Il nobile sport
Una palla, un bastone, la vecchia Inghilterra e tanto fair play (perso un poco per strada): la lealtà, un principio che viene ancora prima delle regole del gioco ma che è entrato in crisi con l’avvento del professionismo Radiografia del cricket, incidenti compresi.
Un nome che si ripete, divenuto familiare, ma di una familiarità lontana, presunta. Un nome che riecheggia, ma al quale si fa fatica ad attribuire un’immagine, una sembianza. E’ come fosse una vecchia zia che vive all’estero da sempre, si sa il nome, se ne conoscono i tratti, imperfetti e sbiaditi di una fotografia di una vita fa, se ne conosce la storia, approssimativa, un insieme di racconti sentiti in qualche cena con i parenti, qualche cosa che si è letto nel retro di una cartolina trovata per caso, idee che ci si è fatti ma che mai sono state approfondite. Esiste, lo si sa, ma di lei nella pratica non si conosce niente. Così è il cricket. Nome conosciuto, lo si è letto negli elenchi di sport, negli stemmi di qualche squadra calcistica, ritorna ogni tanto in qualche cronaca sportiva, risalta quando quella sportiva si tinge di nero, come è successo recentemente dopo la morte del giocatore australiano Phillip Hughes e dell’arbitro israeliano Hillel Oscar. Per il resto, almeno in Italia, è oblio, assenza di notizie.
Il cricket è il nonno di tutti gli sport. Origini antiche e inglesi. Una palla di legno ricoperta di pelle conciata, un campo dalle dimensioni non date, un bastone per centrare la pallina ed evitare così l’impatto sui tre legni che sono la porta, l’obbiettivo del lanciatore. Nobile come nessun altro. Passatempo e intrattenimento della nobiltà anglosassone prima e dell’alta borghesia poi.
Nessun contatto fisico, solo lanci, tattica e bravura nel colpire la sfera che chi lancia deve fare rimbalzare obbligatoriamente a terra. Del suo primo antenato, lo Hands in and hands out, si ha infatti riscontro già nel XIV secolo: una legge di re Edoardo III ne vietò il gioco poiché distoglieva i sudditi dalle arti militari; un secolo dopo Edoardo IV rincarò la dose: 50 sterline di multa e due anni di prigione, mentre chi ne ospitava le partite rischiava l’esproprio dei terreni. Nel XVI secolo comincia a chiamarsi “crecket”, molto probabilmente da krick, bastone in fiammingo: se ne ha conferma in una deposizione al tribunale di Londra quando, durante un processo, il medico legale John Derrick testimoniò che praticava il gioco “crecket” quando era intento ai propri studi alla Royal Grammar School di Guildford negli anni 50 del 1500. Nel ’600 la “e” si trasforma in “i” e con l’espansione del regno britannico e la costruzione dell’impero, questo sport si diffonde in tutte le colonie.
Un'illustrazione del 1747
Secoli di partite e sfide, la prima tragedia – riportata – nel 1855, quando per un errore di un lanciatore dell’Università di Cambridge la palla impattò sulla tempia di Ted Scott, battitore dell’Università di Oxford. Poi più niente sino agli anni 60 quando a causa di due decessi fu reso obbligatorio il caschetto ai battitori. “Sono cose che possono succedere in ogni sport. E’ successo nel calcio, nel ciclismo, nella boxe, anche nella pallavolo dove il contatto fisico è quasi assente. Sono fatalità, tragedie che accadono”, dice al Foglio Pariket Nagpal, indiano di Jabalpur, naturalizzato australiano, ex giocatore di cricket dal 1975 al 1989 in Australia. “Il cricket non è mai stato uno sport violento, anzi ruota tutto attorno a un principio che viene prima ancora delle regole di gioco, lo spirito del cricket, ovvero un sentimento di lealtà e rispetto assoluto del fair play, senza il quale non si può nemmeno pensare di entrare in campo”, sottolinea con tono risoluto, “uno spirito che però, e questo non può essere sottovalutato, è andato scemando con il passare dei decenni”, aggiunge.
Una lealtà che si è scolorita col tempo, smarritasi già dai primi del Novecento ed entrata in crisi con l’avvento del professionismo, ma che, almeno a parole, continua a esserci e a essere seguita. Già nel 1932 sulle colonne del Times l’ex capitano dell’Inghilterra Lord Hawks usò parole di sdegno per commentare la partita tra la compagine inglese e quella australiana e la strategia utilizzata dal capitano dei padroni di casa, Douglas Jardine, per fermare il campione oceanico Donald Bradman, ordinando ai suoi di mirare alle gambe del battitore per limitare il suo apporto alla squadra ed eliminarlo dal gioco. “Poco importa se si è vinto o si è perso questa partita, la nostra Nazionale si è resa colpevole di un affronto a tutto quello che è cricket, ne ha insudiciato lo spirito”, scriveva Lord Hawks, aggiungendo poche righe dopo che quanto era accaduto “è segno di una perdita di nobiltà, la nobiltà che aveva sempre contraddistinto questo sport e che ora era messa alla berlina dall’apertura delle porte del cricket a tutti; e non mi riferisco alla nascita, ma alla caratura morale di questi pseudoumani”.
Un cambiamento che non dipende però da “questioni sociali o da un allargamento della base”, sottolinea Nagpal, “quanto da un eccesso di agonismo, da una contaminazione con male pratiche diffuse in altre discipline”. La storia di Pariket è esemplare di come il tanto sbandierato elitarismo del cricket non sia altro che una semplificazione di questo sport. “Iniziai a giocarci da bambino, nelle periferie di Jabalpur, come in Italia si gioca al pallone”, con l’unica differenza che per lui il sogno di praticarlo come professione era irrealizzabile: “Sono un dalit, un fuori casta, e questo è il mio destino, quello che continuerò ad essere, ma ho avuto una chance e sono riuscito a sfruttarla”. L’incontro fu fortuito. Un operatore umanitario australiano lo notò giocare e se ne prese cura, portandolo con sé in Australia. Venne adottato e, grazie alla sua abilità alla battuta (e al passaporto australiano) trovò una squadra. Divenne il primo indiano nella storia del cricket australiano a raggiungere la massima serie, l’unico non oceanico a realizzare 200 run in una partita (i punti del cricket, ossia il numero di corse che si riesce a completare da un lato all’altro del pitch – il rettangolo di lancio e battuta – nella fase di attacco della partita). Un passato glorioso, ma un presente lontano da questo sport: “Troppe cose sono cambiate da quando giocavo, l’introduzione del Twenty20 prima e l’esasperazione dell’agonismo mi hanno allontanato dalla pratica. Ho lasciato l’Australia a malincuore e con lei il cricket, mi sono trasferito a Roma, ho iniziato a insegnare yoga e a lavorare in una ong, ma, cosa incredibile, ho ritrovato in certi parchi della città e nelle squadre di cricket italiane quello che nel mondo anglosassone ed ex coloniale si è smarrito”.
Il fair play e il rispetto per l’avversario, atteggiamenti considerati sacri nell’originario spirito del cricket si sono infatti erosi pian piano. Un percorso che ha raggiunto il suo apice nel 2007: “Fu l’annus horribilis per gli amanti di questo sport”, ricorda l’ex giocatore. In pochi mesi ci furono prima gli scontri tra il Goa Cricket Association e il Mumbai Cricket Association in una gara del Inter-State T20 Championship che, dopo aver causato il ferimento di quattro giocatori delle due squadre a seguito di una rissa, provocò un’invasione di campo da parte delle due tifoserie che si diedero battaglia a pugni e bastonate provocando la morte di otto persone e il ferimento di oltre una cinquantina, poi l’uccisione del allenatore del Pakistan Bob Woolmer (in circostanze mai chiarite), reo di non aver fatto qualificare la squadra alle finali della Coppa del mondo, infine una serie di tumulti in India, che provocarono due morti e oltre 390 feriti, dopo l’eliminazione della Nazionale contro i grandi rivali dello Sri Lanka. Dopo quei fatti l’associazione internazionale prese dei provvedimenti e inasprì le regole per combattere la violenza: soluzioni che hanno migliorato le cose, ma che non hanno evitato l’imbastardimento dello spirito”, precisa Nagpal.
Il cricket infatti sino agli anni 20 del Novecento era stato sport elitario, nonostante fosse giocato da un gran numero di persone anche delle classi sociali meno abbienti. “Questione tra gentleman”, scrisse nel 1985 nel salone del Nottinghamshire County Cricket Club il capitano della squadra, nonché primo capitano della Nazionale inglese, William Clarke, per riassumere e rendere chiaro a tutti quali fossero lo spirito e la missione del gioco. Se l’elitarismo si è perso nel tempo con il miglioramento delle condizioni di vita e l’allargamento del benessere a sempre maggiori classi sociali, un’altra caratteristica si è però conservata (quasi) intatta sino ai giorni nostri: la sua natura anglosassone.
Nato, come detto, in Inghilterra, la sua diffusione si lega al Commonwealth. Il cricket valica i confini britannici per seguire gli inglesi nelle conquiste oltremare. Attecchisce immediatamente in Australia e Pakistan, dove diventa passatempo privilegiato per la maggior parte della popolazione, poi con il tempo anche negli altri territori conquistati. “Fu un’espansione incredibile, qualcosa di irrefrenabile, in meno di mezzo secolo il cricket divenne nelle colonie lo sport più praticato: si stima che oltre il 70 per cento delle persone libere giocasse almeno una volta a settimana con pallina e bastone”, ha rilevato lo scrittore Rowland Bowen nella sua ricerca sulla storia del cricket pubblicata nel 1970.
Passione e passatempo tramandato per secoli e che sotto il dominio inglese si è rafforzato e istituzionalizzato, con la formazione dei primi circoli e campionati tra squadre di zone limitrofe, creando in questo modo il background per una successiva istituzionalizzazione in campionati nazionali, avvenuti però nella quasi totalità dei casi nella seconda metà del ’900. “Il cricket è lo sport più antico, tra quelli arrivati sino ai giorni nostri, ma l’ultimo a essersi regolamentato e ad aver assunto caratteristiche moderne”, evidenzia Bowen. “Il perché di questa sua particolarità lo si deve alle caratteristiche di questa disciplina e alla durata superiore alla media delle sue partite. Se infatti lo sport nel ’900 è diventato intrattenimento di massa per la spettacolarità delle sue azioni racchiuse in un limitato periodo di tempo, il cricket si è sempre distinto per la durata antimoderna dei suoi match”. Le partite di questa disciplina infatti, prima dell’introduzione delle forme del One day international e del Twenty20, si sono sempre disputate in un arco di tempo che andava dai tre giorni a un massimo di cinque, pratica ancora in voga negli incontri più prestigiosi di test cricket, quelli dedicati alle 10 formazioni full members dell’International Cricket Council, ovvero il gotha mondiale di questa disciplina.
“Il cricket è spettacolo, certo, ma soprattutto tattica e attesa, è un buon tè che proprio perché buono va gustato con calma”, sosteneva Lord Hawks, come riportato dal giornalista inglese John Arlott nel saggio sulla storia di questo sport. Una disciplina antimoderna, legata a un passato lungo e glorioso, che proprio nel passato trova la sua forza e la sua peculiarità ancora oggi, nonostante i cambiamenti e le innovazioni per renderlo televisivamente appetibile.
“Il fatto che abbia attecchito subito in India, Bangladesh, Pakistan e Sri Lanka e che qui sia diventato così popolare non è casuale”, nota Pariket Nagpal. “E’ una disciplina assolutamente riflessiva, estremamente tattica e che molte volte, almeno nella pratica agonistica necessita di una grande concentrazione e capacità di analisi degli eventi sportivi, cosa che lo avvicina molto alla pratica di pensiero di queste zone. E’ per questo che si è imposto con grande facilità nel subcontinente indiano”.
[**Video_box_2**]La spiegazione di Nagpal del successo in queste zone chiarisce uno dei motivi della sua diffusione a macchia di leopardo. Il successo della disciplina in determinate zone, come sottolineato anche dal sociologo tedesco Norbert Elias, è sicuramente dovuta a un background ludico-culturale che era già presente nei giochi di squadra diffusi prima della colonizzazione inglese: “Nei paesi in cui si erano diffusi nei secoli discipline ludico-sportive basate sulla tattica e sulla gestione oculata delle risorse psicofisiche il cricket è riuscito facilmente a imporsi, mentre in altre realtà dove la componente dinamica e spettacolare era di centrale importanza ha incontrato difficoltà insormontabili per essere accettato”. Gli esempi portati dal sociologo tedesco sono i casi del Canada e della Giamaica, stati che furono protettorati inglesi ma nei quali il cricket non si è mai imposto, al contrario del baseball e, in modo minore, del calcio. Se la componente ludico-sportiva ha avuto indubbiamente il suo peso, considerato anche l’insuccesso dell’esportazione inglese in Europa dove il calcio ha invece subito preso piede, non va però tralasciata quella geopolitica: lì dove l’impero ha creato delle colonie di popolamento, il cricket si è diffuso con maggiore efficacia, riuscendo a imporsi nelle preferenze anche nelle classi meno abbienti. “Per essere diffuso è diffuso, la gente ci gioca, qualcuno si diverte anche dall’altra parte del mondo. Questo dà l’idea che a prendersi a mazzate in testa qualcosa di buono entra sempre”, scherzò Lord Hawks intervistato da un giornalista del Sun. Perché il cricket è sport, ha le sue regole e il suo spirito, ma è “intriso anche di spirito inglese e necessita per sopravvivere di sense of humor”.
Il Foglio sportivo - in corpore sano