Il pornonazismo
Da Liliana Cavani a Martin Amis, un penoso filone di voyeurismo sulla tragedia di Auschwitz. Fino a Littell e ai “virtuosi dello schifo”.
Un grande interprete della modernità che se ne intendeva anche di fisting e di sadismo sessuale come Michel Foucault una volta si chiese: “Come è possibile che il nazismo, che era rappresentato da personaggi penosi, squallidi, puritani, della specie delle zitelle vittoriane e tutt’al più viziosette, come è possibile che sia potuto diventare, ora e dappertutto, in Francia, in Germania, negli Stati Uniti, il punto di riferimento assoluto dell’erotismo?”. C’era stato il “Salò-Sodoma” di Pier Paolo Pasolini a rappresentare il bestiale volto della dittatura con gli esercizi di perversione sessuale di quattro maniaci, la ragazza nuda che, malgrado lacrime e preghiere, viene costretta a mangiare escrementi, il banchetto dove escrementi raccolti dai vasi da notte delle vittime e cucinati vengono loro riserviti, la lingua mozzata di un giovane, la ragazza nuda sventrata, il cranio spaccato e il cervello messo a nudo. C’era stata anche “L’ultima orgia del Terzo Reich” di Cesare Canevari, la liaison fra una ex internata e il suo torturatore. Ci sarebbero stati registi come Malle e Fassbinder, tutti più o meno attratti dai festini della Weimar in disfacimento.
Ma la prima a cimentarsi davvero nell’Olocausto spiegato con la lascivia fu Liliana Cavani. Il suo “Portiere di notte” fu un’opera di furiosa tetraggine, una sorta di Grand Guignol nazista sublimato all’erotismo freudiano e ai peggiori istinti. In un albergo di Vienna, nel 1957, ci sono un direttore d’orchestra americano e la sua giovane moglie Lucia, un’ebrea austriaca (nel film ha il volto di Charlotte Rampling), che nel portiere di notte dell’albergo riconosce l’ufficiale delle SS Max (nel film Dirk Bogarde), che elaboratamente l’aveva seviziata, adolescente, in un campo di concentramento. Si riforma il rapporto sado-masochistico del lager, in cui la sopravvissuta procede sempre più impetuosa e ardita del compagno. E non potevano mancare componenti omosessuali.
Ci mettono dentro un po’ di storia, di Tarantino, di voyeurismo, di feticismo, di decadenza, una dose massiccia di sentimentalismo, un pizzico di riflessione teologica sul silenzio di Dio e il gioco è fatto. Soprattutto tanto sesso, nelle sue forme più perverse. Lo storico americano Alvin Rosenfeld, autore di numerosi studi sulla Shoah, scrive che “una delle caratteristiche degli scritti sull’Olocausto è che i protagonisti sono asessuati”. Per questo la recente ondata di film e romanzi sull’Olocausto ribalta questa tradizione, inondandola di “fantasie sessuali che non possono comprendere una esperienza dove l’eros venne del tutto eliminato”. Che senso ha inserire così tanto sesso in una storia di esseri umani rasati a zero, tatuati, frustati, gassati, cremati, di cadaveri aggrovigliati, illividiti, che piovono dalle porte improvvisamente aperte della camera a gas? Li chiamavano “spazzatura”. Altro che oggetti di desiderio.
Che senso ha quella che Rosenfeld ha definito “l’erotica di Auschwitz”? Rosenfeld parla di “volgarizzazione” e di “banalizzazione” dietro a questa operazione letteraria che mescola vagina e zyklon B. “Più diventa mainstream, più la Shoah diventa banale”, avverte Rosenfeld. “Una versione della storia ancora ricolma di sofferenza, ma una sofferenza senza peso morale, quindi più facile da sopportare”.
E’ quello che fa adesso anche lo scrittore inglese Martin Amis con “The zone of interest”, il romanzo che in Francia e in Germania grandi case editrici come Gallimard e Hanser si sono permessi di cestinare con la seguente spiegazione: “Frivolo”. Il romanzo celebra l’amore dell’ufficiale delle SS Angelus “Golo” Thomsen per Hannah Doll, la moglie del comandante di Auschwitz Paul Doll. Il quadro è quello dell’affascinante villa di Paul e Hannah, con il giardino e gli animali da compagnia, il giardiniere polacco, un ex professore di zoologia, e la cameriera, una Testimone di Geova opportunamente chiamata Humilia. Le figlie di Doll viziate, coccolate nella routine di un’infanzia normale, turbate dal loro cavallo malato, il cuore spezzato per l’uccisione della loro tartaruga, ignare dello sterminio tutto intorno. E pervasivo, sia all’interno che all’esterno, l’odore senza sosta di carne umana bruciata.
Alla presentazione del libro, Amis si è divertito a intrattenere i lettori sulla vita sessuale di Adolf Hitler e Eva Braun: “Lui si riempiva le mutande di tovaglioli puliti. Lei, senza avvicinarsi, si alzava la gonna. Lui raggiungeva una specie di orgasmo bagnaticcio e finiva così”. La più dura con Martin Amis è stata sul settimanale liberal New Republic la scrittrice Cynthia Ozick. Cosa c’entra l’Olocausto, lo sterminio industriale di sei milioni di ebrei, con “il grande pene” del nazista Thomsen? Nel sicuro binomio pornografia-violenza Amis ha inquadrato nel mondo dell’orrore assoluto vicende di sesso e di stivali.
Il primo sguardo su Hannah del nazista di Martin Amis è tutto all’insegna della lussuria: “Mentre guardavo Hannah ricurva, il suo corpo in avanti, mi sono detto: ‘Questa potrebbe essere una grande scopata. Una grande scopata’”. E ancora: “Sonder, a Shulamith piaceva che la scopavi?”.
A inaugurare il filone fu lo scrittore americano di orgine polacca Jerzy Kosinski, autore del bestseller “L’Uccello dipinto”, e poi William Styron con “La scelta di Sophie”. Kosinski miscela orrore e bestialità sessuale, in quella che Michael Bernard Donals e Richard Glejzer nel loro studio sulla letteratura e la Shoah, definiscono “una fascinazione autoindulgente”. Chiede il professor Rosenfeld: “Cosa c’entra la passione erotica di Stingo (il protagonista del film ‘La scelta di Sophie’, ndr) con Auschwitz?”. Il grande romanzo di Styron è scritto da un autore protestante e bianco del sud il cui protagonista autobiografico è vergine e desidera sessualmente una polacca cattolica sopravvissuta ai campi e il cui padre era un acceso antisemita. Spiega Joan Smith nel saggio “Holocaust girls”, che “questa giustapposizione di sesso e Olocausto è il segreto del successo di un romanzo”.
“Endstufe” (uscito qualche anno fa anche in Italia con il titolo “Pornonazi”) è il romanzo dello scrittore tedesco Thor Kunkel, vincitore del prestigioso premio letterario Ernst-Willner: racconta la storia di Karl Fussmann, giovane chimico al servizio delle SS, che si innamora perdutamente di Lotte, una prostituta-pornoattrice con cui stabilisce una relazione ossessiva e penosa. Martin Walser ha parlato di Kunkel come di un “virtuoso dello schifo” e di un “serafino dell’oscenità”. Ci sono le immacolate divise e le calze di seta sintetica, gli stivali di cuoio maniacalmente tirati a lucido e i tatuaggi in caratteri gotici. “Due croci uncinate d’oro ballavano sulle sue grandi labbra allungando la carne tatuata con un motivo ornamentale in Jugendstil”. Sarà per questo che l’editore Rowohlt si era tirato indietro all’ultimo momento, lasciandolo all’editore Eichborn che poi lo stampò con una tiratura degna di un bestseller. Ma di “ein Buch für den Papierkorb”, di libro buono per la spazzatura, ha parlato la Neues Deutschland, mentre la Süddeutsche Zeitung ha scritto che tutto quel sesso e nazismo nascondeva un sottofondo ideologico: “Revanscismo e odioso anti-americanismo”. Se la Taz la definì “un’orgia di mancanza di gusto”, la Tagesspiegel parlò di una “prolissità senza limiti in un trash impressionante”. Il più sarcastico fu quel critico letterario che annotò: “Thor Kunkel riscrive la storia del Terzo Reich. Il nazismo non odora di gas, ma di spermatozoo”.
[**Video_box_2**]Perché il pornonazi tira, e Martin Amis lo sa. Soprattutto, se si pretende di farne una “metafora poetica”. Come nel caso di Kunkel, o del romanzo “Cani neri”, in cui Ian McEwan mescola l’Olocausto alla “prima volta” e a frasi del tipo “sentii il mio sesso ritrarsi dentro sua figlia”. O ancora come succede in “Running Dog” di Don DeLillo, che vede al centro del racconto un filmato orgiastico girato nel bunker di Hitler prima del suicidio. La scorsa primavera è uscita la pellicola della regista argentina Lucía Puenzo, “The German Doctor”. Protagonista il medico Josef Mengele e una ragazzina di nome Lilith, la sua dolce Lolita. Una storia di bramosia sessuale, in cui l’aguzzino delle SS posa uno sguardo torbido sulla ragazzina che ha problemi di crescita. L’asfissia sessuale è rappresentata dalle bambole di cui Mengele è attratto. Sono “La casa delle bambole” degli anni Sessanta, tratto dal diario dell’ebrea polacca Daniella Preleshnik. E’ la “Divisione della gioia”, le baracche dipinte di rosa del campo di concentramento, che “si affacciavano su sentieri ben tenuti, fra letti di fiori cremisi” e alle cui finestre “facevano bella mostra tendine di pizzo”. Lì le “bambole” erano adibite al “servizio del piacere”.
Una iniziazione, come quella che la nazista Anna, colpevole di aver bruciato trecento ebrei in una chiesa, impartisce al giovanissimo Michael nel film di Stephen Daldry “The Reader”. Il quindicenne protagonista si sente male per strada, dopo la guerra. Lo soccorre una bionda più grande di lui, interpretata da Kate Winslet, che lavora come bigliettaia sul tram. Un lavoro che le lascia abbastanza tempo libero per passare i suoi pomeriggi a letto con il ragazzo, insegnargli un po’ di kamasutra e farsi leggere da lui, negli intervalli, i capolavori della letteratura universale. Poi sparisce. Si ritroveranno otto anni dopo, in tribunale.
Ron Rosenbaum, il grande storico del “Mistero Hitler”, inserisce in questo filone erotico-sentimentale anche “La vita è bella” di Roberto Benigni, che definisce “disgraceful”. Una sceneggiata pedestre. Come quella di Bryan Singer, il regista dell’“Allievo”, dove un ragazzino matura sessualmente mentre si fa raccontare da un anziano ufficiale delle SS di come le vittime delle camere a gas non volevano saperne di morire asfissiate.
Straordinario il successo commerciale (meno di critica, anche se ha vinto il premio Goncourt) delle “Benevole” di Jonathan Littell, il romanzo sulla vita di Max Aue, ufficiale nazista, omosessuale, incestuoso, matricida, perverso polimorfo. Littell alterna il racconto del genocidio degli ebrei ai mali di stomaco, ai vomiti improvvisi e agli attacchi di dissenteria del suo protagonista. Valga il commento della regina della critica del New York Times, Michiko Kakutani: “Volontariamente sensazionalistico e volutamente repellente, le mille pagine del romanzo si leggono come se le memorie del comandante di Auschwitz Rudolf Höss fossero state riscritto da un cattivo imitatore di Genet e de Sade”. Siamo sottoposti a pagine e pagine di fantasie sessuali grottesche del nazista Max, fino alla sodomia della sorella gemella.
“Annexed”, recente romanzo della scrittrice inglese Sharon Dogar, si è spinto alla sessualizzazione di Anne Frank, ritratta nella sua storia d’amore con Peter van Pels, suo compagno di reclusione nella famosa soffitta di Amsterdam. Il romanzo è pieno di scene di sesso fra i due tredicenni. In una banale operazione di critica postmoderna si è scritto che la colpa sarebbe del morigerato padre di Anne, Otto Frank, che avrebbe eliminato dal diario parole come “mestruazione” e “vagina” e la parte in cui Peter la rassicurava sulla scoperta del sesso, le parlava dei metodi anticoncezionali, dei bordelli.
Fu Heinz Thilo, un medico nazista che ad Auschwitz c’era stato davvero, a dare di quel posto la definizione più sintetica, scarna e appropriata: “Anus mundi”. Il buco del culo del mondo. Altro che queste orgette postmoderne.
Il Foglio sportivo - in corpore sano