Se il film non piace al dittatore. La guerra cinematografica tra Pyongyang e Hollywood
L'attacco informatico che ha colpito la Sony e che ha diffuso in Rete cinque film non ancora usciti nelle sale sarebbe opera della Corea del Nord. Il motivo? Un film americano che parodiava Kim Jong-un. Ma l'industria cinematografica nordcoreana nasconde altri aneddoti. Come quello del regista italiano che lavorò per la dinastia rossa.
Davvero ci sono i Servizi di Pyongyang dietro al raid informatico che il 24 novembre ha colpito la Sony, divulgandone in Rete ben cinque film non ancora usciti nelle sale? È stato il Wall Street Journal a rivelarlo, ipotizzando che si trattasse di una vendetta per “The Interview”.
È una commedia che a Pyongyang non è andata proprio giù e la cui uscita è programmata per Natale. Nel film James Franco interpreta Dave Skylark, conduttore di un famoso talk show che si è specializzato in interviste a celebrità trash che però una volta tanto prova anche a fare uno scoop giornalistico vero. Il suo producer e migliore amico Aaron Rapoport, interpretato da Seth Rogen, un giorno gli procura la grande occasione: un’intervista con Kim Jong-un. Ma quando la Cia scopre che i due hanno avuto il visto per entrare in Corea del Nord e avvicinare il dittatore, dà loro l’incarico di ucciderlo. Ovviamente i due sono i personaggi meno adatti per portare avanti l’incarico e la vicenda deraglia su binari grotteschi. Il film andrebbe ovviamente visto per giudicare, ma l’impressione è che sia la Cia a farci una figura quasi peggiore del regime nordcoreano. Ma a Pyongyang, comunque, non hanno gradito, e già da giugno vari esponenti del regime avevano iniziato ad attaccare il film non ancora uscito, definendone la trama un riflesso “della disperazione del governo Usa e della società americana”, accusandolo di istigazione al terrorismo e minacciando addirittura “decisive e spietate contromisure” contro quello che ha definito “atto di guerra”. Il raid informatico ai danni della Sony potrebbe essere appunto una di queste “contromisure”.
Non è la prima volta che una pellicola occidentale fa infuriare il refiem nordcoreano. Qualche anno fa Kim Jong-il, il padre di Kim Jong-un, si innervosì alquanto nel guardare “Team America: World Police”, un film parodistico del 2004 a firma dei due creatori della serie di animazione “South Park”, Trey Parker and Matt Stone, in cui l’ormai defunto dittatore a interpretava il ruolo del cattivo. In realtà, la preoccupazione per il cinema viene già da Kim Il-sung, il capostipite della dinastia rossa.
“Creiamo più film basati sulla vita socialista” fu lo slogan da lui lanciato in un famoso discorso ai registi nordcoreani il 18 giugno 1970 (che è un po’ l’omologo “made in Pyongyang” del mussoliniano “cinema, l’arma più forte”). Ma Kim Jong-il era un vero appassionato, sul cinema aveva scritto perfino un libro, e i bene informati riferivano che aveva una collezione di ben 20 mila film hollywoodiani. Aveva persino destinato all’industria cinematografica importanti risorse, ordinando anche ai militari di mettersi al suo servizio per il bene del cinema nordcoreano. Ma i suoi sforzi non vennero mai ripagati da prestazioni altrettanto valide da parte dei registi nordcoreani e così cercò di porre rimedio attraverso un furioso scouting di talenti stranieri.
[**Video_box_2**]In qualche caso furono gli stessi registi a presentarsi volontariamente alla corte di Kim. Uno di questi fu l’inglese Daniel Gordon, regista di documentari capace di diventare per i Kim quel che Gianni Minà è stato per i Castro. Gordon aveva lavorato per Sky Sports, aveva scritto due libri sullo Sheffield Wednesday, e attraverso lo sport si era avvicinato alla Corea del Nord. The “Game of Their Lives”, del 2002, è un documentario sui sette giocatori ancora in vita della famosa nazionale di calcio nordcoreana che ai mondiali del 1966 arrivò ai quarti di finale eliminando proprio l’Italia.
“A State of Mind”, del 2004, è un altro documentario dedicato invece a due giovani ginnaste “di una famiglia ordinaria” che si preparano per i “Giochi di Massa” di Pyongyang del 2003.
Nel 2006, Daniel Gordon ha girato un terzo documentario, “Crossing the Line”, dedicato a un soldato americano in Corea del Sud che disertò e si rifugiò al Nord.
Meno spontaneo fu il contributo di Shin Sang Ok, un famoso regista e produttore sudcoreano rapito nel 1978 da agenti nordcoreani e costretto a spiegare al mondo che lui e sua moglie si erano messi a disposizione di Kim Il Sung volontariamente. Finì che lo stesso Kim Jong si mise a lavorare con lui come produttore esecutivo. Realizzarono insieme sette film; la più nota di queste pellicole fu “Pulgasari”, un goffo clone di Godzilla virato in chiave anticapitalista. Nel 1986 Shin e la moglie riuscirono infine a scappare a Vienna, per poi chiedere asilo negli Stati Uniti dal momento che non si fidavano delle condizioni di sicurezza della Corea del Sud. Anzi, pure negli States, per maggior precauzione, Shin lavorò sotto pseudonimo. Significativamente, solo alla morte di Kim Il Sung, avvenuta nel 1994, si è convinto a tornare nella Penisola, dove è poi morto dieci anni dopo.
Una curiosità è che al servizio dei Kim a fine carriera si mise pure un regista italiano, Ferdinando Baldi, nato a Cava dei Tirreni nel 1927 e morto a Roma nel 2007. Autore di ben 38 film di generi che spaziavano dal peplum al musicarello, passando per lo spaghetti western e la commedia, tra il 1959 e 1960 Baldi ebbe l’onore di dirigere anche un Orson Welles con problemi di bilancio. Il suo ultimo film, girato nel 1988, fu “Missione finale”, in inglese “Ten Zan: The Ultimate Mission”, un film di spionaggio con una coproduzione italo-nordcoreana, direzione affidata a Baldi, appunto, coadiuvato dal nordcoreano Pak Jong-ju (nome d’arte, Ted Kaplan); attori occidentali, tra cui l’italiana Sabrina Siani; ambientazione in una Corea del Nord descritta come una società futuristica. “Una consapevole fuga dalla realtà”, ammise qualche tempo dopo Baldi.
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