Il ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni (foto LaPresse)

Alla Farnesina dal neoministro

L'interventismo umanitario è di sinistra. Gentiloni a tutto campo

Claudio Cerasa

I 4 pilastri della politica estera dell’Italia, il diritto di Israele a esistere e tutti i veri azionisti della conservazione.

Roma. Paolo Gentiloni, neoministro degli Esteri italiano, sa tenere insieme l’idealismo dell’interventismo umanitario con il realismo della stabilizzazione, due facce della teoria di politica estera spesso inconciliabili, e lo fa tracciando una riga netta tra quello che oggi è (diventato) di sinistra e quello che invece è di destra. Aprirsi al mondo, intervenire nelle aree di crisi, siglare trattati di scambio e insistere, indefessi, sui negoziati e il dialogo è di sinistra. Il protezionismo economico, l’isolazionismo in politica estera e anche la chiusura delle frontiere – “no all’immigrazione” – sono di destra, “e sbaglia chi pensa di poter mettere un muro tra noi e il mondo, tra noi e i flussi migratori, tra noi e i nostri vicini, chi pensa di poter cavalcare un protezionismo sociale oltre che economico, come la Lega, parte del Movimento 5 stelle”.

 

“C’è una continuità nella politica estera italiana – dice il ministro al Foglio, nel suo ufficio alla Farnesina – che si fonda su quattro elementi: l’atlantismo, l’europeismo, l’apertura agli scambi commerciali e l’impegno per peacekeeping e per i diritti umani”. Questa è la nostra storia ed è anche una storia di sinistra, e il problema semmai oggi è quello di doversi adattare e aggiornare, perché le condizioni esterne cambiano, e lo fanno in fretta. Gentiloni cita le tre D di Hillary Clinton (e il nome dell’ex segretario di stato spicca, perché invece di Barack Obama non sentiremo granché parlare in questa conversazione, anzi quasi per niente), “Diplomacy, Defence e Development”, come paradigma cui rifarsi per organizzare una politica estera di continuità e allo stesso tempo moderna. Perché i rischi che si corrono oggi sono tutti nuovi.

 

Gentiloni ne individua uno subito, chiarissimo: “Il pericolo è che il conflitto religioso si impadronisca del conflitto israelo-palestinese, stravolgendone la natura, amplificandone la rischiosità, e arrivando a creare un filo logico anche con le più accese dinamiche regionali”. Pensa all’attacco alla sinagoga, tragico, a Gerusalemme, dei giorni scorsi, “di una gravità simbolica evidente – dice Gentiloni – E la prima reazione di un governo non può che essere quella della totale vicinanza e solidarietà”. Ma questi attacchi ripetuti a Gerusalemme fanno intravedere “una escalation di natura religiosa” che finirebbe per snaturare la battaglia stessa dei palestinesi contro Israele, che almeno da parte della leadership di Fatah, unica a interloquire con Gerusalemme, “ha sempre avuto una connotazione più nazionalista che religiosa”. “La deriva è invero rischiosa, aggravata dalle misure israeliane nell’accesso alla moschea di al Aqsa”, ma anche lo stato attuale del processo di pace è piuttosto deprimente. Non ci sono date stabilite cui puntare, mai come ora la leadership israeliana è stata tanto dura nel condannare l’Autorità palestinese nell’incitamento all’odio contro gli ebrei. “Ho parlato con entrambe le parti – ammette Gentiloni – e le posizioni sono lontane”. Ma il processo deve ripartire, il ministro ne è sicuro (“anche perché non ci sono alternative”), si aspetta il rilancio da parte del dipartimento di stato americano (“ci vorranno alcune settimane”), a cui è collegata anche la questione del riconoscimento dello stato palestinese. Che non è un’arma da brandire, quanto piuttosto uno strumento da utilizzare per rilanciare il dialogo, per evitare che l’Autorità palestinese perda la sua leadership” e venga definitivamente “compromessa la soluzione dei due stati”. La posizione del ministro è equidistante? Risponde diplomatico che “il cuore è per la pace, la mente riconosce che ci sono problemi da entrambe le parti”, e quando va nel dettaglio cita “l’ammirazione per la società israeliana e quel che è riuscita a creare”.

 

La saldatura della minaccia jihadista

 

E’ pericolosa la saldatura tra la minaccia jihadista rappresentata dallo Stato islamico – che il ministro chiama esclusivamente “Daesh”, acronimo di Dawlah Islamiyah fi Iraq wa Sham, usato in senso spregiativo dagli avversari perché assomiglia al verbo “calpestare”: la Francia lo usa in tutti i comunicati ufficiali – e la causa palestinese. Di fronte a questo rischio il realismo di Gentiloni si affaccia potente: fortuna che c’è l’Egitto. Il presidente, Abdel Fattah Sisi, è in visita in Italia lunedì, ma non è la semplice cortesia diplomatica a spingere il ministro a essere tanto convinto sul ruolo del leader del Cairo. “L’Egitto esercita un ruolo positivo nella regione – spiega – Non ci sarebbe stata la pace a Gaza quest’estate senza l’intermediazione egiziana e la battaglia contro il jihadismo trova in lui un alleato forte”.

 

Apprezzando questo ruolo, Gentiloni dice che, due anni fa, lo scontro violento che ha portato alla destituzione dell’ex presidente islamico Mohammed Morsi “non è stato un golpe militare” (è la versione obamiana della questione, opinabile), “ma un intervento a valle di un’imponente mobilitazione della piazza contro le inefficienze del governo islamico”: “Questo non significa che dobbiamo chiudere gli occhi sulle violazioni dei diritti umani”, precisa Gentiloni, ma è come se dicesse: ora badiamo al male peggiore, con buona pace dell’ideale dell’islam moderato che è nato e poi morto nelle primavere arabe (domanda: qual è un esempio di islam moderato al potere che funziona? Unico caso trovato: “La Tunisia”). Il male peggiore è il Daesh, non soltanto per la violenza e l’efferatezza di Abu Bakr al Baghdadi, ma perché sta facendo saltare i confini tra i paesi, con le loro dinamiche interne e di rapporti con l’esterno. “Qual è l’end game della battaglia contro il Daesh?”, chiede Gentiloni. “Ci sono due vie: rassegnarsi al fatto che i confini stabiliti un secolo fa sono cancellati e che ci troveremo di fronte a una regione ridefinita secondo linee etnico-religiose del tutto diverse da quelle che conosciamo; oppure riconoscere che abbiamo il dovere di lavorare perché lo schema esistente si rinnovi senza saltare per aria”. Gentiloni sceglie la seconda strada, dice che in Libia una frattura del paese in Tripolitania e Cirenaica “non porterebbe vantaggi a nessuno, e sarebbe solo frutto di una guerra sanguinosa”. Lo stesso vale per la Siria, che è il centro della battaglia. Il paese deve rimanere unito, il Daesh, che ne controlla una buona parte, deve essere sconfitto, ma poi chi la governa, la Siria?

 

Sulla figura di Bashar el Assad, dittatore di Damasco che ha fatto strage del suo popolo (sono 200 mila i morti), interventismo umanitario e realismo cozzano grandemente, ed è una contraddizione che nemmeno la Casa Bianca si sta premurando di risolvere. “E’ arrivato il momento di pensare a un futuro senza Assad”, dice Gentiloni, ricordando le tante e imperdonabili responsabilità del regime siriano, ma allo stesso tempo dice che la decisione tormentata, l’anno scorso, sulla guerra o non guerra contro Assad è poi precipitata dalla parte giusta: “Non attaccare è stato prudente”. Le conseguenze erano imprevedibili, ovvio, ma perché l’interventismo umanitario vale in Libia e non vale in Siria? “In Libia la situazione non è stata chiarita, ancora oggi la parola che banalmente riassume quel che accade tra Tripoli e Bengasi è ‘caos’, ma si sa che il post Assad – che il ministro auspica – ha contorni se possibili più incerti”. 

 

La politica di sicurezza nelle nostre mani

 

[**Video_box_2**]Il ragionamento di Gentiloni ci porta a porre una domanda doverosa che si lega a uno dei grandi equivoci moderni delle democrazie occidentali e che si sintetizza in una parola di tre lettere: l’Onu. Chiediamo al ministro: possiamo dire o no che gli ultimi vent’anni hanno dimostrato la sostanziale inutilità strategica delle Nazioni Unite? Gentiloni si fa serio e pesa le parole: “Riflettevo sul tema giusto alcuni giorni fa durante il ventesimo anniversario della caduta del Muro di Berlino. Dobbiamo essere onesti. Dieci anni dopo è caduto rapidamente un altro mito: che nel mondo ci potesse essere una super potenza capace di governare tutti i processi mondiali. Nell’èra post Torri gemelle e nell’èra post Lehman Brothers è tramontata l’illusione della fine della storia. Le Nazioni Unite hanno un ruolo importante in alcuni contesti ma non riescono a colmare il vuoto aperto dalla fine del bipolarismo geopolitico. Tutti i paesi, compreso il nostro, devono fare la propria parte all’interno di una dinamica nuova: non esiste un soggetto esterno a cui delegare le nostre politiche di sicurezza, magari essendo poi accusato, come gli Usa, di fare il gendarme. E siamo noi, noi Europa, a volte anche singolarmente, i protagonisti del processo. La bussola della nostra politica estera non è cambiata ma ci troviamo di fronte a un mare che è improvvisamente diventato oceano, spesso in tempesta. E’ inaccettabile pensare che si possa essere passivi nel determinare la nostra sicurezza. L’interventismo umanitario è e deve essere un principio saldo del pensiero democratico”. Gentiloni filosofo del regime change? “Non esattamente. Non faccio fatica a riconoscere che l’intervento scelto dal nostro paese di appoggio agli Stati Uniti in Afghanistan sia stato oltre che moralmente doveroso anche giusto e non faccio fatica a dire che l’intervento in Iraq sia stato invece un errore. Il principio deve essere questo: si interviene in un quadro internazionale condiviso e con un orizzonte strategico definito. Senza questi due elementi nessun intervento può essere considerato lecito. Alla nostra strategia aggiungerei anche un altro concetto di cui non dobbiamo vergognarci”. Quale? “Gli interessi nazionali”. Concetto che ci sembra piuttosto ben presente su un altro terreno di gioco: i nostri rapporti con la Russia.

 

“Solo uno stato miope può pensare di ragionare sulla politica estera senza pensare ai propri interessi nazionali. Ma badate bene: per interessi nazionali non si intendono soltanto gli interessi economici ma si intende anche un campo più largo che è quello degli interessi di geopolitica. Per quanto riguarda la Russia, noi siamo i primi a dire che sulle sanzioni occorre fermezza, e su questo tema non accettiamo lezioni da nessuno perché l’Italia è uno dei paesi che le applica con più coerenza. Contemporaneamente dobbiamo anche batterci per far capire che l’Europa non può limitarsi a essere un generatore automatico di sanzioni ma deve sporcarsi anche le mani e deve agire su entrambi i fronti: spingendo la Russia a rispettare i princìpi basilari della autonomia ucraina e vigilando contemporaneamente sul processo di riforme a Kiev”.

 

Possiamo dire che questo è l’unico terreno internazionale sul quale c’è profonda sintonia tra l’Italia e la Germania? Gentiloni ci riflette e affronta un tema importante a cavallo tra la politica estera e la politica economica. “Con la Germania il terreno comune è molto vasto. Io sono orgoglioso di un governo come il nostro che è stato capace di mettere in discussione la linea della ortodossia tecnocratica. Il piano Juncker non sarà un piano Marshall ma può essere decisivo visto l’outlook della crescita europea dei prossimi mesi”. Chiediamo a Gentiloni se l’ipotesi, estrema, di sforare il prossimo anno il deficit sia una prospettiva possibile e il ministro ricorda quanto scritto nel 2013 nella mozione congressuale presentata da Renzi alle primarie: l’Italia potrà “superare” il parametro del tre per cento solo a fronte di un serio percorso di riforme. Gentiloni, ci siamo? “Io credo che il nostro posizionamento oggi sia corretto: nel momento in cui l’Italia dice di voler rispettare le regole e di voler solo sfruttare al massimo la flessibilità concessa dei trattati, deve comportarsi così. Con il procedere delle riforme alcune regole si possono discutere ma fino a che non vengono ridiscusse violarle semplicemente non si può”. Ma se i risultati dovessero attardarsi ad arrivare per l’Italia potrebbe valere la regola del Giappone? Economia che va bene, governo che va avanti. Economia che collassa, governo che torna dagli elettori. “Renzi non è quel genere di politico che ha intenzione di governare a tutti i costi ma io sono convinto che questa legislatura durerà più di quanto qualcuno voglia far credere, e vedrete che si andrà avanti fino alla fine”.

 

“Quando Roberto scrive…”

 

I cronisti provano a incastrare Gentiloni mostrandogli un messaggio malizioso e inequivocabile postato su Twitter qualche mese fa dal vicepresidente della Camera, Roberto Giachetti, vecchio amico del ministro dai tempi della giunta Rutelli: “Caro @matteorenzi purtroppo sono stato facile profeta su riforme… Fidati di me andiamo a votare. #machitelofafare”. Il #machitelofafare, quel giorno, venne rituittato anche da Gentiloni. Sorride il ministro: “E’ che quando Roberto scrive spesso rituitto… ovvio che oggi non lo rifarei!”. L’Italia, dunque. E il governo. Proviamo a chiedere a Gentiloni se lo schiaffo dato tre giorni fa dalla Rai a Renzi possa essere letto come il presagio di un prossimo schiaffo parlamentare al governo ma Gentiloni, unendo in preghiera le mani, dice di non voler commentare la Rai, dal suo posto di governo. Ma sul governo e i nemici di Renzi qualcosa il ministro la dice: “E’ un dato curioso di cui dobbiamo tenere conto. Le resistenze politiche al nostro governo arrivano da posizioni tra loro culturalmente distanti. Landini e Salvini sono quanto di più diverso e lontano ma i cambiamenti radicali hanno sempre degli avversari radicali e trasversali, come successe all’inizio del 2000 con il governo Schröder, contestato da destra e da sinistra”. I collaboratori di Gentiloni guardano con preoccupazione l’orario, mostrano ai cronisti il quadrante dell’orologio ma prima di andare via il ministro indicato da molti come il perfetto candidato di Renzi al Quirinale riceve la domanda: ci dica le caratteristiche che deve avere il prossimo presidente della Repubblica. Gentiloni sorride e controlla anche lui l’orologio. “Ragazzi, magari ne parliamo un’altra volta”.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.