La mafietta antipolitica
Al direttore - Anche quella che le racconto sembrerebbe una storiella di mafia. E invece anch’essa non lo è (non ci sono più le mafie di una volta, signora mia). L’altro ieri Giorgio Napolitano ha tenuto all’Accademia dei Lincei uno dei discorsi più belli e sentiti degli ultimi tempi.
Al direttore - Anche quella che le racconto sembrerebbe una storiella di mafia. E invece anch’essa non lo è (non ci sono più le mafie di una volta, signora mia). L’altro ieri Giorgio Napolitano ha tenuto all’Accademia dei Lincei uno dei discorsi più belli e sentiti degli ultimi tempi (liquidato dai notisti 1.0 con la più trita delle formule: “Si è tolto dei sassolini dalle scarpe”), in cui, attaccando con veemenza l’antipolitica, ha testualmente detto: “… Una azione (quella dell’antipolitica) cui non si sono sottratti infiniti canali di comunicazione, a cominciare da giornali tradizionalmente paludati, opinion maker lanciati senza scrupoli a cavalcare l’onda, per impetuosa e fangosa che si stesse facendo…”.
Di queste parole non abbiamo trovato traccia ieri su Repubblica, Stampa, Sole 24 Ore. Per trovarne un’eco – comunque mondata – abbiamo dovuto abbandonare l’empireo della stampa nazionale e rifugiarci nella provincia caltagirona. Per leggerle integralmente ci siamo dovuti attaccare alla passione fetish del Fatto per il nostro splendido novantenne. Mentre il quotidiano che fu “tradizionalmente paludato”, sempre senza citare il testo, ha esposto un coraggioso Polito negli inediti panni del birdwatcher: “Noi che c’entriamo, siamo solo osservatori, le colpe dell’antipolitica vengono dalla politica cattiva, etc…”.
Dimenticando che fu il Corriere della Sera a inaugurare (con l’avviso di garanzia a Berlusconi in diretta al G7) e poi a cogestire con tutti i giornali e le procure l’orribile circo mediatico-giudiziario che ha devastato la democrazia italiana. Dimenticando il gattopardesco impianto culturale del terzismo mielista, sotto la cui cappella sono cresciute à la carte intere generazioni di opinion maker. Dimenticando la nefasta nonché lucrosa invenzione della Casta, diventato l’anatema autoconsolatorio che gli italiani sbattono in faccia a chiunque faccia parte di una Casta che non sia la propria. E ieri è arrivato il birdwatcher a dirci: “Ma noi che c’entriamo, noi osserviamo”.
Silenzi, omissioni, scrollate di spalle. Così i giornali hanno risposto all’intemerata di Napolitano. Calati juncu ca passa la china (sottotesto: tra un po’ il vecchio ce lo togliamo dai coglioni). Un po’, diciamo la verità, come fanno le mafie, che si compattano quando si sentono sotto tiro e mettono da parte gli interessi delle singole organizzazioni se arriva un attacco pericoloso, di quelli che possono far male. Tanto più se il business non vive giorni felici, se gli affari non vanno bene.
E no che il business non va bene, fratelli cari. Tre giorni fa erano stati diffusi (più che altro occultati, trovarli aggregati e leggibili è sempre un’impresa) i dati di vendita della stampa quotidiana in Italia, che ha perso nell’ultimo anno 226 mila copie di diffusione media mensile, di cui ben 86 mila tra settembre e ottobre del 2014. (Semplice proiezione. Se il trend si conferma, le 86 mila copie mancanti nell’ultimo mese diventano 1 milione nell’anno a venire). Come si sa, i dati mettono insieme giornali di carta e vendite online (che aumentano, ma non compensano neppure lontanamente il tracollo generale), oltre alle tante copie distribuite gratuitamente nei treni, negli alberghi, gli omaggi e le vendite in blocco. Sotterfugi pietosi per nascondere cifre più crude, da non mostrare ai concorrenti e neppure agli azionisti, finti editori che finanziano i giornali di loro proprietà con contributi spesso pubblici. Se poi allarghiamo lo sguardo e tracciamo un bilancio più lungo, il Censis del genitore De Rita ci dice che negli ultimi 25 anni la vendita dei giornali si è dimezzata, che il 20 per cento dei lettori va sull’online, il 34 per cento frequenta i siti di informazione, e che 6 giornalisti su 10 sono ormai freelance (e malpagati, mentre la casta dell’Ordine è sempre lì, e gli iscritti passano da 110 mila a 122 mila).
[**Video_box_2**]Un mondo che muore, insomma. Che si crocifigge da anni sui cambiamenti epocali nell’informazione e nel giornalismo e li traduce nelle mitologiche riforme grafiche (pare di vederli i direttori, di fronte agli ad costernati: “Non si vende”. “Dobbiamo semplificare, velocizzare, più inchieste, più foto”. “Ma quanto costa?”. “Un po’, ma vedrà i risultati: nuovo slancio, freschezza”. “Ok. Se mi garantisci i tagli”). Che sproloquia di crossmedialità e poi sa solo prendersela con Google che avanza con i cingoli per la gioia di tutti noi, mentre le “grandi firme” si rifiutano di scrivere sull’online. E allora, dico io, non si poteva rispondere a Napolitano, senza agire da quaquaraquà? Professionisti colti, curiosi (oltre che svegli sul piano strettamente giornalistico) avrebbero sbattuto in prima le frasi sulla categoria, avviando una discussione vera. Avrebbero detto: cerchiamo di capire quali sono le nostre responsabilità, innanzitutto perché vogliamo recuperare la fiducia dei lettori che ci abbandonano. E poi perché anche noi, operatori dell’informazione, vogliamo contribuire a portare l’Italia fuori dal pantano, naturalmente dicendo la nostra in autonomia, con obiettività e competenza (magari approfondendo, indagando il paese vero, studiando, insomma anche un po’ lavorando: e mi sa che qui casca l’asino, tra benefit, giornate di corta e comitati di redazione…). E così via.
Invece no. Perché al fondo, purtroppo, anche in questo caso la storia è assai misera. E non ha nulla della grandiosità tragica delle mafie. Le storie dei giornalisti italiani sono storie di Inpgi e Casagit, di pensioni che stanno per maturare, di piccoli privilegi di persone stanche e ciniche, che in gioventù hanno sognato il mestiere più gratificante del mondo e oggi attendono il prossimo invito al talk tv. Incrociate e riconosciute per strada, ma sempre più disintermediate, come si dice ora. Di qui chiusure, frustrazioni, disperate difese di posizioni. E si fottano i giovani che sono dietro. Che magari sono pure bravi, ma non sanno e non possono aprire la guerra della rottamazione nelle redazioni che sono dei soviet, con direttori che restano imbalsamati per decenni, tra copie che crollano e colophon che crescono a dismisura per tenere a bada gli impazienti. Niente mafia, insomma, anche in questo caso. Il capitolo finale della storia dei giornali italiani è solo una piccola vicenda di privilegi, bollini e umanissime miserie.
PS. E poi c’è il Foglio, per fortuna.
Il Foglio sportivo - in corpore sano