Il mio amico Pietrangelo Buttafuoco lo chiama “piritollo” e in questo termine c’è un giardino fiorito di canzonature serissime

Non è il mio tipo

Alessandro Giuli

L’opposizione estetica a Matteo Renzi, al suo sorriso pendulo, al suo tecnobullismo. Inventario di una rivolta istintiva, disallineata e totally unnecessary, contro un vincente. Il tumulto sensoriale che grida la propria rivolta contro un tipo umano la cui dimensione vera sarebbe quella del comico.

- Che ti comunica Renzi esteticamente, in tre parole? La prima cosa che ti viene.
- Dal vivo mi pareva sin sexy, ma era buio.
- Sin sexy sta per sinistra sexy? O è “perfino”?
- Perfino.

 

Le style c’est l’homme, ecco tutto. E se questo è il canone allora Matteo Renzi non è il mio tipo. Non c’entra niente con me e non è questione di anagrafe ma di percezione, di estetica appunto. Da queste parti c’è un tumulto sensoriale e pre-logico che grida la propria rivolta contro un tipo umano la cui dimensione autentica sarebbe quella del comico; altro che la maestà delle istituzioni, se ci fossero. Konrad Lorenz insegna che i cani dispongono non soltanto d’uno spettro intuitivo dettagliatissimo, ma lo esercitano al nostro servizio, quasi telepaticamente. Quando siamo in presenza d’una persona che ci è indesiderata, loro colgono sul volto padronale la più minuta espressione d’insofferenza e ostilità, a nulla vale dissimulare, e subito s’incaricano di fare giustizia al posto nostro, scavalcando la barriera sociale che ci trattiene: puntano la preda conficcandole gli occhi sul collo, arrotano il ringhio, arricciano il muso e sfoderano i canini. Ecco, i nostri sensi sono cani da guardia addestrati al combattimento, sono il revulsivo naturale che ci spinge il petto alla diffidenza verso qualcuno o qualcosa, nell’ipotesi migliore. Di qui il giudizio immediato autoimposto su questa e quella persona, poi verrà il resto, perfino un sorriso di circostanza.

 

Nei confronti di Renzi c’è dunque un’opposizione estetica ed è forse la più sincera fra tante altre alimentate dal bisogno, dal rimorso e in definitiva dalla necessità di recitare una parte in commedia. Il mio amico Pietrangelo Buttafuoco lo chiama “piritollo” e in questo termine c’è un giardino fiorito di canzonature serissime. Definizione del Buttaf: “Piritollo è colui il quale col ditino alzato, in virtù di mera presunzione, giudica condanna e sentenzia con argomentazioni sempre gassose e mai sostenute da solide convinzioni”. “Rispetto all’estetica berlusconiana – mi dice Buttafuoco –, fatta di cravattoni e kit di plastica e irreggimentata nell’ideologia di Publitalia, adesso vige un conformismo totalizzante per cui non riesci più a distinguere un’antropologia fra i così detti renziani”. Si camuffano. “Li scovi dappertutto, dalle cellule dell’ex Pci ai rimasugli della parrocchia, fino all’epica boy scout forzata: tutto serve soltanto all’idea rassicurante di questa mobilitazione conformista.

 

Un’altra differenza è che Berlusconi ebbe consenso, e il consenso è di per sé divisivo, impone sempre una scelta e ha come conseguenza una larga opposizione nella società, di cui si fanno carico i giornali, i maître à penser e i potentati della finanza internazionale. Invece il conformismo non conosce opposizione, non è divisivo: Matteo Renzi vive in questa dimensione”. Il refolo sterilizzante della parrocchia si avverte, come una varechina dell’anima di cui si nutre il fanatismo delle certezze. Anzitutto quella di non avere predecessori all’altezza ovvero – ma qui si scade nella teologia – di aver diviso a metà una storia: ciò che sta prima (il mondo analogico, quello delle lancette fissate all’orologio), nella sua imperfezione, non fa che preparare l’avvento del dopo (il digitale, il regno della mobilità sedentaria in cui trionfa l’ipertrofia del pollice opponibile ingigantito dall’uso delle chat e delle timeline, cose che noi umani ci sogniamo). Ma qui, col Buttaf, siamo due avanzi del totalitarismo novecentesco (fate voi quale, purché ci sia l’aggettivo “platonico”).

 

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Renzi è un boy scout alfa che farebbe simpatia, eppure in lui non si coglie la dimensione del tragico che accompagna perfino il buffone di corte, la sua andatura è di una sveltezza inconsapevole, non ha nulla di marziale e infatti il suo bullismo tecnologico, quel suo adorato teppismo tuittarolo, è il contrario del codice d’onore che collega ogni circolo di ufficiali a qualsiasi muretto di periferia, laddove vige la legge non scritta dell’etologia: coraggio, valore, rispetto per i veterani.

 

[**Video_box_2**]E poi nulla, nemmeno un certificato di nascita piantato nella metà degli anni Settanta del secolo scorso – gli anni di “Ufo robot”, di “Happy days” e delle figurine Panini che hanno rincoglionito l’io collettivo di Walter Veltroni e regalato al furbo fiorentino il giubbotto di pelle alla Fonzie – costringe Renzi a comunicare quel senso di smisurata, callida ignoranza. Invece lui questo anche irradia. Figlio di nessuno, culturalmente sprovvisto di padri e ai padri nemico come in un simil-romanzo di Aldous Huxley (letto in inglese, pronunciato in toscano) nel quale una mutazione antropologica genera turbe di uomini-otre gonfiati dal desiderio di azzeramento. In Renzi non s’indovina un romanzo di formazione in divenire, nel suo sorriso pendulo non trovo un corpo a corpo con la donna senza cuore di Balzac (la femmina, la società, la vita) né l’arroganza cosparsa di cicatrici d’un Trimalcione appena risalito dalla schiavitù alla possidenza. Zero. Tabula rasa. Al limite “House of cards”, questo sì, e chi non la vede “House of cards”?, un’elettricità seriale che viene dal satellite ed è sempre sul punto di scaricarsi in rete. Tanta fretta in camicia bianca e abiti blu (ma la sartoria è diventata quanto meno accettabile nel volgere di due discorsi alle Camere), una certa smartness, potrebbe dire lui, l’acume frenetico della battuta trapiantata da una sceneggiatura americanomorfa, la vanitosa sensazione di abitarci dentro e la voglia di restarci.

 

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Tutt’altro mondo, per dire, rispetto al bradipo Enrico Letta, lui sì degna progenie democristiana, dotato di una vanità diversa, più intima e semmai tradìta che non sfoggiata nella sprezzatura giovanilistica. In Letta rivedi la rivincita del nerd destinato per vie familistiche all’affermazione politico-sociale, ne intuisci la forforosa carriera del secchione privo di fantasia, spiumato e ricurvo anzitempo, educatamente involuto nell’eloquio (un modo per non dire mai un cazzo di cui la Dc è stata genitrice e balia), la paludata e paludosa tendenza alla mediazione, a muoversi al rallentatore, se stessi e il proprio mondo-ambiente o anche l’Italia, nel caso di Letta, quando stava a Palazzo Chigi, come nei cattivi sogni in cui uno cerca di divincolarsi dai mostri e non riesce a correre a velocità normale. A modo suo anche questo è un canone estetico, e ha qualcosa di rassicurante che rende inconsolabili alcuni suoi estimatori come Antonio Polito. Lui sul Corriere della Sera (è anche direttore del Corriere del Mezzogiorno) appena può gufeggia in bello stile contro Renzi, non senza qualche ragione solida maculata però di pretestuosità da una pruderie non solo epidermica, un’orticaria dell’anima che il così detto establishment aveva già provato, similmente riamato, con Berlusconi e che col bullo di Firenze diventa enfiagione, turgore dolente, idropisia: Renzi non è il tipo di Polito perché fa lo spaccone dentro e fuori casa; sopra tutto non piace a Ferruccio de Bortoli e al Corriere perché se ne fotte allegramente di Ferruccio de Bortoli e del Corriere. Ma fin qui siamo lontani dal domicilio renziano di partenza, e le alternative estetiche al renzismo – al netto di Platone – rischiano di farcelo addirittura piacere per contrasto, bisogna stare attenti, vigilare sui propri sensi.

 

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Certo, quando urla “basta leopolde, basta cazzate!” Maurizio Landini fa decisamente più sangue, come dicono le sue ammiratrici anche altolocate (ma non soltanto loro: ho sentito con le mie orecchie un liberista, l’unico liberista non ricco che conosco, ripromettersi l’iscrizione alla Fiom dopo aver ascoltato quelle parole. Sarà perché non è ricco). Landini ha una voce possente, tra il baritonale e lo spaccatimpani, il suo spartachismo terrigeno è ostentato nella maglietta della salute più ancora che nelle felpacce della filiera Fiat-Fiom-Padania. La voce di Renzi richiama un po’ la raucedine del cappone, assai lontana dal fruscìo sonoro di uno come Obama, che con la sua calda e morbida voce ha sedotto l’America. Eppure. Eppure Renzi funziona: Landini è percepito dal senso comune come un’inattuale sentinella di Pompei cristallizzata dalla consegna di difendere una piazzaforte già travolta dalla lava del fato. Mentre Renzi è perfettamente allineato con l’anima del tempo e la sua rosa dei venti intercetta senza sviste ogni torrente d’aria al quale piegare le vele della sua comunicazione. Non c’è storia.

 

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[**Video_box_2**]Non c’è storia. Né filosofia che tenga. L’opposizione di uno come Massimo Cacciari, per dire, deve limitarsi al banale: Renzi è figlio di Berlusconi: “Ne sono totalmente convinto”. Il Cav. “ha introdotto un cambiamento antropologico. Renzi fa una politica scatenata, che non ha niente a che vedere con la tradizione socialdemocratica e comunista” (al Garantista). L’accademia vede in Renzi un allogeno, un incubo berlusconiano germogliato e – suprema onta – rifiorito nella parte giusta dell’universo, la sinistra. Poco coltivato, zero velluto addosso, tutto chiacchiere e coolness moderna. E la sua non è nemmeno la fosforescenza cretina di cui D’Annunzio marchiò Marinetti e i suoi futuristi. Come ha scritto di recente, sul Foglio, Alfonso Berardinelli, “Cacciari ha dichiarato (scendendo di livello) che detesta Renzi”. Lo detesta come un brutto inciampo. “Ha capito bene che quel ‘ganzetto’ toscano è impermeabile alla filosofia e quindi al suo magnetismo di filosofo insondabile, tipico e per antonomasia. Renzi non è un decisionista teologico-politico alla Carl Schmitt (su cui Cacciari gli farebbe volentieri una lezione), è invece un decisionista pratico, che per decidere fa prima a parlare che a pensare”. Suprema onta per un paesaggio, quello umanistico, bello e lento come il vetusto gregge dell’Intervallo Rai, eppoi cerimonioso, formalista, deliziosamente non fungibile, maldisposto ad accettare l’assioma per cui la lingua inglese è il latino del presente. E anche qui diventa necessario vigilare, vigilare sui propri sensi prima di finire convertiti al renzismo per mancanza di controprove credibili o anche solo respiranti.

 

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Cercavo una donna anti renziana che ne valutasse il sex appeal inorganico, ho trovato di meglio: Sabrina Ferilli sul settimanale Chi. “I selfie di Matteo Renzi in uno studio televisivo patinato con un gran sorriso, piuttosto che il cono gelato in mano, non rappresentano incapacità ma, di sicuro, inadeguatezza (ricordate come l’hanno menata a Silvio Berlusconi per le canzoni di Apicella piuttosto che al Berlusconi con la bandana?)”. Inadeguatezza. Unfitness. Ricorda in effetti qualcosa di berlusconiano. Sabrina Ferilli è l’Anna Magnani contemporanea, la nostra Roma città aperta: “Chi decide di fare politica, e la legge vale per tutti, deve rispettare la serietà dell’argomento che tratta. Tra gente che sta senza lavoro, fame, depressione e grande disagio, raccontarsi, tra estetisti e gelati in mano, non credo sia l’approccio migliore”. Ma questo non sembra più un paese per neorealisti e grandi bellezze. I disallineati dalla realtà siamo noi, se anche dalla verità non giurerei.

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