Mariano Rajoy, primo ministro spagnolo (foto AP)

Il pil con la febbre spagnola

Marco Valerio Lo Prete

La radicalità, nelle riforme economiche e nelle risposte messe in campo per fronteggiare la crisi, alla lunga paga. Anche in contesti decisamente diversi e lontani, come quelli di Stati Uniti e Spagna. 

Roma. La radicalità, nelle riforme economiche e nelle risposte messe in campo per fronteggiare la crisi, alla lunga paga. Anche in contesti decisamente diversi e lontani, come quelli di Stati Uniti e Spagna.

 

Due giorni fa, in America, l’ennesimo dato sopra le attese degli analisti ha rianimato i listini di Borsa. Si trattava, in particolare, del tasso di crescita del pil nel terzo trimestre, rivisto al rialzo fino a più 3,9 per cento. In questo modo è a portata di mano il tasso di crescita del pil previsto per quest’anno dal Fondo monetario internazionale, cioè più 2,2 per cento, destinato a salire al più 3,1 per cento l’anno prossimo. Lo scollamento con l’Eurozona è tornato a essere quantomai evidente. Basti dire che il tasso di disoccupazione americano (5,9 per cento) è praticamente la metà di quello del nostro continente. Così Jon Hilsenrath, columnist del Wall Street Journal, ha tentato in queste ore di mettere in fila le principali lezioni che si possono trarre dal diverso andamento dei continenti. Secondo Hilsenrath, Stati Uniti e Regno Unito hanno essenzialmente mostrato una maggiore radicalità quando si è trattato di sperimentare politiche monetarie espansive e non convenzionali. Gli Stati Uniti poi, ai tempi delle vacche grasse, non hanno esagerato con l’accumulazione di debito pubblico, a differenza per esempio di paesi come il Giappone e l’Italia. Risultato: “Negli Stati Uniti e nel Regno Unito la politica fiscale è stata più flessibile che in Europa e in Giappone, facendo sì che i deficit  dei governi siano aumentati subito dopo la crisi e poi successivamente diminuiti in modo graduale”. Più radicalità, infine, Washington l’ha mostrata anche nel risolvere i propri problemi nel settore creditizio, finanziando o incentivando robuste ricapitalizzazioni delle banche già nel biennio 2008-2009.

 

Ma è davvero possibile essere “radicali” nell’Eurozona, con l’attuale frammentazione del sistema decisionale e il perenne contrapporsi di veti e interessi nazionali? Difficile scommetterci. Certo è che sempre il Wall Street Journal, quotidiano americano di tendenza liberista, qualche giorno fa ha definito quella spagnola come “l’unica storia di un vero ‘turnaround’ nella crisi del Continente”. La tesi non è unanimemente accettata, ma certo gli argomenti per sostenerla non mancano. Ieri la Banca centrale di Madrid ha detto che l’economia iberica nel terzo trimestre è cresciuta dello 0,5 per cento (l’Italia nello stesso periodo ha fatto segnare meno 0,1 per cento), e che a fine anno il pil aumenterà dell’1,3 per cento (l’Italia sarà ancora in recessione, a meno 0,3 per cento). La congiuntura non è tutto, certo, ma anche visti in prospettiva questi dati non sono malaccio, almeno rispetto al resto della periferia dell’Eurozona: la Spagna dal 2008 a oggi ha perso 5 punti di pil, l’Italia ne ha persi 9, secondo le stime di Bloomberg.  Il tasso di disoccupazione è ancora stellare, ma dal 26 per cento dello scorso anno è sceso al 23,7 per cento. E qualcuno sottolinea che l’attuale forma di sussidio per la disoccupazione incentiva più persone a dichiararsi “disoccupate” di quanto non accada in Italia, dove per le statistiche cresce il numero di quelli che escono del tutto dalla forza lavoro.

 

[**Video_box_2**]Secondo gli analisti di Société Générale, la differenza principale rispetto a Italia e Francia è un’altra però: la Spagna dal 2008 a oggi ha almeno riconquistato un po’ della sua competitività persa negli anni pre-crisi. Questo ha consentito “una performance impressionante delle esportazioni”, ed è avvenuto per due ragioni: la crescita dei licenziamenti (dolorosa) e la riforma del mercato del lavoro (virtuosa) che ha premiato la contrattazione aziendale. Rivoluzionato il Derecho Laboral, il governo conservatore di Mariano Rajoy insiste. Adesso tocca alla riforma delle tasse, approvata lo scorso 20 novembre dal Parlamento. “La logica è quella di ridurre le aliquote, aumentando la base imponibile”, dice al Foglio Carlos Concha di PricewaterhouseCoopers. L’imposta sulle società, dal 30 per cento di oggi, si abbasserà progressivamente al 25 nel 2016. “Inoltre la riforma incentiverà le aziende a finanziarsi con l’equity invece che con il debito”, dice Concha. Le aliquote dell’imposta personale sul reddito diventeranno 5 (da 7) e scenderanno anch’esse; l’aliquota più bassa scenderà al 19 per cento dall’attuale 24,75, quella più alta scenderà dal 52 al 45 per cento.

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