Zdenek Zeman (foto LaPresse)

Perché Zeman continua a piacere

Sandro Bocchio

Non ha mai vinto nulla. Nella storia di Zdenek Zeman ci sono gli inizi sulla panchina dell'Athletic Club Bacigalupo, una preistorica promozione in C1 con il Licata, una altrettanto preistorica con il Foggia e una più recente con il Pescara. Eppure in estate tutti lo cercano e tutti lo vogliono.

Non ha mai vinto nulla. Nella storia di Zdenek Zeman ci sono gli inizi sulla panchina dell'Athletic Club Bacigalupo, la squadra dilettantistica di Palermo entrata nelle cronache perché lì il presidente Marcello Dell'Utri vi aveva conosciuto Vittorio Mangano ("Ma quale mafia, ci giocava anche Pietro Grasso…"), una preistorica promozione in C1 con il Licata, una altrettanto preistorica con il Foggia e una più recente con il Pescara. Eppure in estate tutti lo cercano e tutti lo vogliono, manco fosse un barbiere di Siviglia. Dal 1983 a oggi, sono rare le stagioni che non l'hanno visto seduto su una panchina al via di un campionato. Perché se nelle statistiche Zeman è un perdente di successo, nei fatti è un allenatore che (quasi) ogni giocatore vorrebbe avere. Gli si può dire di tutto, ma non che non insegni a stare su un campo e a comportarsi da professionista. Al ragazzino come al campione affermato, vero o presunto che sia. Senza guardare in faccia a nessuno, come dovrebbe essere sempre. Chiedere a De Rossi e a Osvaldo, ritrovatisi improvvisamente in panchina perché il tecnico non apprezzava il loro atteggiamento: in allenamento, non in partita.

 

Zeman piace perché piace la sua idea, merce rara nel calcio di oggi. Un calcio artigianale, che nasce dalla fatica dell'apprendimento, dal sudore nel lavoro, dall'applicazione metodica dei movimenti. Quello su cui ragiona quando comincia ad allenare per obbligo: i sovietici gli invadono la natia Cecoslovacchia, lui si ferma in Italia dallo zio Cestmir Vycpalek, il vecchio saggio che avrebbe vinto due scudetti con la Juventus. Porta con sé la velocità dell'hockey su ghiaccio e la metodicità della pallamano, sport frequentati da atleta. Il risultato è esplosivo a Foggia, un gioco fatto di aggressività immediata sul portatore di palla avversario, di occupazione del campo, di triangolazioni rasoterra: in contemporanea con un altro sconosciuto come Arrigo Sacchi e molto prima di Pep Guardiola. I pugliesi mostrano meraviglie in serie A. Davanti si celebra il trio Rambaudi-Baiano-Signori, ma è la squadra degli sconosciuti a stupire. Zeman trasforma in fenomeni seri pedalatori come Barone, Padalino, Matrecano, Seno, Bresciani. Una costante nella storia del tecnico, l'abilità nell'esaltare il talento del singolo (basti pensare a Verratti, Immobile e Insigne, decisivi nella promozione del Pescara) unita alla capacità di trovare risorse inaspettate negli sconosciuti.

 

[**Video_box_2**]Prima colpire, eventualmente difendere, e i gol diventano una costante su entrambi i fronti, un'eresia per il nostro calcio. Nasce Zemanlandia, un'etichetta che il giornalista collettivo appiccica al boemo senza più togliergliela di dosso. E' e sarà così ovunque andrà, con soddisfazioni sui due fronti romani e con tonfi clamorosi, in Italia come all'estero. Esemplare il secondo ritorno alla Roma, a dimostrazione (in attesa di Mancini all'Inter ma ricordando Sacchi e Capello al Milan) come questa soluzione generi delusioni pari soltanto alle aspettative. Un'esperienza che si chiude anzitempo, tra rancori e fallimenti sportivi. Sembrerebbe la parola fine sulla carriera di Zeman, ma l'idea aleggia comunque. E l'ultima estate lo chiama il Cagliari, dove il nuovo presidente Tommaso Giulini deve ripartire dopo gli alti e bassi della lunga gestione-Cellino, volato in Inghilterra per portare al Leeds la sua singolare idea di calcio. I soldi devono essere spesi oculatamente, serve stimolare chi è rimasto e dare una possibilità ai giovani. Zeman è il nome conseguente. Gli inizi sono complicati, come sempre. La squadra deve metabolizzare gli insegnamenti e smaltire gli abituali gradoni estivi, saliti e ridiscesi per fare fondo. L'idea è immutabile, potrebbe però apparire raggrinzita. Arriva un punto soltanto in quattro giornate, un campanello d'allarme di cui il presidente comunque non si cura, al contrario di chi l'ha preceduto e di tanti illustri colleghi. Il primo successo giunge sulla macerie dell'Inter, con l'uomo in più. Ma non è quello che conta. Interessa, piuttosto, che si cominci a vedere ciò che vuole l'allenatore. La ripartenze sono brucianti, il pressing asfissiante, i dialoghi rapidi, fino al pareggio capolavoro di Napoli, sempre in rimonta. Prendete il primo e il terzo gol, c'è tutto Zeman: due triangolazioni e rasoterra al centro per chi deve buttarla dentro. Con la doppietta del primo sconosciuto da tenere d'occhio: il brasiliano Diego Farias, in prestito dal Chievo e comprimario la passata stagione al Sassuolo. Non sarà l'unico di cui sentiremo parlare. Certo, ci sono anche i “contro”, come la rete dell'1-0 presa direttamente su rimessa laterale, segno di un calcio a trazione a anteriore, a volte distratto e, spesso, poco malizioso. Episodio rilevato da Zeman a fine gara, ma congedato con un'alzata di spalle e con una sentenza: "Se fai un gol più degli altri, te ne freghi quando li prendi. Il calcio è a chi fa più gol, no a chi ne prende di meno"

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