Sisi contro Baghdadi
Il presidente egiziano arriva in Italia da nemico principale del Califfato, dalla Libia in guerra fino al Sinai e ai confini sauditi (e il suo lato oscuro passa in secondo piano).
Ieri, preceduto da un’intervista domenicale sulla prima pagina del Corriere della Sera, è arrivato in Italia in visita ufficiale il presidente egiziano (ed ex capo dello stato maggiore) Abdul Fattah al Sisi. Tra mattina e sera ha visto Papa Francesco, il presidente Giorgio Napolitano, il presidente del Consiglio Matteo Renzi e il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni. Ogni casella del rito istituzionale è stata riempita con diligenza e questo viaggio in Italia assomiglia a un’investitura ufficiale del club internazionale. Detto con parole rozze: eccolo, il nostro arabo anti Baghdadi. Sisi è qui per restare, perché si è caricato sulle spalle un compito preciso. Fare da pilone centrale per l’architettura di sicurezza che deve essere ripristinata nel nord dell’Africa e in medio oriente dopo quasi quattro anni di violenza, ed eliminare le spore dello Stato islamico – la rivoluzione ultraviolenta e shariatica scatenata da Abu Bakr al Baghdadi – prima che attecchiscano in giro, tra il Sinai, la valle del Nilo, la Libia, la Tunisia e l’Algeria. Recuperare la stabilità, che infatti è la parola dal suono magico che appare nella sua prima risposta al Corriere. Baghdadi è salito sul minbar (il pulpito) dela moschea grande di Mosul grazie a guerriglie religiose senza alcun controllo, Sisi deve troncare questa deriva (non è detto che riesca).
Questo suo ruolo è legato anche all’inizio della sua carriera politica. Il colpo di stato contro il presidente Mohammed Morsi è stato innescato da un convegno dei Fratelli musulmani in cui il rais prometteva appoggio agli egiziani che intendessero andare a combattere il jihad in Siria contro il presidente Bashar el Assad. Il governo del Cairo schierato ufficialmente con la guerra santa? I generali devono essersi guardati in faccia tra loro e devono avere deciso che alla prima occasione buona Morsi doveva essere fermato e i Fratelli musulmani ricacciati nell’irrilevanza – o almeno nella clandestinità. L’accoglienza che ieri e oggi Sisi riceve in Italia è il segno che ha vinto la sua scommessa. L’instabilità araba fa troppa paura, ogni altra considerazione passa in secondo piano (per esempio, in Egitto tira una pessima aria per i giornalisti stranieri, accusati di disfattismo e spionaggio). Un’altra conferma della vittoria è il fatto che gli Stati Uniti hanno ricominciato ad armare l’Egitto. Sisi si è reso necessario al suo paese e all’occidente, l’insediamento è compiuto.
Due immagini di convogli dei miliziani dello Stato islamico a Derna, nella Libia orientale
Il presidente egiziano è stato facilitato nella sua ascesa dai modelli negativi che lo circondano. A ovest c’è la Libia, che sembra posata sulla stessa traiettoria infame della Siria: la ribellione antiregime conquista spazio e poi lo cede a un assortimento letale di gruppi armati e signori della guerra che si mangiano il paese. Una fonte del governo israeliano che non vuole essere citata per nome dice al Foglio: “La Libia è ormai soltanto un’espressione geografica”. Come se non bastasse il livello di violenza di questi anni post Gheddafi, ora sta pure cominciando la colonizzazione da parte dello Stato islamico. E come succede con tutto quello che riguarda Baghdadi, c’è la tentazione di usare iperboli: “Il Califfato si prende anche la Libia”. In realtà i guerriglieri di Baghdadi sono ancora un gruppo minoritario al punto da essere quasi invisibili e ancora marginali in questa guerra civile che oppone – grossomodo – islamici raccolti attorno alla milizia dell’Alba e militari raccolti attorno all’idea di una Restaurazione dell’ordine. Però: anche in Siria gli uomini di Baghdadi erano entrati di soppiatto. Poi s’è visto com’è finita.
Sisi sta facendo da colonna centrale della strategia degli stati sunniti per riportare una parvenza di stabilità in medio oriente e tenere al suo posto l’Iran (due traguardi che sono posti in direzioni assai diverse). All’inizio di novembre il presidente ha legato in modo esplicito la sicurezza nazionale dell’Egito a quella dei regni del Golfo, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Kuwait. La nuova alleanza ha come scopo la guerra “ai militanti” (leggi: Stato islamico) e considera come terreno di intervento possibile la Libia e lo Yemen. Il Cairo ha anche appena proposto (sul Corriere) di mandare un contingente di soldati ad aiutare l’Autorità nazionale di Ramallah, se e quando sarà dichiarato uno stato palestinese (scopo non dichiarato: impedire ai detestati miliziani di Hamas di prendere il sopravvento). Il Cairo ha già ottenuto il cessate il fuoco strategico tra Israele e Hamas la scorsa estate, facendo interrompere la guerra nella Striscia di Gaza. Gerusalemme si fida talmente di Sisi che ha autorizzato un incremento senza precedenti delle forze militari egiziane nel Sinai, zona in teoria demilitarizzata dal trattato di Camp David nel 1979.
Combattenti dello Stato islamico riuniti in preghiera a Derna, in Libia
[**Video_box_2**]Sisi è il braccio, l’Arabia Saudita non è la mente ma almeno è il portafoglio (vedi ultimi giganteschi prestiti per mettere un cerotto al grande problema di Sisi, l’economia macilenta dell’Egitto. Sono arrivati circa 20 miliardi di dollari dai sauditi e da altri alleati del Golfo da quando i Fratelli musulmani sono stati deposti). Oltre a rovesciare Morsi dopo averlo sentito parlare di jihad, ad aiutare Israele a trovare un accordo con Hamas, a dare il via a manovre militari nel Sinai che a detta degli osservatori sono molto dure, l’Egitto sta anche proiettando la sua sicurezza militare all’esterno. Quando l’Arabia Saudita quest’estate s’è presa paura della cavalcata dello Stato islamico in Iraq e ha rafforzato il confine con trentamila soldati, lo ha fatto chiedendo in prestito – anche – militari egiziani. Forse perché se ne fida di più che dei propri sauditi. E quando gli Emirati Arabi Uniti hanno deciso di intervenire in Libia con raid aerei contro le milizie islamiste, lo hanno fatto grazie a un accordo con l’Egitto, che ha concesso l’uso di un campo del’aviazione appena al di qua del confine. Così gli aerei degli Emirati hanno la vita più facile (non ci sono conferme su questa campagna aerea, gli americani dicono che dietro ci sono Egitto e Emirati, il Cairo smentisce, la Libia dice di avere preso soltanto “in prestito” gli aerei). Insomma, l’Egitto ha un ruolo centrale nella guerra civile della Libia (opposto al Qatar, tanto per ricordare le posizioni in campo).
Di certo all’Egitto del generale Sisi non sfugge quello che sta accadendo nella città libica di Derna, a ovest, la novità potenzialmente più pericolosa di quest’anno. Derna è una cittadina di quasi 100 mila abitanti affacciata sul Mediterraneo, nella Libia orientale, a poco più di trecento chilometri dalla coste della Sicilia. Da due settimane è in parte sotto il controllo dello Stato islamico e su alcuni dei suoi edifici compare la bandiera nera associata al Califfato. Si tratta del risultato di un piano di espansione formulato in Siria e in Iraq. I militanti di Abu Bakr al Baghdadi sono arrivati lì la scorsa primavera, erano gli uomini della brigata al Battar, che è la brigata dello Stato islamico formata interamente da volontari libici, che ora cominciano a rientrare dalla guerra in Siria e in Iraq.
Derna è la città ideale per fare da testa di ponte di Baghdadi nel nord dell’Africa. Da sempre sede di movimenti integralisti, proprio per questo i suoi cittadini hanno conosciuto la dura repressione del regime di Muammar Gheddafi negli anni Ottanta e Novanta. Quando nel 2007 i soldati americani hanno scoperto i cosiddetti “Sinjar records” – un archivio tenuto dallo Stato islamico in Iraq che elencava nome e nazionalità di tutti i foreign fighters arrivati a combattere, un documento prezioso – videro che una maggioranza relativa di loro proveniva proprio da questa antica capitale della Cirenaica.
Per esportare l’autorità del califfo sulla costa del Mediterraneo sono arrivati 800 miliziani che si sono imposti sulle brigate di Abu Salem, rivali dello Stato islamico in quanto appartenenti all’orbita di al Qaida. La città ha ora un’organizzazione amministrativa autonoma retta da uno yemenita finora semisconosciuto, Mohammed Abdullah, nome di battaglia Abu al Baraa al Azdi. Come molti dei miliziani che hanno fondato l’emirato del Wilayat di Barqa (ovvero della provincia della Cirenaica), al Azdi ha combattuto in Siria; così come Abu Nabil al Anbari, l’artefice della conquista della cittadina (almeno secondo Norman Benotman, un ex jihadista libico oggi analista anti terrorismo della Quillam Foundation, sentito dalla Cnn). Di Anbari si sa poco, a parte che ha accesso diretto ad al Baghdadi: i due si incontrarono in un campo di prigionia americano in Iraq per poi combattere insieme nelle fila dello Stato islamico. E’ un veterano, dice Benotman, inviato dal califfo in persona per conquistare Derna in Libia, a più di 1.600 chilometri dal territorio del Califfato.
La milizia che controlla la nuova provincia islamista (il suo nome è ufficialmente “Consiglio della Shura per la gioventù dell’Islam”) ne include diverse altre che hanno da poco giurato fedeltà al califfo: la brigata Rafallah al Sahati, che faceva parte di Ansar al Sharia (da poco inserita dalle Nazioni Unite nella lista delle organizzazioni terroristiche), i “Martiri della brigata del 17 febbraio”, “Lo scudo libico” e Jaish al Mujahideen. Il Consiglio della Shura afferma di avere attivato altre cellule di combattenti a Bayda, Bengasi, Sirte, al Khums e, soprattutto, nella capitale Tripoli. Negli ultimi giorni, per dimostrare la presenza dello Stato islamico lungo la costa meridionale del Mediterraneo, sono arrivate sui social network fotografie di miliziani che giurano fedeltà al califfo: dalla capitale fino a Bengasi, più ovviamente qualche immagine delle parate di veicoli militari con le bandiere nere a Derna. A loro si oppongono, oltre al Parlamento eletto di Tobruk, tutti quei gruppi di combattenti islamici che non riconoscono l’autorità di al Baghdadi; e ovviamente anche l’esercito dell’ex generale Khalifa Haftar, il comandante delle forze militari anti islamiche che vanta il sostegno di Egitto, Emirati Arabi Uniti e (forse) dell’Algeria.
L’importanza di Derna per la strategia e per la propaganda dello Stato islamico è spiegata dai fatti successi nelle ultime settimane. Il 16 novembre, il gruppo che controlla la città ha rivendicato nove attacchi suicidi contro l’esercito libico. I kamikaze provenivano quasi tutti dall’Egitto e dalla Tunisia . Di questi, tre hanno attaccato il cosiddetto “Campo 36” di Katiba al Saiqa, un altro si è fatto esplodere all’aeroporto militare di Benina controllato dalle forze di Haftar, e un altro ancora in un distretto di Bengasi. Derna diventa così il nuovo grande scalo per il reclutamento di combattenti provenienti dall’Africa settentrionale, Tunisia in primis, grazie alla presenza di dodici campi di addestramento nei dintorni dell’Altopiano Verde (Jabal al Akdar). Degli almeno tremila tunisini che si sono uniti allo Stato islamico, molti hanno trovato protezione proprio in Libia (in patria il gruppo è stato dichiarato fuorilegge nel 2013). Ora secondo alcuni attivisti locali nella città vige una rigida applicazione della sharia, imposta per le strade da uomini della polizia islamica; nelle scuole maschi e femmine seguono le lezioni in classi separate e storia e geografia sono state cancellate dagli insegnamenti.
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