Mango d'oro
Si chiamava Pino, veniva dalla Basilicata, abitava a Mentana e me l’aveva detto che un giorno…Era quarant’anni fa – metà anni Settanta. Diceva che scriveva canzoni, che avrebbe cantato canzoni, che le sue canzoni le avrei sentite sul disco, mica solo sussurrate (forse qualcuna la sussurrò) al bancone di un bar di periferia.
Era quarant’anni fa – metà anni Settanta. Perciò Pino aveva vent’anni – nulla. Quando pensi che sai fare tutto – ma appunto quasi nulla hai ancora fatto. “A vent’anni si è stupidi davvero”, si preparava a cantare il già (quasi) illustre compagno cantautore Guccini. Certo stupido Pino non lo era. Neanche suo fratello Armando, lo era. Divano, tappeto, tavolini precari. Un fratello con la chitarra, quello che avrebbe poi cantato e preso il volo. L’altro col block notes sempre tra le mani, ad afferrare parole – se qualche parola saliva dal fondo della strada, dai rumori dei bimbi nella chiesa lì vicino, dal prosecco o dal caffellatte. Venivano dalla Basilicata; a me veniva in mente “Cristo si è fermato a Eboli”, che una professoressa volenterosa e impegnata ci aveva fatto leggere a scuola, posto dove i fascisti mandavano i giusti antifascisti, perciò mi sembrava logico e saggio voler andar via da lì.
Quando Pino aveva vent’anni venne ad abitare a Mentana. Ragazzotto non sveglissimo, facevo il barista nel bar davanti casa sua – bastava attraversare la strada: gli orrendi bar di ogni paese, pieni di fumo di sigarette, “Novantesimo minuto” a tutto volume, cassette di birra Peroni impilate nell’angolo, telefono a gettoni, bulli e tossici sulla via della dissoluzione e spacconi – “aho, damme un Vov, che stanotte me ne so’ fatte tre!”, “seeeee, de pippe!”. Pino era cortese e un po’ timido – diceva che scriveva canzoni, che avrebbe cantato canzoni, che le sue canzoni le avrei sentite sul disco, mica solo sussurrate (forse qualcuna la sussurrò) al bancone di un bar di periferia, caffellatte e cornetto (forse per cena). Anzi, lo stava preparando un disco, disse – ellepì, così si diceva, 33 giri, che il cidì chi lo pensava? Ci credevo, a questo disco – ma poi, mica tanto ci credevo. Un disco? E chi sei, Gianni Morandi, che abitava poco lontano? Sergio Endrigo, che stava in una borgata poco distante? (Strani incroci, così tante belle voci e suoni per un posto così poco musicale. Una sera, primi anni Settanta, alla locale festa dell’Unità arrivò il fenomenale Renato Zero, ancora ignoto, diverso e perciò ostile a tutto quello che per forza volevamo/credevamo di essere, pantaloni attillatissimi e maglietta di veli e peluche, ci furono straniamenti e fischi sotto le bandiere rosse: i compagni pronti solo per rivoluzioni meno esigenti). Perciò, si attraversava la Nomentana – la casa di Pino stava sopra il negozio del fotografo, provetto in comunioni e battesimi e matrimoni di zona. Mi pare di ricordare, dentro al bar (quarant’anni sono parecchi), insieme a lui, la grandissima sorridente Mia Martini, gonnone di jeans a fiori, di quelli che andavano allora.
Poi, autunno ’76, il disco uscì davvero. Mi fece molta impressione – mai avevo conosciuto qualcuno che avesse fatto un disco. Me lo procurai in un negozio della borgata (chi si avventurava sino a Roma?), sorta di merceria con gomitoli di lana e pure dischi. Si intitolava “La mia ragazza è un gran caldo”: mi sembrò strano come titolo, mica tanto bello. Lo stesso, titolo che si ricorda. Pino cantava, ma non c’era scritto Pino sulla copertina. Nemmeno Giuseppe. Mango, solo il suo cognome – perfetto, però, come nome da palcoscenico. Mi scrisse la dedica sulla copertina di quel suo primo disco, Mango – le parole mica le ricordo, e il disco chissà in quale scatola, in quale cantina, in quale giro di vita adesso giace. Cantò e cantò e molto da allora cantò – Mango. Dopo un po’ andò via dall’appartamento sopra il negozio di fotografia. Mai più rivisto, mai più caffellatte e cornetto, a volte ascoltato – cazzo, bravo Mango! La bella morte è una grandissima stronzata. Non esiste – aveva ragione Claudio Villa che sulla tomba ha voluto scritto: “Morte, fai schifo!”. Però esiste, la schifosa. E se a sessant’anni arriva di colpo sul palco, mentre canti “Oro” (“quanto oro ti darei”) – quarant’anni dopo quei sogni di vent’anni sul bordo della Nomentana – almeno ha scelto un’entrata in scena sempre oscura, però sfavillante. Di nero e d’oro.
Il Foglio sportivo - in corpore sano