Veti ambientalisti e interessi globali attorno al gasdotto Tap
Comincia il tosto negoziato tra governo e regione Puglia sullo sbocco del gas azero. Risiko tra energia, acciaio e diplomazia.
Roma. Gli strepiti ambientalisti s’alzano in Salento dove dovrebbe approdare il gasdotto Trans-adriatic pipeline (Tap) che porterà il gas naturale dall’Azerbaigian, un’ex Repubblica sovietica del Caucaso, in Europa passando da Turchia, Grecia e Albania. Un progetto transnazionale al quale in questi mesi il governo di Matteo Renzi, sulla scia del predecessore Enrico Letta, ha dato una spinta decisiva con il decreto Sblocca Italia perseguendo l’ambizione di ridurre l’indipendenza energetica dalla Russia.
I localismi nel paese dei veti ambientalisti rappresentano un Moloch. Oggi, in sede di Conferenza dei servizi, e domani al ministero dello Sviluppo economico, la regione Puglia negherà l’assenso all’avvio dei lavori per la costruzione del terminale del gasdotto a San Foca, comune di Melendugno, sul “tacco” d’Italia, asserendo di potere proporre altri siti possibili. San Foca è stata valutata positivamente dal ministero dell’Ambiente con decreto di Compatibilità ambientale. Singolare che i funzionari regionali si siano sostanzialmente disinteressati negli ultimi due anni sia alle undici alternative d’approdo loro proposte sia alla richiesta legittima di compensazioni economiche per il territorio e incalzino alla vigilia delle esplorazioni. A complicare il quadro ci sono i ricorsi presso i tribunali amministrativi dei comitati “No Tap” e una scena politica avversa con parte del Pd locale che cavalca la protesta e il candidato alle primarie del centrosinistra per le regionali 2015 scelto dal presidente Nichi Vendola (Sinistra ecologia e libertà), un ex confindustriale come Dario Stefàno, che deve cercare di piacere all’elettorato vendoliano filoambientalista. Si preannuncia un muro contro muro con il governo per nulla intenzionato a cambiare i piani, con la certezza di ritardare i lavori di un anno e mezzo. Gli ultimi 8 km del Tap, su 870 totali, sembrano dunque i più difficili da sviluppare.
[**Video_box_2**]I dissidi sul bagnasciuga autorizzano i soci del consorzio Tap a restare guardinghi. Il Tap è partecipato dall’inglese British Petroleum (20 per cento), la norvegese Statoil (20), l’azera Socar (20), la spagnola Enagas (16), la belga Fluxis (19) e la svizzera Axpo (5). Elshad Nassirov, vicepresidente della compagnia petrolifera azera Socar, già diplomatico di rango dell’Urss, ha detto tra il serio e il faceto che “la prova migliore che i timori ambientalisti sono infondati è che nel Caspio la vita sessuale degli storioni non risulta danneggiata né dai pozzi né dalle pipeline”. In risposta alle intemerate sui media russi di Beppe Grillo sostenitore dei “No Tap” (faremo di tutto per diminuire il peso di Socar in Italia), ha aggiunto che Socar, dalla quale dipende il bilancio pubblico di Baku, “non vende neanche il gas per un accendino nel vostro paese”; per ora è il quarto fornitore di greggio.
L’Italia non partecipa al consorzio ma il ministro dello Sviluppo economico, Federica Guidi, non ha chiuso la porta all’ipotesi d’ingresso di Snam, società di trasporto di idrocarburi. Lo stesso dice Snam. Capire se ci sarà un’occasione dipende dal disimpegno di uno dei soci – Statoil s’è chiamata fuori dal giacimento di Shah Deniz, fonte di provenienza del gas, ma per ora mantiene la quota nel Tap – e dalle intenzioni di Snam che ora è in pieno riassetto dopo l’ingresso nell’azionariato e (probabilmente) nel cda dei cinesi di State Grid of China in forza dell’acquisto del 35 per cento di Cdp Reti che aveva forte presa su Snam. Tuttavia governo e multinazionali hanno interesse affinché il gasdotto parta nel 2020, al di là dell’approvvigionamento energetico. L’acciaieria Ilva di Taranto, affossata da un’inchiesta giudiziaria per reati ambientali, è tra i partecipanti al bando internazionale per la fornitura di 760 km di tubi necessari a coprire il tratto su terra che va dal confine turco-greco alle coste albanesi. Il primo tubo, si prevede, verrà posato nel 2016. La produzione d’acciaio all’Ilva è calata del 25 per cento negli ultimi due anni e una commessa da 400 mila tonnellate darebbe ossigeno all’azienda messa in vendita dal commissario governativo Piero Gnudi. Sono formalmente interessati a trattare per rilevare gli stabilimenti italiani di Ilva il primo gruppo siderurgico europeo ArcelorMittal insieme ai Marcegaglia. Emma Marcegaglia, alla testa dell’omonima azienda di famiglia, è anche presidente dell’Eni e per questo alcuni maliziosi osservatori ravvisano una relazione tra l’affievolirsi dell’interesse da parte del colosso petrolifero italiano verso l’oneroso gasdotto South Stream, promosso dalla russa Gazprom ma a cui la Russia ha appena rinunciato, e, viceversa, il ritorno di fiamma verso il Tap. Sia come sia, questa è la posta in gioco globale. Comincia il negoziato.
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