Pennsylvania Avenue
Obiettivi, strategie e uomini chiave della presidenza turca del G20
La prossima settimana la Turchia terrà l’incontro inaugurale della nuova presidenza del G20, l’inizio di un percorso che si concluderà tra un anno, con il summit previsto il 15 e 16 novembre 2015 nella splendida città costiera di Antalya.
La prossima settimana la Turchia terrà l’incontro inaugurale della nuova presidenza del G20, l’inizio di un percorso che si concluderà tra un anno, con il summit previsto il 15 e 16 novembre 2015 nella splendida città costiera di Antalya. Ma quali sono l’agenda, gli attori, il processo e, in generale, il significato della presidenza turca in un momento così delicato per questo paese che appare sempre più strategico per i destini della regione?
Cominciamo con l’agenda. La presidenza turca si pone in perfetta continuità con quella australiana che l’ha preceduta, condividendo l’enfasi su investimenti e infrastrutture. Questi ultimi sono centrali nell’agenda di riforme delle economie emergenti e necessari per sostenere l’alto tasso di espansione che tali economie hanno registrato negli ultimi anni. Allo stesso tempo, rappresentano una modalità in apparenza politicamente neutrale per includere il tema dello sviluppo delle economie a basso reddito nell’agenda del G20. Nel corso degli ultimi anni, la Turchia ha intensificato gli aiuti alla cooperazione ai paesi in via di sviluppo, soprattutto africani, rispetto ai quali si propone come modello di crescita economica e di asserzione politica in rapporto dialettico con l’occidente.
Rispetto alla presidenza australiana, Ankara intende porre l’accento sul ruolo delle piccole e medie imprese come volano dello sviluppo economico. L’idea, ancora da declinare nei suoi aspetti operativi, è di costituire in Turchia, con la benedizione del G20, un foro internazionale che funga da depositario di competenze e opportunità di mercato per lo sviluppo di questo importante settore che, nell’economia turca, genera due terzi delle sue esportazioni.
Passiamo agli attori e al processo. La presidenza turca sconta una partenza lenta dovuta all’avvicendamento di figure chiave ai vertici dell’amministrazione, a cominciare dal presidente Recep Tayyip Erdogan che si è insediato al vertice dello stato alla fine dello scorso agosto. Ayfle Sinirlio€lu, che ricopre il ruolo di sherpa o consigliere diplomatica per il G20, lo scorso settembre è rientrata da Madrid dove serviva come ambasciatrice. Più complicata la situazione al Tesoro, dove l’ex sottosegretario Ibrahim Canakci, responsabile negli ultimi anni per i dossier del G20 in materia economico-finanziaria, è dall’estate a Washington con un nuovo incarico presso il consiglio di amministrazione del Fondo monetario internazionale. Con lui, per la prima volta la Turchia esprime un direttore esecutivo nella storia recente dell’istituzione. Infine, Ali Babacan, il vice primo ministro con delega all’economia, viene considerato la figura chiave della presidenza turca del G20. Studi ed esperienza professionale negli Stati Uniti, con cui mantiene un rapporto eccellente per quanto discreto per conto del suo mentore politico Erdogan, ha alle spalle un’autorevole esperienza di governo, prima come ministro delle Finanze e, poi, degli Esteri. Sempre attento ad accreditarsi come tecnocrate piuttosto che politico, moderato piuttosto che populista, sul suo ruolo chiave nel G20 pesa una grana che solo il presidente e fondatore del loro comune partito Akp può risolvere. Con le elezioni parlamentari previste il prossimo luglio, quasi a ridosso del summit turco di novembre, Babacan ultimerà il suo terzo mandato parlamentare e, pertanto, in base allo statuto del suo partito, risulterà ineleggibile per successivi incarichi parlamentari. A meno di non cambiare lo statuto medesimo, il presidente lo potrebbe confermare come tecnocrate nel suo attuale ruolo governativo con una decisione ad personam.
[**Video_box_2**]Infine, il significato. Per l’establishment turco, la presidenza del G20 rappresenta l’opportunità di ristabilire una nuova narrativa internazionale per la Turchia stessa. Ankara è consapevole delle difficoltà con cui la sua leadership viene percepita nelle cancellerie occidentali. La sua relazione un tempo privilegiata con Washington è oggi a un punto di minimo, riflettendo le incertezze dello Studio ovale nella gestione della crisi siriana e l’ambivalenza di Barack Obama verso il nemico numero uno di Ankara, il dittatore siriano Bashar Hafez al-Assad. Per la cerimonia di insediamento di Erdogan alla presidenza, lo scorso 28 agosto, la Casa Bianca delegò a partecipare un diplomatico di basso rango. Poche settimane fa, in un suo intervento a Harvard, il vicepresidente Joe Biden accusava apertamente la Turchia di sostenere le milizie jihadiste dell’Isis, accusa alla quale Erdogan ha risposto chiedendo scuse formali altrimenti la relazione fra i due statisti “sarebbe diventata storia del passato”. Anche nella regione mediorientale, si annidano insidie e trabocchetti significativi per Ankara, come il fallimento della candidatura al Consiglio di sicurezza dell’Onu illustra. Riproponendosi lo scorso ottobre per la seconda volta in meno di 5 anni al supremo organo delle Nazioni Unite, Ankara ha raccolto solo 60 voti su 193, meno della metà dei 151 ottenuti nell’elezione del 2008.
L’anno prossimo, inoltre, ricorrerà il centenario del genocidio armeno, per il quale sono in programma commemorazioni in tutto il mondo, molte delle quali in chiave anti turca. Di qui la necessità di usare la presidenza del G20 nel tentativo di ricucire lo strappo avvenuto con la comunità internazionale, da una parte, mostrando sommessamente il lato umano del regime che dall’inizio della crisi siriana ha accolto 1,6 milioni di rifugiati senza chiedere un centesimo di aiuto alla comunità internazionale; e, dall’altra, intensificando l’attività diplomatica, come indicano le visite nei giorni scorsi di Papa Francesco e del vicepresidente Biden, pur con agende e finalità diverse. Per le élite illuminate turche, la presidenza del G20 rappresenta un’opportunità unica nel tentativo di contenere un regime di cui temono la deriva populista e l’allontanamento da quel sentiero di riforme modernizzatrici che doveva idealmente culminare con l’adesione di questo importante paese all’Unione europea.
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