L'equivoco dei cognomi
I malintesi dell’epica Bush-Clinton, dall’eroismo del rampollo petroliere agli eccessi dell’outsider diventato principe liberal. Il moderato Jeb e nonna Hillary.
L’America illusa e disillusa da Barack Obama ora si rigira in bocca l’idea amarognola della sfida dinastica fra i Bush e i Clinton, che sulle prime appare la riproposizione di uno schema irrancidito, ennesima danza di sagome cartonate della politica lungo binari prestabiliti proprio quando tutto sembra implorare ritmi e facce nuove per mandare in pensione casati e potentati di un mondo che fu. Ma la dialettica Bush-Clinton è anche la storia di un equivoco o di una serie concentrica di equivoci storici e ideologici, dove la realtà entra in conflitto con le sue provvisorie rappresentazioni e niente è davvero come sembra. I blasoni evocano immediatamente immagini precotte soltanto da ripassare al forno: il cowboy che esportava la democrazia con i carri armati e il padre della sinistra moderna e politicamente corretta; il curatore fallimentare del bilancio pubblico e il gestore della prosperità globale; la famiglia di petrolieri zotici del Texas e la sofisticata emancipazione di Georgetown; la danarosa inettitudine dei rampolli e la meritoria furbizia politica. Queste dittologie sono al centro dell’equivoco dei cognomi.
Per un esempio specifico basta prendere Jeb Bush, il prossimo della famiglia a mettersi in fila per la Casa Bianca, se così deciderà in primavera, e la sua passione per una riforma sull’immigrazione che somiglia parecchio, nello spirito, all’ordine esecutivo appena annunciato da Obama. Dei clandestini dice: “Sì, hanno infranto la legge, ma non è un delitto. E’ un atto d’amore, un atto d’impegno nei confronti della famiglia. Penso che si tratti di un tipo diverso di crimine”. Non lo dice soltanto perché ha una laurea in Studi latinoamericani, una moglie messicana ed è stato governatore di uno stato bilingue come la Florida, ma anche e soprattutto perché nelle vene della famiglia scorre lo spirito del conservatorismo compassionevole. Nel recente passato l’uomo dei record in fatto di respingimenti, rimpatri e altre misure rigide sul confine messicano è stato Obama, non un rappresentante della famiglia Bush. Addirittura Bush senior è stato un precursore del diritto al ricongiungimento familiare e alla regolarizzazione temporanea dei clandestini sul territorio nazionale. Nel 1990 ha firmato un ordine esecutivo speculare a quello appena emesso da Obama. Come ricordava la settimana scorsa l’editorialista liberal E. J. Dionne, “la famiglia Bush non è mai stata parte dell’ala destra del Partito repubblicano”: il capostipite politico, Prescott Bush, era un repubblicano fedele a Eisenhower che si è separato dal partito per inseguire un ideale che definiva “progressismo moderato”. La discendenza trapiantata dalle barche a vela del New England ai pozzi di petrolio del Texas ha dovuto giocoforza cercare di attrarre le correnti più intransigenti del mondo repubblicano, senza però mai sdraiarsi su una piattaforma politica radicale. La promessa fiscale di Bush padre (“read my lips: no new taxes”) che ha avuto un ruolo decisivo nella salita di Bill Clinton alla Casa Bianca è ricordata innanzitutto perché è stata violata con effetti elettorali tragici, ma l’idea stessa che un conservatore pragmatico non particolarmente devoto allo small government si fosse arrischiato in una promessa del genere è meritevole di menzione. Un altro equivoco di famiglia.
[**Video_box_2**]George W. Bush è stato equivocato in modo amaramente spettacolare. Ha esordito alla presidenza avvolto dall’immagine del rampollo ricco e inetto con poca o nessuna esperienza diretta delle cose del mondo, un governatore-petroliere prestato per diritto ereditario alla politica nazionale. L’11 settembre ha cambiato ogni cosa e il presidente si è ritrovato a dirigere coraggiosamente una campagna militare e morale contro l’odiosa ideologia che propugnava e propugna la distruzione dell’America e dell’occidente cristiano. Da petroliere inetto è diventato eroe globale della moral clarity, e per questo la mentalità dominante della sinistra che benpensa lo ha trasformato in un arcinemico da abbattere con la foga del rito espiatorio. Ora nel ranch di Crawoford segue i consigli di Churchill sulla pittura come passatempo, scrive la biografia del padre, limita al minimo gli interventi pubblici perché sa che l’incedere silenzioso e inesorabile della storia raddrizzerà il grande equivoco. Non c’è bisogno di rivendicazioni spettacolari.
Clinton è stato l’interprete di un opposto misunderstanding. Il governatore rampante del sud con sigaro e sassofono è entrato nelle sale di marmo della storia politica come il grande modernizzatore della sinistra globale, e ora si aggira come un padre benedicente innalzandosi sul piedistallo della propria, indiscussa autorevolezza presso qualunque platea democratica. Alla fine è diventato un simbolo del liberalismo, ma nel percorso politico e antropologico è successo di tutto: le triangolazioni, la costruzione di una macchina politica invincibile e senza scrupoli, le macchie sul vestito di Monica Lewinsky, l’impeachment, le battaglie del politicamente corretto, il grande abbraccio con Wall Street e con la sua cultura, nemesi della sinistra più intransigente. Clinton è stato il presidente che ha portato al Tesoro Larry Summers, l’economista secondo cui le donne per natura non sono versate per le scienze, e allo stesso tempo ha sospinto la moglie verso la storica rottura del “soffitto di vetro” del primo presidente donna. Obama s’è messo di traverso al primo tentativo, ma il team dei Clinton conosce le antiche arti dell’attesa e della pazienza. Altra stranezza per un presidente che si è affermato con la muscolare vivacità dell’azione politica e le manifestazioni eccessive della propria esuberanza nello Studio ovale per poi redimersi all’occhio della storia riciclandosi come padre spirituale dell’universo democratico in via di ridefinizione. Le eredità politiche equivocate sono il tratto comune delle due famiglie che potrebbero trovarsi di fronte a un’altra sfida, questa volta con un moderato ex governatore guardato in cagnesco dalla corrente di destra del suo partito e una nonna d’establishment già first lady universale dei democratici .
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