“Presepe a Casalbruciato” (Roma, settembre 1974)

Roma e le sue desolate periferie

Autobus 508, viaggio tra i furori e i dolori delle città perdute

Stefano Di Michele

Quarantaquattro fermate sulla strada per Tor Sapienza. Prima scena: all’ora di pranzo le puttane sono già al lavoro: “Vita di merda, clienti di merda”.

“Se i popoli si conoscessero meglio si odierebbero di più” (Ennio Flaiano)

 

Sul 508. Da Ponte Mammolo a Mondavio (piazza), zona Corcolle. Quarantaquattro fermate, un viaggio. Dal suq al niente. Dal caos al nulla – un nulla che però tutti dicono che stia crescendo, che si stia gonfiando, inabissato dentro la periferia sconfinata, come nell’Oceano la Sfera misteriosa di Crichton, come le uova di “Alien” nell’astronave. E’ la “terra dei fuochi” in salsa romana, scrivono le cronache: rivoltosi cacio & pepe per quelle meno attrezzate; “les territoires perdus de la République’, a evocazione delle banlieue francesi, per quelle più dotte. La zingara, grassa, col bastone, pantaloni sotto il gonnone grigio e lercio, avanza dentro l’autobus. Nessuno la vuole vicino – nessuno parla, né la mamma (strategica busta dell’ipermercato sul sedile accanto) né lo studente (gambe allungate a occupare l’intero spazio) né il vecchio (bastone timidamente piazzato di fronte), ma se nessuno parla gli occhi dicono. E dicono, gli occhi, di qualcosa che è travasato ed è ormai precipitato a terra – e che da laggiù come concime nutre. Sulla parete di cemento, proprio di fronte al capolinea del 508, a caratteri cubitali (vernice rossa, falce & martello, ormai sorprendenti e innocui: come una replica dell’orinatoio di Duchamp, come un’insegna di ferramenta), hanno scritto: “Figli della stessa rabbia”. Non pare proprio – la rabbia ognuno dalla sua trincea la esercita, una rabbia rivolta contro altra rabbia. Sui due posti in fondo al bus 508, ancora vuoti, si sistema la zingara: l’autobus si riempirà fino all’inverosimile in poche fermate, ma il posto vicino a lei resterà sempre vuoto. Neanche certe facce dell’est – fameliche e indefinite, come le facce dei poveri abruzzesi/calabresi/marchigiani, come gli accattoni pasoliniani, come tutti i poveracci che questa landa estrema negli anni Cinquanta conquistarono, edificarono, abitarono, e che figli e nipoti ancora abitano, e soprattutto oggi presidiano – si sistemano al suo fianco. Il ragazzo nero, con bracciali gialli, lunghe inquietanti unghie, che sputa fuori ogni volta che le porte del bus si aprono – non si muove, costringendo gli altri a scansarlo. “Anvedi che unghie! Aho, e che cazzo de lavoro fa?”. “E che, quello secondo te quello lavora?”. “Ma perché i negri stanno sempre vicino alle porte?”. “Pronti a scappa’!”. Risate. Il surreale viale Palmiro Togliatti (“già via Lucera”, rammenta la targa) – che incrocia persino via Edoardo D’Onofrio, roba che nemmeno i più antichi militanti di rossa fede ne conservano memoria – è la lama smisurata che affonda verso le terre che in questi giorni promettono altre eruzioni – dopo l’eruzione che c’è stata, ed era già eruzione a un’altra precedente. Sul bordo strada, all’ora di pranzo, le puttane sono già al lavoro. Alcune hanno l’aria composta – povera, stracca, indossano panni che sanno di faticoso recupero di parrocchia e di mercatino: da vita di merda, clienti di merda, occhiate che (sempre) in merda ti mutano, pure le occhiate di quelli che tra casa e ufficio ti consumano. Altre, hanno colori sgargianti come i parrocchetti che ormai da anni attraversano il cielo di Roma, fuggiti i primi da chissà quale gabbia tropicale, di verde e fucsia e oro colorate, shorts microscopici, tette che salgono quasi fino al mento. Vicino a un deposito di rottami, una (uno?) di loro, dalle lunghissime gambe, su tacchi altissimi, si muove lentamente, così da favorire la visione dalle macchine che sfrecciano. Quasi un trampoliere: come una gru, come un fenicottero sotto il cielo scuro di pioggia e sul bordo della strada grigia. Ma le puttane non sembrano dare fastidio – nessuno pare notarle, nessuno le insulta, qui a bordo del 508. Silenziose, oltre i vetri stanno, come pesci in un acquario, le lunghe code colorate. E poi, le Cabirie e le Bocche-di-Rosa e le Lupe sono sostanza fin dalla sua fondazione di questa città – che pure quando brucia, pure quando invoca rivoluzioni che mai si sono viste e si vedranno, delle sue puttane pare avere necessità.

 

Tor Sapienza, appena scendi dal 508, non ha quell’impatto da New York di Jena Plissken raccontata dalle cronache. Dal deposito dell’Atac, se uno alza lo sguardo dall’altra parte dello stradone, vede tra la pioggia un Cristo che volteggia nel cielo, dalla sommità di una grande costruzione. (Cristo, le braccia levate in alto, forse a implorare più che a proteggere, e viene subito in mente il Cristo pasoliniano nel Mandrione, “fileme si ce sei Gesù Cristo / guardame tutta zozza de pianto / abbi pietà de me / io che nun so gnente”). C’è quasi una sorta di ordine, di disciplina – persino disciplina urbanistica, rispetto a ben altri caos – a conferma dell’analisi che già anni fa sulle periferie faceva lo scrittore Walter Siti: “Ormai hanno un loro ordine, nell’anarchia urbanistica, e palestre, solarium, centri estetici, gli ipermercati si sprecano. I consumi hanno stravinto”. E’ poi che tutto pare mutare, quando ci si sposta dentro, lungo quel viale Morandi (“Morandi chi? Il cantante?”, è scritto su un muro; Giorgio, invece, pittore dalle luci così lievi, e quella sua fragilità di toni e di soggetti: qui così insensate, luce e fragilità). Anzi: di sicuro muta. E’ quell’ammasso di palazzoni che hanno gemiti e furie, gigantesco minaccioso quadrilatero, là dove prendi e incastri centinaia e centinaia di famiglie, migliaia di disperati, e altri disperati assediano, e poi altri nuovi disperati importati dal mare che li inghiottiva – con ottimi propositi, e risultati disastrosi – e quella che fu la tua quieta e sensata e poca sopravvivenza osservano rapaci e azzannano: da dietro i cassonetti che traboccano d’immondizia, dalla penombra che il lampione sempre rotto non può dileguare, dalle urla che senti nel buio, dalle facce straniere che credi/sai/non-si-sa-mai minacciose. “Noi siamo la legge, noi siamo il popolo!”, si ripetono quelli che hanno assaltato il centro dei rifugiati, quelli che dicono che ora via tutti, i romeni che stanno nei sottoscala, colmi di birra e famelicità, e pure le povere mignotte sedute sui bidoni vuoti della vernice con una tavoletta di legno sopra, a riposare pensieri e cosce, i roghi che avvelenano, gli zingari che indifferenti continuano a ravanare nei cassonetti, e ci sarebbero pure i tossici e i bulli e i ladri locali, ma come si fa?, e anzi, è certo, “a rubare ’na vorta erano quelli de fori!”. E i trans, poi, i trans – “c’avemo diecimila froci, qui!”, caspita!, che volteggiano e starnazzano e sculettano, ma dicono pure che a Princesa persino il bus ha dovuto cedere il passo: “Siccome il 508 era rallentato dalle macchine che si fermavano per i trans hanno spostato la linea, mica i trans!”. I giovani sono i più duri. Nel linguaggio che ha riflessi di lama.

 

Nello sguardo di fuoco. Le donne urlano – tante onorevoli Angeline ributtate all’indietro, quasi rassicurante sembra il bianco e il nero della fame che fu, i jeans dentro gli stivali, il giubbotto imbottito che stringe sui fianchi ampi, “aho, me pari ’na rumena!”, e famose una risata, i padri ancor di più, i vecchi stremati da fatiche antiche e da questa rabbia che si trascina da anni, antica ormai anch’essa, i commercianti – ove il bar non sia ancora del cinese, la pizzeria (più kebab che altro) dell’egiziano, la frutteria del bengalese, che sta con gli occhi attoniti, grandi e bianchi come uova al tegame, e la sciarpa legata intorno alla testa – tutto e di più. “Li pijano in mezzo ar mare e li portano qua!”. “E affogano a noi!”. Ma i ragazzi soprattutto hanno parole dure, quasi a promettere il ferro e il fuoco, perciò i più illusi di tutti, “è la volta buona che li cacciamo tutti”, figurarsi, “er primo bruciato de pelle che esce lo ammazzo!”: così, a favore di telecamera, di diretta col mondo che giudica.

 

Qui la morfina del politicamente corretto non produce effetto, né calma il male che si sente mordere dentro la testa e lo stomaco. E anzi, siccome a estrema presa per il culo quell’insensato tramestìo linguistico viene inteso – gente che del “cuore cattivo” loro dottamente discute, avendo al massimo il fastidio di un happy hour che si prolunga sotto le finestre di casa – con estrema filologica precisione l’insulto replicano: la mignotta è mignotta, il frocio è frocio, il negro è negro (“di merda” o “maiale”, nelle notti della furia), lo zingaro è zingaro, il drogato è drogato – i poliziotti, si sa, so’ guardie, e tu comunque nun capisci un cazzo, e magari sei pure un po’ testa di cazzo. “E la guerra non finisce qui, segnatelo!”. Li chiamate negri… Il ragazzo, con una cresta alla Balotelli (non gialla, però), ti rifà il verso, sfottente: “E secondo te come li dovemo chiama’? Afroitaliani?”. Gli zingari sarebbero camminanti… E’ sfottente la risata, stavolta: “Che camminanti der cazzo, che stanno sempre qua? Diecimila ce n’avemo!”. Come i froci, forse. Diecimila pare la cifra tonda di ogni (non infondata: reale, e non serve metterci sopra la tara di qualche gruppuscolo fascista o padano, o di quelli che avanzano ipotesi su interessi di spacciatori locali) minaccia che per queste vie s’aggira. Ha scritto un lettore del manifesto, che abita proprio in via Morandi, al suo giornale: “Qui c’è il deserto. Il territorio e le periferie sono controllate in gran parte dalla criminalità e la cultura popolare prevalente è razzista e/o fascistoide, di destra, anche quando votano Marino o Zingaretti”. (Sempre dal “quotidiano comunista”, che abitualmente sul politicamente corretto le misure altrui prende, l’insospettabile descrizione del luogo dell’eruzione da parte di dell’insospettabile Luigi Manconi: “A Tor Sapienza, ma non solo qui, il centro di accoglienza è collocato all’interno di un comprensorio, cui si accede da un viale diventato una sorta di mercato delle droghe a cielo aperto, e all’interno di quell’area si trovano un altro centro con centinaia di ospiti, uno stabile occupato da stranieri e un altro da cittadini italiani, vittime della ‘emergenza abitativa’. E, poco lontano, un campo nomadi”. Questa, la misura, ancor parziale, della cosa, e hai voglia, con buona volontà e largo azzardo, a chiamare “Un sorriso” il posto che dovrebbe accogliere – ché piuttosto un ghigno provoca). Il sindaco Rutelli qui venne a piantare un albero, disse che ci voleva un albero per ogni bambino che a Roma nasceva. Ma non si vede mica un bosco, intorno. Chissà se anche quell’albero innocente è bruciato pure lui, nelle notti dei fuochi.

 

Razzisti, dicono. Poi spunta, in trasmissione televisiva, la vedova di una guardia del corpo di Berlinguer tra chi contesta, “come potrei essere razzista?”, che le sue ottime ragioni spiega, o l’altra donna, “ho partecipato alle proteste sotto il palazzo degli immigrati, la prima e pure la seconda sera. Ma potesse rivoltarsi mio padre nella tomba, ho sempre votato comunista”, giura. “Sono persone come noi, hanno diritto a cercare la felicità”, ma dài!, ma davvero!, dice quel sindaco dall’aria e dalla faccia stravolte e dagli infelici parcheggi – che persino quando si trovava alla cena da mille euro per finanziare il Pd renziano, fu arpionato dal cameriere che serviva a tavola: “A’ Mari’… ’ndo sto io, l’autobus nun passa mai…”. (Storia, peraltro, questa delle rivolte che scoppiano, afflitta dalla presenza quasi sempre di facce che paiono inadatte, tra quelle che dovrebbero essere l’autorità che civiltà va cercando: così il sindaco, sbiancato al Lory Bar, così Alfano, così la Boldrini, “solo in Libano, una paese di quattro milioni di abitanti, ci sono un milione e duecentomila rifugiati”: embè,  pigliamo esempio da Beirut?). Evocano, i più pensosi editoriali, “questo pezzo di mondo dove si fanno le prove per la società che verrà” – ma un conto è attenderlo, il mirabile accadimento, al sicuro, trovarsela servita più o meno ben miscelata, ’sta società che verrà, dando il proprio contributo al sushi bar; altro ritrovarsi, giorno e notte, e per anni e anni, dentro questo pazzotico gabinetto del dottor Caligari della periferia romana, nel cuore del montaggio di questo Frankenstein sociale che ti ulula nelle orecchie, mentre i fumi ti bruciano gli occhi. Ci sono di quelli che escono dal garage la sera con una mazza in mano, sempre, per paura degli zingari – così, hanno raccontato. “Non posso pensare di far crescere mia figlia con la paura di farla giocare per strada o di farla uscire da sola…”. “Io vado sull’autobus, pago l’abbonamento e resto in piedi, questi stanno seduti senza manco paga’ er biglietto!”. Dice: il mondo che verrà. Ma sei fottuto se ti trovi dentro il travaglio di quel parto, mentre l’universo che nasce ti schianta – e paura e rabbia ti staccano ogni giorno a morsi un pezzetto di piccole certezze. Adesso si può tornare sullo stradone, e proseguire il viaggio con il 508 – che s’allunga ancora, di molto, e c’è un altro luogo, dove qualcosa è già esploso, e dove il fuoco può sempre divampare. Un altro luogo dove la distanza tra le parole e le cose rapidamente si colma – e ogni cosa finisce così divorata.

 

“San Basilio” (Roma, settembre 1974)

 

(Però prima, ecco, c’è qualcosa da dire, sugli autobus di Roma. Sul Corriere della Sera, poche settimane fa, c’era questo titolo: “Roma, i 10 autobus da evitare assolutamente”. Assolutamente – ma se uno deve prenderli per forza? Tutti che vanno verso la periferia, le borgate, la barriera psicologica del Raccordo Anulare che cinge e assedia la città – e del resto, là abitano i quasi 400 mila stranieri che a Roma vivono. C’era il 508, nel dettagliato elenco del giornale. C’era il temibile autobus 20, che dalla desolazione di Anagnina conduce alla desolazione di Tor Bella Monaca, “dopo le otto di sera coprifuoco, durante il giorno è preda delle baby gang” – sempre il Corriere. Lanci di sassi, bottiglie, colpi di pistole caricate a piombini. Continui atti di vandalismo, “per divertimento, per noia, per fare i bulli con la ragazzina”. C’è il 776, che fa rotta verso il Laurentino. Il 42. Il 59, che da Tor Bella Monaca scende verso Tor Vergata. Il 511, con accoltellamento, “all’altezza di via Casilina 1603”. Ci sono autisti aggrediti, “una quarantina”, dicono i sindacati. Rapine. “Spari contro gli autobus, è allarme: pallini di piombo infrangono i vetri. Sette mezzi centrati negli ultimi dieci giorni” – così i titoli delle cronache. Ci sono ormai – dati Atac, l’azienda dei trasporti – 677 veicoli con cabine blindate, dove barricarsi in caso di pericolo, e in sei mesi “oltre 40 mila allontanamenti di soggetti molesti, questuanti, venditori ambulanti e suonatori, circa 150 tra fermi e arresti, con oltre 460 persone identificate e più di una dozzina di sequestri di merce abusiva”. Una giovane autista del 508, è stata aggredita da un gruppo di immigrati alcune settimane fa. La sera prima era toccato a una collega alla guida del 42. Successe a Corcolle – dove l’incendio divampò prima che a Tor Sapienza, e ora i fumi e le voci dicono che si sta dirigendo dall’altra parte, verso Ostia, verso ovest. Infernetto – piccolo inferno, dove giusto qualche notte fa gli immigrati si sono bastonati tra di loro.

 

Lo puoi aspettare a lungo, questo 508. Trabocca quasi sempre, pieno all’inverosimile. Compagni di viaggio che spesso nessuno vorrebbe a fianco – oltre a tanti studenti (“annamo ar Mec, stasera?”), donne che lavorano, pensionati: come un fotogramma anni Settanta. La parte dolente della città s’ammucchia – scivolando dalla Togliatti alla Prenestina e più sopra, passando tra canneti e campi, fin quasi sotto Tivoli. A Corcolle – dove Roma non esiste più. A piazza Mondavio – un incavo di asfalto crepato tra piccole palazzine e villini, “affittasi e vendesi mini appartamenti e villini”, sul fondo il bar Centrale, centrale a chissà cosa, ogni dieci colazioni un pacco di biscotti in regalo, “offerta riservata ai possessori della carta ‘Made in Corcolle’”, e il negozio di parrucchiere “Taglio selvaggio”. Pure i giornali scrivono: “Il colpo d’occhio è accattivante”. Certi che ci abitano dicono, con forse eccessivo orgoglio: “Vista dall’alto è una piccola New York”. I venti calano dai monti intorno. A volte, arrivati fin quassù, gli autobus si guastano, non ripartono più. Quel giorno ce n’erano due, fermi. “Autobus di merda!” dice il ragazzo. “Vuoi fa’ un tiro?” – porge la sigaretta. Qui, dopo che la giovane autista del 508 fu aggredita, il suo autubus preso a sassate, e prima ancora era toccato alla collega del 42 che sempre qui a piazza Mondavio fa capolinea, si scatenò la caccia al “negro”. “Saltano le fermate”, accusano alcuni. “Mancano mezzi e personale”, replicano altri. Ci sono pure quelli che in questa matassa di risentimenti e paure tra Casilina e Prenestina e Collatina e Polense – Zagarolo è più vicino di Roma, la città eterna la intuisci solo dai pini dappertutto uguali – agli immigrati cercano di insegnare un po’ d’italiano, “hanno imparato ‘ciao zi’ e ‘bella ci’, sono dolcissimi”, il cucchiaino che fronteggia il mare, ché quasi tutti vogliono invece cacciarli, che vadano via, “ai Parioli mai, eh?”, si raccolgono firme in giro, la strade si gonfiano di gente e si svuotano di quelli venuti da fuori: “Mandarli via, portano solo guai”. Lo stesso presidente del municipio, uomo del Pd, taglia corto: “Sono troppi, due settimane fa hanno aperto anche un centro per rifugiati, basta… E’ assolutamente necessario allontanare gli immigrati dal nostro municipio, abbiamo il 50 per cento dei centri di accoglienza di Roma nel nostro territorio”. Non è molto diversa, la gente di qui, da quella di Tor Sapienza o di Torpignattara o dell’Infernetto o di Tor Bella Monaca: un affanno di vita, e poi un altro ammasso di esistenze, che di colpo fa mancare del tutto il respiro. E più di Corcolle stessa – dignitosa, tutto sommato, nel suo aggrovigliarsi di vie e casette, l’antica bacheca dell’Unità corrosa dalla ruggine e piegata da intere ere geologiche – aiuta a capire la strada che si fa per giungere fin qui: i bordi della città, della Roma che tutti conoscono, che sfumano in un indefinito di campi abbandonati, gruppi di case, alcune non solo dignitose ma persino eleganti, i battenti di ottone lucido e i portoni massicci verde scuro, insegne di hotel chinate dagli anni che indicano camere perse chissà dove, chi “si vende ricotta” e chi “giovedì si balla salsa” e comunque “ogni mercoledì 10% sconto macelleria”, mentre si sale e si scende lungo la Prenestina, “Performance Car”, “Cose antiche e moderne”, “Fiori artificiali”, “La boutique dell’auto”, “Vendesi cubatura / uso residenziale”, borse/valige/ciente cinesi, “Taglio mania”, vicino a un vivaio, tra un melograno e l’albero dei limoni, triste e muta l’ennesima puttana sta, manifesti di un “club privè per coppie e singoli”, con promessa di “sauna, bagnoturco, Jacuzzi”, il supermercato “Piccola Romania” – un cartello rosso, scosso dal vento: “Stop. Il tuo appartamento è qui”. Proprio qui. Chissà dove. L’intonaco, sulle facciate di certe case, si stacca a grandi pezzi che ondeggiano nel vuoto, come un pacco scartato di malagrazia. Lontano, un Frecciarossa passa, solenne e silenzioso come una cometa. Slot/slot/slot. “Jackpot nazionale e di sala”, il pub “7,40” (c’è mica Floris?). Qualcuno coltiva antichi sogni, su un muro di cemento vicino Tor Tre Teste: “Riprendiamoci subito tutto! Morte ai ricchi!”. Qualcuno sogna altro, su altro muro: “E’ vero che a volte i sogni diventano realtà. Io e te l’esempio Xfetto!”. Certe fermate perse nel nulla, campagna di qua e di là, eppure affollate – immigrati, “i negri!”, che a frotte occupano quella striscia tra l’asfalto e il fosso, un limitare umido sul nulla: arrivati da chissà dove, sortiti dalla terra come alberi, arbusti, rovi. Sdegnosi/timorosi/arroganti – a volte. Ci si stringe, ci si sfiora il meno possibile. Odori/sudori/voci – ogni cosa estranea e avversa. “Il soffio d’ogni carne umana”, dice la Bibbia. Però sorrisi (“un sorriso”, ricordate il nome, perfetto paradosso?) niente.

 

[**Video_box_2**]C’era una certa buona retorica, dietro il mito della borgata romana: vita difficile, ma core in mano. Quella che cantavano i Vianella, “’na stanzetta in affitto è trovata / per il momento va ’bbe’ / semo gente de borgata / nun potemo paga’… / (…) e quarcosa cambierà / semo ricchi de volontà”. E nelle prime canzoni di Eros Ramazzotti, cupido de zona prima di farsi star internazionale, “nato ai bordi di periferia / dove i tram non vanno avanti più / dove l’aria è popolare / è più facile sognare / che guardare in faccia la realtà”. Il solito Pasolini, il suo Caciotta e il suo Riccetto e pure er Pecetto, le partite di pallone coi pischelli, le baracche di Pietralata, “la crosta d’asfalto della Tiburtina”. Le lotte. La casa. Una sorta di “aristocrazia borgatara” andata persa. Le bellissime foto in bianco e nero, di scontri e proteste e abbracci proletari, di Tano D’Amico. Walter Siti ha scritto l’ultimo grande romanzo sulle borgate romane: “Il contagio” (Mondadori). Che poi, le antiche borgate (er Trullo, Pietralata, San Basilio, Tormarancio, er Tufello, Primavalle, pure er Mandrione, persino Centocelle, dove cinquant’anni fa cominciò a cantare Claudio Baglioni, storia di corna borgatare, “signora Lia stasera / stai con tuo marito / sta tranquilla che non lo sa / non sa che l’hai tradito…”) sono ormai quasi integrate, si dice “periferia” e non più “borgata”, e le altre sorte in seguito sono più lontane, spazio quasi siderale, sprofondate lungo e oltre il Raccordo Anulare (il “Sacro Gra” del bel documentario di Gianfranco Rosi premiato a Venezia), un territorio come una prateria, tra disordine e nulla, tra Apache e cowboys. Dice un personaggio di Siti: “So’ tanti che vengono a fa ricerche sulle borgate, e io je dico sempre famo a cambio… si volete capì qualcosa delle borgate, ce venite a stà du’ anni e io me trasferisco a casa vostra” – e mica ha torto. Spiegò lo scrittore in un’intervista: “In borgata si fanno le ammucchiate, ma si fa anche conoscere la moglie all’amante, per tenere tutto insieme. Il consumo diffuso di coca, considerata una droga che non dà dipendenza, sfuma i confini fra bene e male, fra omo ed etero, fra prostituzione e disponibilità. La coca fa la grande differenza fra le periferie pasoliniane e quelle di oggi. Ma è anche vero che si salda sull’elemento forte della cultura borgatara: la convinzione che è tutto uguale, e che il futuro vale poco”.

 

“Acquedotto Felice” (Roma, 1972)

 

Poi, negli anni Settanta-Ottanta, le borgate romane si mutarono in una sorta di città-stato, come lune feudali intorno al sole caldo di Roma. Tor Bella Monaca, Torre Angela, il Corviale, il Laurentino – immensi agglomerati, interi paesi creati dal nulla, palazzoni capaci di sconvolgere panorama e venti. Dice infatti la leggenda metropolitana romana che la costruzione del Corviale – quell’immensa struttura lunga oltre un chilometro, due serpentoni appaiati (e perciò “Serpentone” è chiamato dai romani il Corviale) alti nove piani, 1.200 appartamenti, più annessi e connessi, circa ottomila abitanti, vicino alla via Portuense – abbia fatto sparire il ponentino, la fresca corrente d’aria che allietava le sere d’estate della città eterna. Barriera. Barricata. Muro invalicabile. “Nun ce sta più er ponentino!”. “Colpa de quel cazzo de Serpentone!” – così sempre si dice al bar o sul tram, asciugando il sudore. Il Corviale, opera dell’architetto Mario Fiorentino, “il Corviale nasce come un unicum per quel sito e per questa città di Roma”, è l’icona simbolo di questo farsi borgate-non-borgate a Roma: posti astrali, lontani, groviglio di vite e cemento dove i lotti e gli orti e i cortili e persino le marane (“Mo je faccio vede io come ce se tuffa!”, urlava er Riccetto ragazzotto de vita) delle vecchie borgate sembrano un dono prezioso e perso per sempre. “Corviale che prende il volo / e si tiene il cappello con le mani / accanto a una donna / che prega l’eclissi di periferia”, canta Max Gazzè. Ma non piglia il volo, il Corviale, megalitico ammasso sull’orizzonte romano – e certi a mettere pure di mezzo Le Corbusier e “l’Unité d’habitation” – che per decenni si è trascinato dietro storie di spaccio e violenza (luogo abituale, per i cronisti di nera della capitale, accolti di solito più o meno così: “A stronze’, se nun te levi de torno prima te spacco er culo e poi te spacco la faccia!”, e i poliziotti allertati e scoglionati del posto mobile lì davanti: “Noi staccamo alle otto, esci fuori prima, sennò poi so’ cazzi tuoi!”). E’, si assicura, “il più grande grattacielo orizzontale d’Europa” – capirai che impressione. Vetrate rotte, ascensori guasti, campanelli bruciati. Ci si prova, ogni tanto a risanarlo – a fermare la pietrosa rovina (con i progetti dell’architetto Guendalina Salimei, adesso nientemeno è l’ora di Paola Cortellesi e Raul Bova sullo schermo: più impegnativa della missione di “Armageddon”). “Corviale rinasce”, giurano ora pure dalla regione. Concorso internazionale “con cui interroghiamo tutti gli studi di architettura d’Europa su progetti di rigenerazione”. Visto mai.

 

Fu il sindaco comunista Luigi Petroselli, “con quella sua faccia da muratore” (da uomo d’apparato: altro che i fighetti da primarie o da ceto riflessivo), a cancellare a Roma, negli anni Settanta, la vergogna delle baracche – sognando e sperando che centro satollo e disperse e disperate periferie potessero riunirsi, borghesi e borgatari uniti nella lotta. Solo sogno rimase. Quasi incubo, adesso – nonostante la fragile metropolitana (l’ultimo tratto, da Centocelle a Pantano, avviato poco fa), che si spinge da qualche decennio là dove i tram di Ramazzotti non andavano avanti più: Ponte Mammolo, Pietralata, Anagnina, insieme a qualche asmatico trenino – partenza stazione Termini. Lo stesso, il profilo della città si riempì sempre più di croste, piaghe, gigantesche fosse delle Marianne che s’innalzavano alte verso il cielo e insieme finivano inghiottite nella terra. Le nuove desolate periferie, i quartieri modello sempre più sprofondati tra dimenticanza e risentimento – dove il mischiarsi di vecchi e nuovi abitanti, poveri e meno poveri, possibile ancora nelle antiche borgate, risulta molto più complesso. E poi gli immigrati. E gli zingari. E i negri (che appunto  negri dicono) e i rumeni (dicono rumeni, non romeni, figurarsi “cittadino romeno” come in tivù) e il solido, florido mercato dei trans, dal romano tenuto pare in gran conto. L’eroina e la coca, lo sballo perenne, il bullismo dilagante: non spiegato dalla sociologia facile, né piegato dalle norme pietose. Tor Bella Monaca, tra ogni altra astronave aliena posata sull’orizzonte, tra ogni meteorite caduto sulla capitale, ben più persino del Corviale ha acceso fantasia e dibattiti – e riempito, nella realtà, pagine e pagine di cronaca nera. “Il Bronx”, scrivono i giornali. La “Scampia di Roma”, pure – a identificazione con la terrificante sorella napoletana. Qualche anno fa il sindaco Alemanno propose di mettere mano al piccone: “Il progetto di demolizione e ricostruzione di Tor Bella Monaca è un progetto prioritario e non solo estetico, ma soprattutto funzionale”. Non un mattone si è mosso, come al solito. A parte quello lanciato contro un bus, come al solito.

 

“Esce fuori il mio leone… e secco senza mete, no diploma / adesso è ora / de svejasse e toje… dar cazzo chi è de troppo / co mmasso e paranoie / e questo è rap de quartiere, borgata, periferia estrema / un do nun mette piede a nber problema / dalla pedana pija la catena, daje gambe e schiena / piagne e je fa pena… akkanna damose ho sentito la sirena” – così cantava, qualche anno fa, Saga er Secco, rapper di Tor Bella Monaca, detta Torbella, che a metterla in piedi, quando la misero in piedi trent’anni fa, costò allora 175 miliardi di lire. Per salire fin lassù – e sembra lassù, anche se è nella piana che bordeggia e tracima oltre il Raccordo Anulare, bisogna prendere il bus 20 Express al capolinea Anagnina della metro A. E’ la linea bus più temuta – dagli autisti vittime, innanzi tutto; è la direzione meno ambita. Soprattutto quando cala la sera, il buio – e le notti di Torbella sono notti da sbirri stremati, case serrate, voci basse, cani cha abbaiano, urli altissimi, bestemmie e silenzi. Dicono questo, giornali e mattinali di questura. Un bersaglio fisso, i bus sfigati della linea 20, ora nuovissimi e belli e di un caldo color rosso: tiro a segno per fionde e carabine ad aria compressa, lancio di sassi che mandano in frantumi i vetri. Segnalata – nelle ultime cronache – la presenza di “gruppo di adolescenti lanciare sassi contro i bus in via dell’Archeologia all’altezza del civico 106”. La strada che conduce a Torbella è persa in buona parte tra prati e cielo, scivola veloce e larga, s’insinua tra l’Università di Tor Vergata e il Policlinico della stessa – surreali fermate che si chiamano “Sorbona” oppure “Cambridge” o anche “Columbia”. Alla fine di tutto c’è Tor Bella Monaca. S’incrocia il teatro, a via Bruno Cirino, dove una sera Veltroni sindaco portò nientemeno che lo stellare DiCaprio, e tra gli spettacoli in programmazione, tra “momenti di luce e momenti d’ombra, tra Edgar Allan Poe e paesaggi incontaminati dell’anima”, pure l’opportuna riproposizione del già evocato “Das Cabinet des Dr. Caligari” (1911), si sale ancora più su, fino al luogo di tutto, il cuore di Torbella: via dell’Archeologia. Davanti “al civico 106”, gruppo di ragazzi con tatuaggi e moto, poco lontano le bandiere della sezione del Pd pendono mogie mogie, giardinetti spelacchiati. Silenzio – ma non c’è aria né di paura né di sconforto. Anziani a passeggio con il cane. Gente al bar. “Se ce provano da noi come a Tor Sapienza, coi negri, damo foco a Roma!”. “Ma la mejo cosa è fasse ognuno i cazzi suoi!”.

 

E’ piena di luce, oggi, Torbella – dopo settimane di pioggia. Il 20 sale e riscende in continuazione per gli stessi posti, per le stesse strade – “Cambellotti”, “Archeologia/Cochi”, “Archeologia/Biscarra”, “Tor Bella Monaca”, e ancora “Archeologia/Cochi”, “Archeologia/Biscarra”, “Cambellotti” – come per accertarsi della loro permanenza – ancora qui? E questo girare e rigirare per le vie del quartiere, che dopo il buio gli autisti non vogliono più fare – e lì che la noia e la rabbia e il teppismo si sfoga contro gli autobus nuovi e indifesi. “Torbella regna!”, hanno scritto sui muri. Canta, Saga er Secco, “vita de quartiere veleno nelle vene / vieni qui ti mostro tutte quante le mie scene (…) / come se non fosse mai abbastanza / in questo quartiere ho perso la speranza / tra spari e mignotte e a chi te dà due botte / resto ancora vivo un’altra notte (…) / tieni un occhio aperto a ci, e l’artro pure / ferri stretti in mano amo torto e sicure / er quartiere che trasmette gioie e paure / contro anfami e piombo non ce stanno cure…”. Lungo la strada che verso Torbella sale, è tutto un groviglio di torri che fanno corona – sorelle minori di Torbella, nelle cronache: Torre Angela, Torre Maura, Torre Gaia, Torre Nova, Torre Spaccata… Dicono le storie che da queste parti Santa Rita da Cascia, santa delle cause impossibili, perciò santa opportuna da invocare, stanca s’accasciò – e l’occhio, magari, ebbe per questo distratto. Oggi, sotto il cielo azzurro e nuvole bianchi, puliti, l’orizzonte aperto su tutto, pare un paesaggio texano, questo, un posto nemmeno male, c’è un nitore quasi artico, una luce che da chissà quando su Roma non si vedeva. Persino lungo questo vialone dell’Archeologia, che più che ruderi copre esistenze. “Dux mea lux” – avvertiva un muro. Il vecchio laggiù raccoglie diligentemente la cacca del suo cane. “C’è tanta brava gente, qui”. Per forza. Da lontano, le grandi torri adorne di antenne paraboliche come palle su giganteschi alberi di Natale, con quel tenue beige, con quel grigio sfocato (“Te piace ’sto tono de griggio?”, piglia per il culo una scritta), sembrano un’apparizione. Qui poi è solo un aggrovigliarsi tra sigle, e hanno nomi di sigle quei palazzoni con tante vite dentro: R4, R5, R6, ché si chiamano con le sigle, sempre, le cose che non si amano, che si preferirebbe lasciare dietro, che non hanno possibilità di accarezzare il cuore. Dentro le torri, certi pianerottoli sono fortificati, videocitofoni, doppie porte. La buona gente si difende? La mala gente che opera? Centinaia di persone sono agli arresti domiciliari, qui dentro. Vanno e vengono poliziotti e carabineri, per non antiche ma già usurate scale. Annotano le cronache: “Se la sera passi a via dell’Archeologia e non sei del luogo vieni fermato e identificato dalle vedette degli spacciatori” – e sbirri nel correre affannoso della notte, e occhi sbarrati dietro le finestre chiuse. Mentre tra Ponte Mammolo e Corcolle gli spazi sembrano stretti, qui sembrano immensi. “Piccola, me starai per sempre nei nostri cuori” – su un muro. Dicono che ci sono i tossici, là dietro, al parco all’ombra dell’R4, pena e insieme mercato – e chissà dov’è finita quella mamma che una volta raccontava che “mia figlia non ha mai pianto, perché quando ero incinta ho promesso che non l’avrei fatta piangere mai”. Il bus 20 Express comincia la sua ridiscesa verso l’altro mondo, verso Roma, verso l’Anagnina poi non così diversa, solo con meno luce. “Punto slot”. “Punto kebab”. “Snack Bar The Brothers”. Nessuno ha gettato un sasso. Nessuno ha sparato. E magari quella mamma, dentro questa periferia che già arde e che presto, dicono, alzerà nuove fiamme, è riuscita lo stesso a evitare le lacrime alla sua bambina – come se questa luce durasse pure nel buio. Sarebbe bello, se quel sorriso durasse. Santa Rita magari si darà da fare.

Di più su questi argomenti: