Un murale ispirato al “Vangelo secondo Matteo” di Pier Paolo Pasolini al Pigneto. L’autore è l’artista romano Mr. Klevra

Pigneto's way

Michele Masneri

Né quartiere né borgata, solo grandi ambizioni. Aspettando Ken Loach (e la metro C) nell’avamposto della gentrificazione riflessiva romana. Da Pasolini al “caro spacciatore”.

Metteteve tutti de ’qqua, sulla destra, che sta a arrivà Chenne” dice l’organizzatrice spiritata, col rossetto rosso e la frangetta. Ken Loach al Pigneto, non una serata qualunque. L’Ansa titola: “Cultura in periferia, arriva Ken Loach”; “Ken Loach sbarca al Pigneto”, secondo Roma Today. I fotografi sono almeno una decina, in attesa dell’autore radical di “Riff Raff”, che verrà invece a presentare qui al cinema Nuovo Aquila il suo nuovo civil-panettone. Esce a Natale, si chiama “Jimmy’s Hall, una storia d’amore e di libertà”. La storia è perfetta: quella di un Jimmy, appunto, scacciato dall’Irlanda nel 1933 per aver okkupato un caseggiato creando una sala da ballo per giovani locali, osteggiato in questo dalla chiesa e dai notabili del posto (casta). Il plot è un po’ “Footloose”, ma l’attesa è spasmodica: alle diciotto il cinema è già tutto esaurito e un cordone d’ordine tiene fuori gli esclusi. Girano voci concitate tra cronisti e fan: “Aho, sta in taxi, dieci-dodici minuti ar massimo e sta qqua”, i fotografi aspettando il maestro fotografano degli sconosciuti, dando le spalle alla soprelevata fantozziana e a via Montecuccoli, dove nel 1945 veniva mitragliata neorealisticamente Anna Magnani in “Roma città aperta”. Ma a che ora arriva Ken? Una fan: “Aho, ma che ha preso er 150, da grotte Celoni?”, per ridere. Un fotografo forse novizio: “Ma che faccia ha sto Ken, poi?”. Uno più esperto: “Sembra Mimmo Jodice, però senza barba” (un po’ è vero, oppure Severgnini anziano). C’è Sabina Guzzanti in attesa del maestro, e però dopo un po’ se ne va, spazientita. Due giovani barbuti fuorisede con accento abruzzese parlano di un progetto (”sì vabbè, però ’sto gastropub come lo organizziamo? Io la mattina voglio fa’ workshop, attività collaterali sociali, insomma mica voglio tenere aperto. A Pescara i gastropub che aprono al mattino so’ stati tutti un fallimento, non lo sai?”).
Poi il maestro arriva; photo opportunity sotto una targa che recita: “Il cinema Aquila fu confiscato alla criminalità organizzata e restituito ai cittadini e alla vita culturale della città”. Non starà tantissimo, annunciano, il maestro, perché poi deve andare in tv, da Floris. “E’ un momento leggendario”, dice il critico Mario Sesti. Ken Loach al Pigneto. Loach parla pochissimo del suo film e moltissimo di politica. “Oggi la chiesa è stata sostituita dal mercato” (applausi); “Assange e Snowden sono degli eroi perché gli stati hanno dei segreti che non vogliono rivelare” (ripetuti applausi); poi viene data la parola a un drappello di ricercatori dell’Isfol, l’istituto di ricerca che fa capo al ministero del Lavoro, che forse verrà chiuso; i lavoratori l’hanno appena okkupato, e l’hanno annunciato da poche ore. Uno di loro si alza e chiede a Ken Loach cosa ne pensi dell’Isfol, e il maestro, inaspettatamente, è entusiasta della domanda ed è ferratissimo sulla vicenda, dice che “è molto grave che un ente di ricerca tra l’altro indipendente come il vostro sia messo a rischio”: dice che ha sentito la notizia in taxi; ma non parla italiano. E’ stato briffato da uffici stampa pigneti?

 

Poi Ken parte con un duro attacco alla flessibilità “che fa bene solo ai padroni, non ai lavoratori”, e in un grande amarcord nostalgico di un’epoca in cui “tutto era pubblico, pagato dalle tasse, i servizi sociali negli anni Cinquanta; poi però il Capitale ha fatto il suo corso, e poi è arrivata la Thatcher che ha distrutto tutto quanto e oggi abbiamo la disoccupazione di massa e gli orrori della povertà in Inghilterra”, notoriamente una nazione allo stremo. Sospironi e applausi della platea. Ma il climax e il pathos arrivano sui temi immobiliari.

 

“Perché non si va mai a parlare con le persone che occupano gli edifici?” chiede il maestro. Una voce da fondo platea (“aridatece le case popolari!”); l’assessore alle Politiche culturali, Giovanna Marinelli, sul palco col maestro, sente di dover intervenire e aggiornare sulle situazioni delle okkupazioni: “Sul Valle dovevano darci le chiavi qualche giorno fa, ma c’è stato un intoppo. Sul cinema America stiamo andando avanti e c’è un tavolo aperto con la proprietà, che, sottolineo, è privata”, e sul “privata” corrono onde di sdegno per la platea. Marinelli prende la palla al balzo poi per ribadire che questo incontro fa parte del progetto “Roma Grande Formato”, che porta il cinema in periferia, da Selva Candida, al Quarticciolo, Ostia, Tor Tre Teste, Battistini, Montespaccato, Tor Bella Monaca, Trullo, Ottavia. Il prossimo appuntamento è proprio al Quarticciolo con un film di Salvatores. Ken sulle periferie si esalta: “Sono felice di essere a presentare il mio film qui e non in centro”, poi invita tutti alla lotta, cita Gramsci, condanna molto l’Unione europea, progetto chiaramente neoliberista, stigmatizza un po’ la brutta pratica che sta avvenendo in Gran Bretagna per cui diversi fondi “americani” comprano case popolari per poi rivenderle “e i prezzi salgono”; poi finalmente va alla televisione.

 

Il pubblico del cinema Aquila applaude per metà e per l’altra metà come si dice a Roma si perplime: un dubbio angoscioso serpeggia, una crisi di identità: ma come, periferia? in fondo metà della platea qui ha pagato tre, anche quattromila euro al metro quadrato il proprio alloggio per stare in questo semicentro, nella nostra “unica Brooklyn possibile” (articolo di D di Repubblica di tanti anni fa), tutti sperano in un’ulteriore impennata dei prezzi con l’apertura della sempre più emblematica e problematica metro C. Qui del resto si è nell’avamposto della gentrificazione romana, gentrificazione riflessiva, certo, ma che i valori immobiliari e gli spread li sa a memoria. Essere paragonati al Quarticciolo, a Tor Tre Teste, al Trullo, pare un po’ offensivo, sinceramente. La middle class pigneta applaude dunque Ken, poi si riversa nell’Isola pedonale in fase di riqualificazione, fa lo struscio su questa walk of fame che stanno ripavimentando con un basolato scuro e scivolosissimo che causerà stragi di africani coi primi freddi e ghiacci; il cantiere è transennato, gli spacciatori stanno tutti su verso via Casilina, le mattonelle sono ancora in parte accatastate, in involucri ditta “Via Veneto”, in caratteri cubitali, e si respira aria di dolce vita pigneta – ha appena aperto un nuovo posto di fritti, Pesce Misto, tutti parlano solo di questo (“che, l’hai provato?”), del resto la gentrificazione a Roma passa non solo per i profitti ma soprattutto per i fritti. Basterebbe segnare su una mappa le realizzazioni dell’architetto Roberto Liorni, archistar della puntarella e della pannacotta romana, che nei decenni ha dominato le estetiche alimentari, partendo da Gusto a piazza Augusto Imperatore, per passare al Pastificio di San Lorenzo, poi a Primo qui all’Isola pedonale, e poi Rosti – sempre al Pigneto ma dall’altra parte, e si dirà poi – e infine il nuovo Porto Fluviale: contaminando periferie e semicentri con le sue estetiche newyorchesi fatte di manigliette cromate su banconi bianchi e neri sgarrupati e sedute Shaker, creando una carta del potere gastroeconomico romano, come una bonifica pontina, con un controllo del territorio e una pianificazione e impatti sociologici forse molto più di lungo periodo delle varie cupole der Cecato e der Maialetto.

 

[**Video_box_2**]Certo, l’Isola. “Ma tu la fai, l’Isola?”, è sempre meno una domanda da rivolgere a star in declino su eventuali partecipazioni a reality show tropicali, e sempre più una questione d’ordine pubblico, con spacciatori anche aggressivi sull’epicentro un tempo della piccola Brooklyn. A capeggiare la rivolta della società civile pigneta, nei mesi scorsi, Vladimir Luxuria, novella Nannarella, a poche centinaia di metri dai luoghi dei mitragliamenti della sua predecessora. Adesso la società civile è scesa in piazza per dire basta al degrado, ma sempre con garbo e orizzontalmente: gira una lettera aperta (in quattro lingue, italiano inglese francese e arabo), ai migranti spacciatori: “Caro spacciatore, abbiamo rispetto per te che hai dovuto lasciare la tua terra per cercare un destino migliore. Non abbiamo rispetto invece per i razzisti mafiosi che si arricchiscono sulla tua e sulla nostra pelle. E’ il momento di dire basta: puoi scegliere se lottare insieme a noi o buttare via il tuo futuro”. Sempre “sull’Isola”, si respira aria di riflusso, anche: nella biblioteca “Goffredo Mameli”, di fronte ai nuovi basolati scivolosi, sembra di stare a Modena o Mantova o comunque in qualche civilissima città europea. Cortiletto ben tenuto, luminarie giuste, dentro decine di giovani e anziani che leggono. Ci sono molti libri patriottici sull’autore dell’Inno nazionale, poi molto Gore Vidal, tutta la Némirovsky in edizione Adelphi, Strindberg, i classici latini, tutto Giorgio Faletti. Attualmente è in corso una mostra di pittura di “icone feminili” del maestro Fabio Bigonzi; sono ritratte la solita Anna Magnani, poi Sophie Marceau, Marilyn Monroe, Sophia Loren, e poi Kasia Smutniak (con didascalia “attrice polacca”). C’è un angolo caffetteria, e un angolo emeroteca. Qui, il Fatto quotidiano, ma anche e soprattutto tutta la filiera plutocapitalista del Sole 24 Ore, con i suoi inserti IL e addirittura, molto spiegazzato e compulsato, manco fosse Mondoperaio, un “How To Spend It”, versione nazionale del celebre inserto spendaccione del Financial Times, con gli annunci immobiliari per oligarchi a Londra. La Mameli – dice un cartello – partecipa al progetto “biblioteche solidali”.

 

Questo Upper West Side, questa rive droite pigneta, si sa però che già da tanti anni non va più bene: i pigneti più intransigenti e snob non oltrepassano mai con le loro bici il ponte Casilino, restando invece nella loro rive gauche, du côté de chez la stazione della metro C. Si prende dunque questo ponte, ed ecco questa stazione imaginifica con delle piramidine o vele bianche d’acciaio, sembra il teatro dell’opera di Sydney, o un piccolo Louvre di qualche emirato minore, o un servizio di piatti Alessi che fuoriesce dal manto stradale (nasce con questo sovrappiù architettonico, la metro C, con stazioni assiro-babilonesi a segnalare complessi di inferiorità per città con stazioni molto minimaliste, fuori, e sotto però reti efficienti e vagoni che passano. Una variante logistica del classico “di sopra liceo, di sotto museo”). Qui, comunque, scale mobili già pronte, per una metro che forse non aprirà mai – forse arresteranno tutta la città, di sicuro qualche giorno fa hanno scoperto, scavando, come naturalmente in “Roma” di Fellini, la più grande piscina olimpionica della storia occidentale, un bacino da 4 milioni di metri cubi d’acqua appartenente a un insediamento del III secolo avanti Cristo, dunque una specie di Salaria Sport Village di qualche cricca poi cancellata dalla storia; dunque i lavori non finiranno mai.

 

Però le scale mobili della fermata Pigneto, le sue piramidine e le sue vele sono lì; la gens pigneta passa, calcola quando aprirà, se aprirà, forse quanto salirà la quotazione del bilocale acquistato nel 2008 ai massimi di mercato. Si urta contro le botticelle del ristorante “Lo scolapasta”, con piatti di spaghetti finti, e poi si arriva però al fulcro della Pigneto’s way, con i due ristoranti-bar riflessivi Rosti e Necci. Il primo (sempre architetto Liorni), un’ex bocciofila per famiglie riflessive: impossibile trovare posto la domenica a pranzo, causa invasione di bambini biondi con cappottini di loden, e orto biologico con cavolfiori e carciofi turgidi in stagione, composizioni tipo Arcimboldo e Crivelli, e alveare per progetti di apicoltura orizzontale urbana partecipata, e tanti tavoli dove le mamme portano a pascolare i figlioletti libere di leggere finalmente Internazionale. Lì ci si chiede poi sempre dove li manderanno a scuola, questi bambini. Coi figli dei vicini coatti e cinesi o romeni, oppure sottoponendoli a tremendi sdoppiamenti di personalità, portandoli dalla Casilina allo Chateaubriand o al Saint Stephen’s (tra l’altro, emettendo molto CO2 causa distanze). Non è una questione da poco: in un libro uscito qualche mese fa in Francia, “République Bobo”, che studia il fenomeno dei bourgeois bohémien, cioè dei gentrificatori riflessivi, quelli che rinunciano “al Nespresso perché non ha un sistema convincente di smaltimento delle capsule”, Laure Watrin e Thomas Legrand, con piglio alla Lévi-Strauss, spiegano che il punto di rottura delle coppie di gentrificatori è proprio la scelta della scuola dei figli: lì infatti si cala la maschera; va bene il quartiere bombardato; va bene pure lo spacciatore sotto casa, al limite. Ma c’è sempre un momento in cui il genitore 1 vuole iscrivere il figlio al liceo vetusto che la sua famiglia frequenta da generazioni; il genitore 2 invece è filologico: che vada coi romeni.

 

Meno bambini invece nell’altro avamposto della rive gauche pigneta, Necci, che da bar scrauso ha messo su negli anni una filiera a chilometri zero tra bar, gastronomia, ristorante, tutto fondato sul mito pasoliniano; sul menù, tra la pizzella napoletana (2 euro), la calamarata all’amatriciana di tonno fresco (13 euro) e l’insalata con cuore di burrata (10 euro) c’è la frase “Io so i nomi”, tipo slogan commerciale, “la natura di prima mano”, e una bella foto del Poeta che qui tenne i famosi casting per “Accattone”: e chissà se gli eredi Pasolini almeno prendono una parte dei diritti, e chissà che ne penserebbe il poeta estinto, magari socializzerebbe con tutti questi pischelli che non stanno più a via Fivizzano a truccare i motorini ma stanno invece qui da Necci coi loro iPhone e la loro Moleskine, e si indebitano per comprare le biciclette pieghevoli Brompton, vendute col finanziamento al negozio Zio Bici. Ma lì si è già a Pigneto Villini: sono i Parioli pigneti, un mondo a parte. Poi, volendo, più giù ancora, sarebbe da scavalcare il Mandrione, scavallare la Casilina col suo trenino vintage, e spiaggiarsi in un quartiere fiorito e ancora di baracche, che si chiama Villa Certosa, davvero. Ma c’è da andare a casa; c’è Ken Loach alla televisione.

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