Macron spaccatutto
Il ministro dell’Economia francese s’intesta una proposta di legge “di sinistra” che tocca (liberalizzando) i tabù dei socialisti. E che rischia di far esplodere il governo. Oggi interviene Manuel Valls per spiegare e difendere la “loi Macron”. Circola un “mémorandum” alternativo.
Oggi Manuel Valls, premier francese, presenterà personalmente la cosiddetta “legge Macron” all’Eliseo, in un salone adiacente a quello in cui si tiene il Consiglio dei ministri. “Une pompe inhabituelle”, sottolinea il Monde, che spiega l’importanza per l’esecutivo di questa proposta di legge che raccoglie le misure riformatrici di Parigi, il primo passo – ancora incerto – per rilanciare l’asfittica economia francese. Secondo il Figaro, questa è la legge (la definizione è impropria: non è ancora legge, se ne discuterà all’Assemblea nazionale a partire dal 22 gennaio prossimo, ma gli eserciti, nella Francia dei conflitti, sono già schierati) che “farà esplodere” il Partito socialista. Come spiega al Foglio François Lafond, direttore generale del think tank EuropaNova, queste misure “cristallizzano lo scontro attualmente in corso nel partito al governo”, uno scontro che gira attorno alla “svolta liberale” più volte annunciata dal presidente François Hollande (è stata spesso usata come diversivo per non parlare soltanto delle donne del presidente, e della loro furia, e questo già dà la misura della disperazione di Hollande).
Ora, la svolta ancora non c’è stata: si sa che l’inquilino dell’Eliseo è molto più portato a ricercare equilibri improbabili che a rompere quelli (molto precari) esistenti – “si comporta come se fosse sempre e soltanto il segretario del Ps”, dice Lafond – ma le pressioni interne ed esterne per le riforme sono sempre meno gestibili ricorrendo soltanto al tatticismo esplicito di Hollande. Ecco che allora arriva la “legge Macron”, e questo pacchetto di misure liberalizzatrici non poteva che portare il nome del ministro dell’Economia più detestato della Francia di oggi, con quel suo profilo da tecnocrate banchiere, liberale, mai eletto, giovanissimo e del tutto avulso dalle logiche di governo. E’ per proteggerlo – si dice a Parigi – che Valls oggi si prende la briga di spiegare di persona la proposta: è stato il primo ministro a volere Macron al governo, e ora non può permettersi che il ragazzo sia subito sacrificato, soprattutto dopo che i socialisti all’Assemblea nazionale non hanno fatto mistero del loro scetticismo (eufemismo) nei confronti della legge e di tutto quel che riguarda Macron. “Il mio obiettivo di deputato di sinistra – ha detto Pascal Cherki, dell’ala di sinistra del Ps, che alimenta la fronda al governo – non è quello di votare tutte le misure che l’ex presidente Sarkozy non è riuscito a far passare e che noi abbiamo combattuto dall’opposizione”, ed è un commento che ben sintetizza lo spirito della sinistra francese (ma anche italiana) in questo momento. Cos’è di sinistra, allora? Fare le riforme? Oppure ostacolare tutto quel che suona “thatcheriano”?
Per Macron, nulla è più di sinistra della sua proposta di legge (si dice fan della “sinistra pragmatica”, che guarda più ai risultati che all’ideologia), il cui obiettivo è introdurre flessibilità in un sistema tanto rigido. La storia di questo pacchetto di riforme è parecchio emblematica: la legge Macron “per la crescita e l’attività” era stata inizialmente proposta come “la legge per la crescita e il potere d’acquisto”, quando il ministro dell’Economia era ancora Arnaud Montebourg (cacciato a fine agosto da Valls e sostituito con Macron): secondo le intenzioni, la legge avrebbe dovuto restituire 6 miliardi di euro di potere d’acquisto ai francesi, come ha spiegato il Monde. Montebourg proponeva di utilizzare i risparmi realizzati sulla spesa pubblica secondo “la regola dei tre terzi”: un terzo riguarda la riduzione del debito che garantisce serietà nei conti; un terzo riguarda l’abbassamento dei prelievi obbligatori alle imprese e l’ultimo terzo riguarda la riduzione della pressione fiscale per migliorare il potere d’acquisto. Da allora però le cose sono cambiate e la legge ha subìto già una prima modifica nel nome – “per l’attività e l’uguaglianza delle opportunità economiche” – prima di orientarsi verso “crescita e attività”. La competitività e la volontà di riforma hanno preso il sopravvento, non foss’altro che per le continue pretese portate avanti da Bruxelles.
Al momento il progetto si sostanzia in alcune misure principali (di cui ancora si dovrà discutere): prima di tutto c’è l’apertura dei negozi alla domenica che secondo Lafond, che conosce bene la politica italiana, è “un elemento simbolico, è come l’articolo 18 in Italia, cioè è il pretesto per un dibattito più ampio”, che ha a che fare con l’identità stessa del Partito socialista. I negozi potranno lavorare cinque domeniche all’anno senza chiedere alcuna autorizzazione e potranno arrivare a dodici dopo aver chiesto il permesso ai comuni di appartenenza. Nelle zone turistiche – in particolare alcuni quartieri centrali di Parigi – l’apertura sarà autorizzata fino a mezzanotte. L’idea di lavorare anche alla domenica è stata introdotta non tanto per risolvere questioni occupazionali (anche se molti commessi intervistati dicono: fateci lavorare sempre di domenica, siamo pagati il doppio!), quanto piuttosto per stimolare i consumi e, come ha sottolineato il ministro degli Esteri Laurent Fabius, per incentivare anche i turisti a comprare e consumare (come avviene a Londra, ripetono i sostenitori della misura, lasciando intendere che non si può essere da meno). Ma l’opposizione a questa proposta è, in molti ambienti socialisti, totale. “Il mercato non può fare tutto – ci dice Lafond, spiegando la posizione (che non è la sua) di chi non vuole nemmeno sentir parlare di commercio domenicale – e la pausa settimanale è stata una conquista sociale importante, in un momento in cui la battaglia dei socialisti si era unita alle richieste della chiesa cattolica. Gli impiegati non sono una merce, e devono potere avere un giorno di riposo”.
L’opinione pubblica sta dalla parte di Macron, come dimostrano i sondaggi, ma bisogna considerare che la domanda sui negozi sempre aperti fatta a tre settimane dal Natale quando la stragrande maggioranza delle persone vive nell’ansia da regali riceve una risposta piuttosto viziata. Custode della sacralità della domenica è invece il sindaco di Parigi, Anne Hidalgo, che ha fatto una campagna su Twitter a difesa del “modello della domenica a Parigi”, fatto di visite al museo, di giretti nelle bancarelle di quartiere (i negozietti non possono sopravvivere alla competizione dei grandi magazzini né permettersi di pagare il doppio i propri dipendenti), di passeggiate e parchi giochi con bimbi e nonni. Occupiamoci degli stranieri, allora, dicono al sindaco i pragmatici e interessati gestori dei grandi magazzini, ma dal municipio s’intestardiscono e fanno sapere che non c’è poi così grande differenza: non è che la domenica si spende o si compra di più (non ci sono calcoli complessivi affidabili), semplicemente si rovina lo spirito del giorno di riposo, e si rimette in discussione “tutto quel che i socialisti hanno conquistato nei decenni”, come dice la stessa Hidalgo. Così in una contraddizione invero ironica, i socialisti à la Hidalgo difendono famiglia e tradizione soltanto di domenica e ripetono: nemmeno i tedeschi lavorano la domenica, salvo poi chiedersi, sospendendo ogni senso del ridicolo, com’è che questa Merkel così austera è ancora così popolare. Pare che il negoziato sulla legge vada verso un compromesso che lascerebbe libertà di apertura al massimo per 7 domeniche all’anno, ipotesi che fa arrabbiare tutti: quelli che vorrebbero almeno nel centro di Parigi i negozi aperti tutte le domeniche dell’anno e quelli che non sacrificherebbero nemmeno una domenica al dio del mercato.
[**Video_box_2**]Oggi invece manifestano i notai, gli avvocati e tutti quei professionisti che vedono mettere in discussione i loro privilegi di corporazione: almeno 50 mila persone sono previste oggi pomeriggio, con i loro cartelloni sulla “morte delle professioni”, davanti all’Eliseo. Secondo quanto proposto da Macron, l’accesso dei nuovi arrivati a queste professioni sarà liberalizzato e le tariffe saranno modificate per quel che riguarda “gli atti della vita quotidiana e per la maggior parte delle transazioni immobiliari” in modo da diminuire i costi (Macron ha tolto la questione delle farmacie e dei tribunali che sono di competenza rispettivamente del ministero della Sanità e della Giustizia). Questa misura, assimilabile a quella introdotta anni fa da Pier Luigi Bersani in Italia, è assieme alla questione domenicale la più controversa, anche se in realtà, pur non nella sua interezza, era già presente nella formula proposta a metà anno da Montebourg: si tratta di corporazioni che tendenzialmente, spiega Lafond, votano a destra e colpirle non ha un prezzo politico così elevato. Ci sono poi deregolamentazioni per i trasporti e altre proposte per alleggerire la burocrazia ma il cuore liberale della “loi Macron” sta tormentando i socialisti. Non c’è la maggioranza, dicono fonti vicine a Hollande, e il testo dovrà essere modificato per evitare un collasso del partito in presa diretta. Mentre su Les Echos molti economisti ed esponenti del mondo del business lamentano che la legge è debole, fa discutere ma non cambia nulla, dalla sede di via Solférino è stato fatto circolare un controprogetto, redatto dalla responsabile delle questioni economiche del Ps, Karine Berger. E’ conosciuto con il nome di “mémorandum” e rigetta sia l’estensione del lavoro alla domenica sia la liberalizzazione delle professioni. Soprattutto il “mémorandum” rivendica di fare proposte consone a una “legge di sinistra”, sottintendendo così il fatto che il progetto di Macron non sia affatto di sinistra. Pare un discorso d’altri tempi, visto che i dati economici francesi sono talmente preoccupanti che si dovrebbe non perdere troppo tempo con le etichette e piuttosto dare segnali rassicuranti, ma i giornali sono pieni di analisi che segnano una linea di demarcazione tra sinistra liberale e sinistra tradizionale, con in mezzo un essere alieno come Macron, così spregiudicato e “tecnico” (“era il ‘rapporteur’ della commissione Attali, in cui c’era anche Mario Monti”, ricorda Lafond) da spostare sempre più in là le frontiere degli argomenti intoccabili per i socialisti: per Macron anche le 35 ore dovranno prima o poi cadere.
Non è certo l’unico a pensarlo, molti economisti sostengono che per ristabilire un livello occupazionale da nazione non in perenne stato emergenziale come è ora sia necessario rivedere una misura figlia del benessere degli anni Novanta. Ma a parte le sortite di Macron, che viene sempre più spesso fatto passare per un gaffeur di professione per evitare di dover prendere in considerazione le verità che dice, nessuno parla esplicitamente di una revisione della legge sulle 35 ore. “Si lavora ai margini – ci spiega Lafond – introducendo elementi di flessibilità in diversi settori, in modo da sminuire di fatto la portata della legge, senza doverlo fare in modo formale”. Perché un tabù così è davvero difficile da sfiorare, e toccherà infine a un governo di destra fare quel che nemmeno i liberali di sinistra in Francia, oggi, possono ancora osare.
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