La nomina di Obama a Budapest e il mercato delle ambasciate
Premiare gli alleati politici con incarichi da ambasciatore in sedi diplomatiche minori non è un oscuro scambio sottobanco genere “House of Cards”, ma una consuetudine praticata dai presidenti americani alla luce del sole. Barack Obama è perfettamente nella media.
New York. Premiare gli alleati politici con incarichi da ambasciatore in sedi diplomatiche minori non è un oscuro scambio sottobanco genere “House of Cards”, ma una consuetudine praticata dai presidenti americani alla luce del sole, con regole non scritte eppure chiarissime e perfino una quota percentuale dedicata. Dal presidente Ford in poi, ogni inquilino della Casa Bianca ha usato circa il 30 per cento delle nomine diplomatiche per gratificare trascinatori da campagna elettorale, strateghi di partito, amici, alleati di vario genere e, soprattutto, finanziatori. Barack Obama è perfettamente nella media. Non sta bene dirlo in maniera esplicita, ma un buon numero di sedi diplomatiche sono sostanzialmente in vendita, e c’è anche un listino prezzi ufficioso: chi in questi anni ha donato meno di mezzo milione di dollari alle campagne presidenziali non è nemmeno considerato per la competizione, a meno che di cognome non faccia Kennedy. Caroline, la figlia di John Fitzgerald, si è guadagnata la feluca grazie al precoce endorsement a Obama nel 2008, appoggio che ha dato credibilità alla candidatura presso l’alta società liberal. All’ambasciatore di nomina politica non è richiesta alcuna competenza diplomatica. Per anni si è rumoreggiato della nomina di Anna Wintour all’ambasciata di Londra – aveva organizzato una furibonda campagna di fundraising per la rielezione di Obama – ma alla fine è stata scavalcata da Matthew Barzun, che è stato il capo della commissione finanziaria della campagna elettorale del 2012. Difficile presentare credenziali più convincenti per aggiudicarsi un posto nella villa più grande d’Inghilterra dopo Buckingham Palace.
Il Senato deve confermare le nomine diplomatiche e solitamente i voti arrivano senza particolari obiezioni, un po’ perché tutti conoscono le regole del gioco un po’ perché le ambasciate che rientrano nel mercato politico non sono ad alto rischio politico. Per quanto digiuni di politica internazionale, i nominati possono fare pochi danni. Ed è stato proprio quando questo vincolo è stato violato che il senatore John McCain ha perso le staffe, tuonando contro la nomina della produttrice di soap opera (tra cui anche Beautiful) Colleen Bell come ambasciatrice d’Ungheria. Bell ha contribuito con circa 800 mila dollari ai successi elettorali del presidente. Non è tanto la mancanza di qualifiche della candidata il problema di McCain (“non sono contro le nomine politiche, conosco le regole del gioco”) quanto la delicatezza dell’ambasciata che Obama ha messo sul mercato politico. L’America non può essere rappresentata da una produttrice di Hollywood in una nazione “sul punto di cedere la sovranità a un dittatore neofascista che va a letto con Vladimir Putin”, ha detto McCain, invitando invano i colleghi a votare “no”. Il senatore a quel punto era incontenibile: “Stiamo per votare una persona totalmente impreparata per essere l’ambasciatore in una nazione che è molto importante per i nostri interessi”, e il fuoco di fila di domande rivolte alla candidata e rimaste senza risposta testimonia che la furia di McCain non era del tutto ingiustificata.
[**Video_box_2**]La qualifica di Viktor Orbán come dittatore neofascista ha scatenato una buriana diplomatica fra Washington e Budapest, mentre il povero John Earnest, portavoce della Casa Bianca, annaspava nel tentativo di spiegare ai cronisti che Bell “ha avuto molto succeso nel business”. Lo scorso anno il portavoce diceva che “nessun ambasciatore viene scelto perché ha sostenuto le campagne del presidente”. Una volta scoppiato il caso Bell la Casa Bianca ha goffamente coperto un meccanismo ovvio e ampiamente accettato a Washington, ma la delicatezza della posizione ungherese nell’asse incrinato fra est e ovest ha improvvisamente reso il mercimonio d’ambasciate assai sospetto, perfino inaccettabile per un falco internazionalista come McCain. Passi la consuetudine bipartisan di gratificare i sostenitori con prestigio e bella vita diplomatica, ma con l’interesse nazionale non si scherza: questo era il messaggio di McCain. Almeno Bell si ricordava dell’ultima volta in cui è stata in Ungheria. Noah Mamet, confermato nella stessa sessione ambasciatore a Bueons Aires, in Argentina non ha mai messo piede.
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