Dalle Prealpi alle banlieue. Antropologia poco padana del Franti della Lega
La Lega delle origini di Umberto Bossi e del suo clan, del sulfureo ideologo Gianfranco Miglio, del Calderoli e dello Speroni è stata fenomeno autoctono, cispadano e prealpino. Spazio di rivolta delle periferie geografiche e di tutto quello che sociologicamente rappresentavano cucite insieme da sogni e simbolismi à la grosso modo.
Varesotti, bergamaschi. E cugini-antenati di Treviso, Verona. I più audaci, Lugano come meta, i cantoni svizzeri come prospettiva geopolitica. Pontida, il posto più decentrato di Lombardia da qualsiasi punto di Google Maps lo vogliate pigliare, come centro di una Heimat trans-dialettale, tribale. La difesa delle autonomie, del comune e della frazione rurale, la fede come gli Hobbit nelle misure del mondo tradizionali. La calata dell’orda a prendersi le capitali del Potere (Roma ladrona, Milano risciacquata dopo la Milano da bere) come un accerchiamento delle campagne alla città. Polpottiano, a suo modo.
La Lega delle origini – veneta, poi lombarda, infine del nord – di Umberto Bossi e del suo clan, del sulfureo ideologo Gianfranco Miglio, del Calderoli e dello Speroni è stata fenomeno autoctono, cispadano e prealpino. Spazio di rivolta delle periferie geografiche e di tutto quello che sociologicamente rappresentavano – capannoni, partite Iva, quote latte, microimpresa ed evasione fiscale inclusa – cucite insieme da sogni e simbolismi à la grosso modo: la secessione, il Po, il dialetto lingua dei popoli, i celti e la Serenissima. Al netto del disastro finale, e della grande intelligenza politica con cui Bossi è riuscito a trasferire tutta questa polenta politica ribollente in una ferrea alleanza di governo e di enti locali con il Cav., con prospettive quasi di riforme e con più logica di quanto gli avversari abbiano mai voluto ammettere, per trent’anni la Lega è stata il prodotto e il riferimento, popolano più che popolare, di questa fetta dell’Italia. Nel momento del massimo ed effimero splendore (elezioni del 2008), tentò pure la conquista di un altro tocchetto d’Italia, scendendo non di città in città (le “cento città”, fighettismi di sinistra), ma lungo la dorsale appenninica (da Sassuolo alle Marche).
[**Video_box_2**]Matteo Salvini aveva vent’anni nel 1993 ed era già consigliere comunale. Ma a Milano. Dove è nato, piccola borghesia urbana. Non ha mai avuto negli occhi il federalismo delle valli, nel cuore forse la secessione, meno la Svizzera. E’ nato agit-prop delle banlieue metropolitane. Incazzate non in simbolo ma nella quotidianità con gli immigrati, i campi rom, la casa che non c’è, la lista d’attesa all’asilo nido per far passare lo straniero. Non sono suoi i sogni dell’Italia come espressione geografica. Padroni a casa nostra per lui ha sempre avuto il sapore di una rissa di quartiere. Battaglie difensive, incazzate. Che trovano miglior humus nei territori della fabbrica diffusa che nel selvaggio borgo natio, in ogni periferia che sconti l’insipienza dei sindaci e i conti da pagare dell’euro assassino che nella provincia opulenta. Non l’Europa dei liberi popoli federati, ma l’Europa mostruosa dei banchieri da cui fuggire.
La trasformazione del mito della Svizzera verde in lepenismo metropolitano, si chiami pure Italia e non più Padania, difendersi dai barbari che vengono da fuori, è l’operazione di Matteo Salvini. Quanto ci sia di furbesco e dettato dai sondaggi, quanto di disperata scelta di sopravvivenza è da misurare. Quanto ci sia di mutazione genetica, di Dna differente nel nuovo principino della Lega rispetto agli antenati montani, è un dato di fatto.
Il Foglio sportivo - in corpore sano