola cosa non si perdona: il successo.
Riccardo Ruggeri è stato, lo dice lui stesso con una punta di civetteria, un operaio “di successo”. Quando divorzia da Fiat, i cacciatori di teste di mezzo mondo vanno a cercarlo, ma lui dice di no, ha altri piani, un anno sabbatico, le consulenze internazionali e guadagnare più soldi possibile per mettersi quanto prima in proprio come imprenditore senza essere costretto a subire ricatti e pressioni da parte delle banche. Oggi, a ottant’anni, mentre da lontano getta un occhio alle sue imprese, moda, assicurazioni, agroalimentare, si attarda negli interstizi del giornalismo, della saggistica e dell’editoria, ha fatto ristampare l’autobiografia “Una storia operaia” la cui prima edizione è del 2009. Ha appena festeggiato le nozze d’oro con la moglie Lilli, è nonno felice. Recentemente è andato da un notaio per fare testamento: ha realizzato di essere il primo in quattro generazioni della famiglia, gli altri avevano ben poco da lasciare, e deve essergli venuto un groppo alla gola. Come ogni volta che dalla Svizzera, dove risiede, vede gli amati italiani: teme che un giorno noi tutti si finisca per essere loschi e tristi come quelli di su, quelli del centro e del nord Europa.
Vittorio Valletta, seduto al centro, e Gianni Agnelli nella nuova Bianchina: è il 1957
Vorrebbe vederci innovativi, solari, leggeri, d’attacco, rapidi nell’azione, sempre in movimento, più solidali fra noi, capaci di fare squadra, meno avidi, lui che probabilmente è l’unico manager al mondo che non ha mai avuto stock option. A differenza dei politici che dicono che un problema complesso ha soluzioni complesse solo per mascherare la propria inettitudine, vorrebbe che si imparasse a ridurre la complessità in complicazioni piccole, affrontabili e risolubili una alla volta. Ci vorrebbe vispi, reattivi perché le crisi non si combattono, non si subiscono, si cavalcano. La crisi è igiene dello sviluppo aziendale, dei mercati: smuove posizioni radicate, incrostate, azzera rendite e privilegi, è eminentemente democratica. Ma per coglierne tutte le opportunità, occorre classe dirigente formata e selezionata sul campo che capisca al volo. I segnali deboli esistono, bisogna solo saperli annusare. Che sarebbe arrivata la tempesta perfetta dice di averlo capito un po’ prima. Quando un amministratore delegato di una grande società che nel volgere di poco tempo aveva acquisito due concorrenti di pari taglia annunciò che in un anno aveva ritrovato il livello dei profitti precedenti le acquisizioni. Di norma ne occorrono tre per andare in pari e a volte non è nemmeno detto che ci si riesca. Dunque quel manager aveva potuto abbellire i risultati e continuare così il balletto delle stock option solo con i prodotti derivati, era entrato nel mondo della carta straccia, nella versione moderna del gioco delle tre carte. Quando in un super-ristorante per super-manager viene servito a prezzi astronomici un primo piatto a base di tagliatelle all’uovo marinato insaporite all’acqua Panna, si può capire definitivamente che la frittata è fatta. Allora il bravo imprenditore vende tutto quello che ha, si fa liquido per afferrare la prima occasione che passa.
[**Video_box_2**]Non molti hanno avuto o hanno questa capacità di reazione e guarda caso non sono quelli che hanno curricula universitari chilometrici. Gli altri, quelli che parlano di vision e di mission sembrano usciti dallo stesso stampo. Si costruiscono la carriera, in sei mosse, sempre le stesse: laurea a pieni voti, master in grandi università di preferenza anglosassoni, perfetta conoscenza dell’inglese, consulenze in McKinsey o in Goldman Sachs, poi assistente dell’amministratore delegato e infine amministratore delegato. Quando Robert C. Merton, esimio matematico di Harvard, scrive l’algoritmo che pretende di azzerare ogni rischio negli investimenti e che nel 1997 gli frutta pure il Nobel per l’Economia, questo diventa la bibbia dei trader di tutto il mondo. Ma seriamente si può ridurre il mondo reale a un’espressione matematica?
Paradossalmente la “storia operaia” è questo: la rivincita della portineria del civico 9 di piazza Vittorio Veneto, Torino, contro i metodi che le grandi scuole usano per selezionare e formare le élite che governano le sorti dell’economia mondiale.
La scuola da cui è uscito Ruggeri è tutt’altra. C’è ancora il fascismo, la nonna fa la portinaia del palazzo del conte Prato Previde, dove ai piani nobili abitano conte e contessa, al terzo l’architetto Ettore Sottsass senior, padre del più famoso Ettore junior, commercianti variamente ricchi, la servitù nelle mansarde. Una portineria di quindici metri quadrati, due camere intercomunicanti dove vivono in cinque, nella prima la portineria vera e propria, un tavolino e un paravento di stoffa a fiori e dietro, un tavolo, quattro sedie, una stufa che serve pure per cucinare, alla sera lì si mettono le brande per il bambino e i suoi giovani genitori. Il gabinetto, la presa del gas per il fornello e il lavandino con l’acqua corrente sono in cortile. Nella seconda camera, il letto matrimoniale dei nonni e l’armadio che contiene gli abiti di tutti. Il ricordo peggiore di quegli anni, scrive Ruggeri, è l’odore, “un misto di umanità, minestrone, carbone, fiori morenti, umidità”.
Il nonno professa apertamente idee comuniste, lo chiamano Stalin perché conserva gelosamente nel portafoglio una foto che lo ritrae in alta uniforme da ammiraglio. E’ un antifascista innocuo ma è comunque schedato e viene fermato per una notte ogni volta che il Duce è in visita a Torino. Lavora alle Ferriere Piemontesi, altoforno 5, un reparto confino. Il bambino gli vuole bene ma non ha una grande ammirazione per questo uomo che fa piangere la nonna tradendola sistematicamente, con la camiciaia chic del palazzo, con la panettiera del civico 7.
Una domenica su due, i maschi della famiglia corrono al Filadelfia: ardono di passione granata, il nonno spiega subito al ragazzino che il Torino è la squadra degli operai, la Juventus quella del padrone e dei fascisti. Quando è quest’ultima a giocare in casa, lui si affretta a scaldare il letto e la consorte di qualche tifoso juventino andato incautamente allo stadio. Nei derby, quando il Toro alla Juve gliele suona, cosa che a quei tempi accade assai spesso, la famiglia festeggia con farinata e gazzosa. Quando muore, il nonno lascia al nipote le sue tre paia di scarpe di cuoio grasso, nero, marrone e bicolore per l’estate.
Cuore granata e per sempre è la prima lezione impartita dall’aristocrazia operaia, consapevole di avere la forza nelle mani e nell’organizzazione e la dignità nel mestiere. Gente che non batte la fiacca, non conosce l’alienazione, trasformare la materia è per loro come una vocazione religiosa.
La vita in portineria piega il giovane alla dura disciplina quotidiana della scarsità. Il padre gli inculca i primi insegnamenti sull’esistenza: “Ci sono gli operai e gli operai-portinai, come noi. I primi durante la giornata di lavoro sono operai servi, poi alla sera tornati nelle proprie case acquisiscono la dignità di operai. Quelli come noi durante il giorno sono operai-servi come tutti gli altri, ma alla sera sono soltanto dei servi”. L’analisi, lucida, non lascia spazio al piagnisteo e si chiude con realismo: “Per ora purtroppo non possiamo fare diversamente”.
[**Video_box_2**]Fosse stato Henry Fonda in un film di John Ford sarebbero parole di culto. Si può solo immaginare quanto un ragazzo, poco più di un bambino, avido di sapere e di capire, abbia riflettuto, rimuginato sul messaggio di prudenza e audacia, durezza e speranza che viene dalla scelta meditata degli avverbi, purtroppo, per ora, diversamente. Sagge parole di un padre, quando ancora non si erano spente le voci dei padri. Non fosse morto a poco più di quarant’anni, Carlo Ruggeri non avrebbe sfigurato nella nuova classe dirigente del paese. Operaio e poi impiegato della Fiat, innamorato a prima vista di una bella anarchica nata dalle parti di Carrara, è una coppia tosta, non danno le fedi alla patria, le tengono in bella evidenza in pubblico, lei sul tram, lui in fabbrica. Offre un piccolo contributo alla Resistenza dando rifugio in casa a un ufficiale dell’intelligence inglese paracadutato su Torino per una misteriosa missione. Alla fine della guerra, quando la Fiat passa sotto il controllo del Comitato di liberazione nazionale, viene promosso capufficio, ma quando gli chiedono di prendere la tessera del Pci, risponde che non ha combattuto un fascismo per cadere in un altro, non si sente né comunista né azionista. Viene immediatamente rimosso dall’incarico. Nato in Provenza parla correntemente francese e studia l’inglese, sente il fascino della cultura americana, legge i romanzi di Steinbeck e i saggi di Prezzolini a cui non va giù che la Costituzione della nuova Italia fondi le ragioni dello stare insieme sul lavoro e non sulla libertà.
Il padre, che soffre sempre più di cuore per gli elettrochoc con cui hanno cercato di curargli una grave forma di linfopatia, muore l’antivigilia di Natale del 1947. Riccardo Ruggeri piange ma nemmeno tanto, è confluito in me, dice. Scopre di colpo la “lungimiranza sociale” della Fiat di Vittorio Valletta, tornato nel frattempo al comando dopo essere stato minacciato di morte, denunciato, tenuto per mesi agli arresti domiciliari. La mattina del funerale, nel giorno di Santo Stefano, suona alla porta di casa Ruggeri una delle sue assistenti, dice alla vedova che sarà immediatamente assunta in Fiat, addetta alla riproduzione cianografica dei disegni tecnici, che la liquidazione che spettava al padre sarebbe stata raddoppiata come riconoscimento del contributo dato in tempi difficili, che un tutore scelto fra i legali del gruppo seguirà il figlio fino alla maggiore età: welfare d’impresa in piena regola, secondo i canoni della migliore socialdemocrazia.
La vita è un insieme di incontri e in quella di Ruggeri ce ne sono stati a centinaia, nel bene e nel male. Persino la regina Elisabetta, Carlo e Camilla, Saddam Hussein, ovviamente Ghidella e Romiti, i De Benedetti, Carlo e Franco. E gli Agnelli. Gianni, il sole, gran comunicatore, ambasciatore dell’Italia nel mondo ma pessimo stratega. Umberto con la stoffa, il talento e la visione del grande manager, a differenza del fratello capace di lavorare in squadra ma tenuto da parte, messo a guardia della cassaforte della famiglia, perché non ama Cuccia che ha preso in mano le sorti finanziarie del gruppo e diffida di Romiti, la longa manus di Mediobanca. Fiat è in acque agitate. Avrebbe potuto salvarla Carlo De Benedetti che fa in effetti un ingresso fracassante, azzerando i vertici e sopprimendo tutte le funzioni di staff centrale: “Entro due settimane qui non voglio vedere più nessuno”, sbatte i pugni sul tavolo ai piani alti di corso Marconi, chiede a Ruggeri di sistemarli dove meglio crede, con l’avvertenza “che un coglione resta un coglione ovunque lo si metta”. Con queste premesse non c’è da stupirsi che sia durato pochi mesi. L’altro che avrebbe potuto salvare Fiat, dice Ruggeri, è Ghidella, che inventa i pochi modelli di successo con cui la Fiat riesce a restare a galla ma anche lui viene fatto fuori. Si direbbe insomma che da un certo punto in poi la grande Fiat sia stata colta da una sorta di cupio dissolvi. Quando non si investe più con costanza e lungimiranza sui prodotti, quando ci si separa dai brevetti e dai risultati fenomenali delle ricerche più avanzate, come nel caso del rivoluzionario common rail, il miglior motore diesel del mondo, venduto a prezzi stracciati alla Bosch che ancora si sta leccando i baffi. Quando si buttano gioielli di famiglia nella caldaia per cercare di spegnere l’incendio, vuol dire che la politica e gli scontri di potere hanno corroso l’impresa, che le confortevoli moquette hanno preso il sopravvento sull’ingegno.
Nel lungo cammino dalla portineria al vertice, forse è questo il maggiore rimpianto di Riccardo Ruggeri: non aver più ritrovato nell’azienda in cui ha lavorato per tanti anni e che malgrado tutto porta ancora nel cuore, qualcosa dello spirito del tempo di Vittorio Valletta, l’uomo che non conobbe né vacanze, né teatri, né feste né barche. Che è stato con Enrico Mattei il più grande manager italiano del secolo e lasciò alla famiglia Agnelli un patrimonio immenso e nessun debito. Era un duro, ma sapeva che la fabbrica è fatta di uomini e che sono tutti importanti. Per questo al funerale di un impiegato, magari incrociato appena nei corridoi, manda due sorveglianti in alta uniforme blu. Portano una enorme corona di rose con scritto in oro su fondo blu, la Fiat. E le rose sono di colore granata.
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