Una scena di "Amici miei" di Mario Monicelli

La Corleone dei “cravattari”

Giuliano Ferrara

Un’inchiesta che sembra la commedia di Monicelli rititolata: “Camerati miei”. Una bella squadretta di pm alla caccia di una gang di topi che rosicchiano il formaggio. Titolo: “Roma, la cupola mafiosa”. Indagine su un’inchiesta al di sotto di ogni sospetto

Mafia Capitale non esiste. O, se preferite, Mafia Capitale non è mafia. Salvatore Buzzi, Massimo Carminati e gli altri 46 imputati hanno messo in atto comportamenti illegali, criminali, ma la mafia proprio no. Quella non c'era.

Giuliano Ferrara l'aveva già previsto. Riproponiamo qui un suo articolo del 4 dicembre 2014.


 

Secondo me questa storia della cupola mafiosa a Roma è una bufala. Una supercazzola del tipo “Amici miei” (indimenticata commedia di Mario Monicelli, 1975) nella versione “camerati miei”. Roma pullula come tutte le grandi città di associazioni per delinquere, e le risorse pubbliche, scarsine, sono appetite da piccoli medi e grandi interessi (questi ultimi in genere sono al riparo dalle inchieste): ladri, ladruncoli, millantatori, politicanti, funzionari corrotti e cialtroni vari sono un po’ dappertutto (Roma è il teatro degli Er Più de borgo, uomini d’onore all’amatriciana), ma trasformarli in una “mafia”, precisando che è “originale”, “senza affiliazione”, e farne un “sistema criminale” simile alla piovra, in un horror movie che si ricollega alla banda della Magliana, andata in pensione parecchi anni fa, è appunto una colossale bufala.

 

Il mio è un pregiudizio. Sono dunque tenuto a darne conto con la dovizia di argomenti che i pregiudizi meritano. Leggerò le mille pagine della procura vistate dal gip che ha chiesto 37 arresti, perquisizioni e incriminazioni di tutto un mondo e sottomondo romano tra crimine, malversazione e politica trasversale “dest-sinist”. Ma lo farò con calma, perché c’è tutta una letteratura di riferimento che già parla da sola, e forse in modo più eloquente ancora delle famose “carte del processo”.

 

1. Intanto quelle pagine erano già state scritte in romanzi di cui sono autori magistrati della procura di Roma fattisi scrittori (Romanzo criminale del dottore De Cataldo), che si sono poi associati a giornalisti da sempre amici dei magistrati (Suburra, De Cataldo con Carlo Bonini), e che adesso si vedono riprodotto quasi alla lettera il loro lavoro “creativo” in indagini giudiziarie che dovrebbero essere un po’ meno “creative”, o meglio distinte dalle avventure della fiction.

 

2. Intanto il dossier che condensa il tutto è stato letto per me, e ne hanno reso conto sui giornali, da legioni di cronisti giudiziari o “pistaroli”. Paginate e paginate che ieri erano l’ossatura dei grandi giornali e di quelli meno grandi, e in cui il racconto sugoso del “romanzo criminale” era schiacciato da titoli cubitali tutti uguali. Dalla Repubblica al Giornale, dal Corriere fino al manifesto passando per la Stampa, perfino Avvenire, e naturalmente il Messaggero, la formula ieri era una sola e squillante: il titolo a replica multipla esprimeva il tutto della grande notizia che non ammette repliche: “Mafia, la cupola di Roma”. Quando titolazione, testi  pensiero sono unici ho sempre il sospetto che ci sia di mezzo una grossa buggeratura per l’opinione pubblica.

 

Le paginate media-style desunte dal papello in base al quale il giudice per l’indagine preliminare ha agito, su istanza dei pubblici ministeri e del procuratore capo Giuseppe Pignatone, parlano di una lunga inchiesta che si è svolta principalmente origliando e trascrivendo telefonate. Il linguaggio come prova domina il nuovo brogliaccio giudiziario. E Roma è città millantatrice da un paio di millenni, e tutti i mezzani del crimine vero o presunto hanno la marzialesca ambizione di andare a mangiare in qualche ristorante dove una compiacente cimice dei carabinieri o della polizia o della finanza ti farà la cortesia di registrare la tua lingua grossa, le tue minacce, le tue ossessioni di controllo a distanza del potere; e ti userà questa cortesia promettendoti fama e ombra, ombra e fama, con una torsione della tua personalità che si spinge fino al letterario: “C’è il mondo dei vivi, quello dei morti, e poi il nostro mondo di mezzo”, dice il capo dei capi di questa mafia nerastra e nostrana. Tolkienismi da grande star.  L’inchiesta si è sviluppata per almeno due anni in assenza di testimonianze o documentazioni incisive, o almeno non sono riportate confessioni, delazioni qualsivoglia che siano di un serio interesse ai fini della statuizione o dell’accertamento di fatti. Infine, e sopra tutto, l’indagine è approdata alle molliche di un patto criminale che ha cento suoi piccoli eventuali perché, ma nessun quid, nessuna ciccia. Ci sono scarti di bucce di formaggio rosicchiate dai topi, e per adesso nient’altro di serio. Ho letto di un appalto per un ampliamento di un campo nomadi, di una “efficace” campagna di attacchinaggio comunale, di interessi vaghi sui rifiuti: roba da ridere. La fattispecie di reato è vastissima, e va da estorsione a corruzione passando per la turbativa d’asta, ma il contenuto puntuale del reato, la sua realtà materiale, non legittima l’idea di un centro affaristico e politico che abbia messo le mani sulla cassa del tesoro pubblico e sulla politica che la governa. Poi ho letto che il cuore direzionale della piovra romana non è un intrico di famiglie mafiose affiliate o iniziate, ma una fauna strana capeggiata da un tipo strano che si riuniva in un baretto di Vigna Stelluti, quartiere della zona nord della capitale, e (udite, vi prego, affinate l’orecchio) in una pompa di benzina dell’Eni di Corso Francia (stesso quartiere): gli affari della mafia, raccontano i pistaroli stessi che accreditano la tesi delle “mani mafiose sulla città”, si decidevano mentre venivano staccati, tra un pieno di diesel e l’altro, assegni di compensazione di prestiti usurari. Insomma, la Corleone dei “cravattari” (si chiamano così a Roma coloro che prestano soldi a strozzo).

 

Forse tutto questo è abbastanza per una delle solite retate nel mondo del delitto, ma non è un po’ poco per definire il contenuto di un patto mafioso corruttivo nella capitale del paese? Basta per buttarla decisamente in politica e sollevare un polverone che si vorrebbe agitare nel solco delle inchieste sui finanziamenti della politica a Milano nell’anno 1992-1993? Per stare a tempi recenti: Genova ha la sua Banca Carige, Milano ha avuto l’Expo e Sesto San Giovanni, Venezia ha avuto il Mose, a ciascuno il suo credibile in ogni altra regione, anche a Roma sono stati spesi bei soldi, ma tanti, per il Giubileo del 2000 e per le metropolitane e i cantieri dai tempi infiniti, e molto si spende in un campo minato come la sanità convenzionata. Ma lo scandalo arriva come una storiaccia di sottoculture della destra, all’ombra del sindaco Alemanno e del suo personale politico riciclato (Alemanno ha sempre teorizzato apertamente la legittimità del riciclo dei bei tomi della destra sociale) trasversalmente combinato con personale politico della sinistra delle cooperative che intraprendono nel campo della solidarietà sociale cosiddetta e del Pd, il braccio destro di Veltroni e gente dell’amministrazione Marino: non è grottesco?

 

Infatti questo patto è stato annunciato in modo appunto grottesco. Nasce come profezia pochi giorni fa, prima della retata “antimafiosa”. E’ annunciato come “scoperta imminente” dal capo degli investigatori, dottore Pignatone, in un convegno del Pd su Roma, non so se mi spiego (un povero pidiellino, tale Quarzo, ha protestato contro l’irritualità senza sapere che era finito nella lista degli indagati). E il ministro dell’Interno, Alfano, ha subito dichiarato il suo pensiero, irritualmente calpestando la distinzione dei ruoli e dei poteri: “Questa è un’inchiesta solida”. Non so se mi spiego. E il sindaco della città ha subito detto: “Le mafie mi ostacolano”, mentre gli si dimettevano un assessore alla Casa e il presidente dell’Assemblea capitolina, “organo di indirizzo e di controllo amministrativo” di cui il sindaco fa parte. Non so se mi spiego.

 

Dicono che i Finanzieri hanno sequestrato duecento milioni di roba, ma non è specificato bene che cosa e a carico di chi (parte della refurtiva presunta sono quadri molto costosi di Andy Warhol e Jackson Pollock di proprietà di Massimo Carminati, il deus ex machina di tutta la storia, detto il Nero in un romanzo di un ex pm e er Guercio nella lingua della mala e del gip, per la serie “er Guercio collezionista”).

 

Un annuncio politico come quello dello stimatissimo dottore Pignatone obbliga il titolare del pregiudizio, chi scrive, a ulteriori speculazioni, stavolta politiche. Intanto: Giuseppe Pignatone fu Francesco. Il dottor Pignatone è l’anti-Ingroia. Fece polemicamente condannare Salvatore Cuffaro per favoreggiamento aggravato quando la filiera degli ingroiani lo voleva morto di concorso esterno in mafia. Pignatone era contro la mafia e contro l’antimafia militante delle agende rosse eccetera. Un uomo equilibrato. Come Pietro Grasso. Grasso è finito presidente del Senato della Repubblica, e Pignatone è finito nel più influente degli uffici giudiziari, la procura di Roma. Pignatone è come accennavamo figlio di Francesco, uno dei grandi sponsor e facitori del milazzismo siciliano, quando alla fine degli anni Cinquanta la Dc subì una scissione e d’intesa con il Pci e l’establishment dell’isola fatale i “milazzisti” provocarono un’intera epoca di alternativa al sistema di potere tutelato dalla vecchia consorteria democristiana, realizzando insieme una rottura e un’azione gattopardesca di copertura (il che è tipico delle grandi operazioni politiche di matrice siciliana). Insomma, i Pignatone la politica ce l’hanno nel sangue. E’ per loro una seconda pelle. E dunque una gestione “politica” oltre che professionale di un’indagine come quella di cui parliamo non sorprende in una figura tanto complessa.

 

Ma non basta. Il gip Flavia Costantini, che ha curato l’ordinanza stellare contro la cupola romana della mafia, diciamo così, è stato sollecitato da tre pm: Giuseppe Cascini, napoletano, già capo del sindacato dei magistrati fino al 2012, militante di Magistratura democratica, una toga sempre in prima linea nelle battaglie progressiste del diritto come contropotere; Luca Tescaroli, valente magistrato che a Caltanissetta si rese celebre, in un tripudio di polemiche finite con il suo trasferimento di carriera a Roma, per dossier e poi libri in cui teorizzava i “sistemi criminali” con “regista occulto” e responsabilità politiche dirette di Silvio Berlusconi e del suo gruppo politico nella stategia che ha segnato l’epoca stragista; Paolo Ielo, che vent’anni fa era il giovane di squadra del famoso pool e lavorava, con qualche scrupolo, con le metodiche dei Di Pietro, Borrelli, Colombo, Davigo e D’Ambrosio, il fior fiore originario della commistione tra iniziativa anticorruzione e battaglia antipartito di cui tutti sanno vita morte e miracoli. Una bella squadretta. Non faccio illazioni. Ripeto che niente è più credibile a Roma, città estranea antropologicamente a tutti quelli che ora indagano su di essa, di una rete di piccola e media criminalità che si avvale di complicità dei bassifondi politici o di alcuni pesci piccoli che vi nuotano.

 

Ma è allo stato delle cose totalmente incredibile la surrealtà di una cupola mafiosa, sia pure in forma originale, che si sia impossessata della città per realizzare fini di guida e orientamento politico della sua vita amministrativa nei modi e nelle forme che sono suggeriti dal linguaggio delle intercettazioni e dalla sua elaborazione nelle notizie relative all’inchiesta.

 

State avvisati, cari lettori: quando leggete di “centinaia di sicari prezzolati” che organizzano le preferenze elettorali, di riunioni di “fedelissimi presso il benzinaio di Corso Francia”, di “una mafia nuova, autoctona, che aveva mutuato i sistemi criminali dei clan siciliani e calabresi ritagliandoli sulla Capitale”, quando leggete di “sofisticate figure criminali”, di “epica nera della banda della Magliana” (organizzazione criminale il cui capo non solo è morto ammazzato nel 1990, ma fu sepolto per due decenni in una chiesa del centro di Roma ed è stato anche disseppellito e tumulato fuori del suo sacrario per ordine di Walter Veltroni sindaco, dunque è stato sepolto due volte), quando leggete di “Novecento deviato”, et similia, quella che vi stanno dando non è informazione su un’associazione delinquenziale ma una coglionatura ideologica per creduloni. 

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  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.