A Berlino piacendo
Consigli “amerikani” per un'Europa in crisi d'identità (e al ralenti)
Giù le Borse per Grecia e petrolio. Uno studio del Fmi (con Cottarelli) spinge l’euro verso l’Unione fiscale. Le citazioni di Draghi.
Bruxelles. C’è una lista di azioni, nemmeno troppo originali, che l’Europa dovrebbe intraprendere per risollevarsi da una crisi settennale. Azioni sempre più politicamente difficili ma sempre più economicamente necessarie. E’ questo il punto di vista dominante tra gli osservatori americani. Si prenda la politica monetaria; negli Stati Uniti c’è un ampio consenso sul fatto che essa debba essere espansiva, per sostenere la ripresa e quantomeno evitare la deflazione. Perché la crescita è debole: la produzione industriale dell’Eurozona a ottobre è aumentata dello 0,1 per cento da settembre, dello 0,7 rispetto a un anno fa (in Italia meno 3 punti). I prezzi continuano a flettere, non aiutati da un petrolio il cui prezzo ieri è sceso sotto i 58 dollari al barile, livello che non si vedeva dal maggio 2009. Così ieri le Borse principali hanno perso oltre il 2 per cento, Milano il 3,1. Mario Draghi ha già assicurato che la Banca centrale europea “intende” espandere il suo bilancio con ogni mezzo, Quantitative easing (o allentamento monetario) incluso. Tuttavia sia il vento elettorale che è tornato a spirare sulla Grecia col rischio di nuovi deragliamenti della politica fiscale, sia l’avanzata dei populismi alla destra della cancelliera Angela Merkel di cui dava conto ieri il Wall Street Journal, rendono ancora più rischioso il mestiere del banchiere centrale.
In Europa lo stesso paradosso – azioni politicamente più difficili diventano economicamente più necessarie – è all’opera sul fronte fiscale e istituzionale, secondo uno studio del Fondo monetario internazionale (Fmi) pubblicato dalla casa editrice Routledge e presentato ieri in un seminario al Bruegel Institute di Bruxelles. Il titolo, è il caso di dirlo, è tutto un programma: “Designing a European Fiscal Union”, “Disegnare un’Unione fiscale europea”. Due i curatori: uno è Carlo Cottarelli, dal 2008 al 2013 direttore del dipartimento Affari fiscali del Fmi e da poche settimane ex commissario alla spending review in Italia, che evidentemente nei suoi mesi a Roma non ha mai smesso di osservare il continente anche con lenti americane; l’altra coautrice è Martine Guerguil, economista che sovrintende all’influente rapporto “Fiscal Monitor” del Fmi. Gli autori hanno passato in rassegna 12 unioni federali del pianeta – dagli Stati Uniti al Sudafrica, passando per la Germania – notando per esempio che i bilanci degli stati centrali sono grandi pure in paesi molto decentralizzati: le spese dello stato centrale sono in media attorno al 55 per cento della spesa pubblica complessiva. Nell’Unione europea invece la spesa comune è pari al 2 per cento del pil dell’area, nell’Eurozona addirittura non c’è. L’Eurozona, secondo la ricerca del Fmi, primeggia in quanto a “assetti istituzionali estremamente complessi”: esistono oggi cinque regole per tenere a bada i conti (dal tetto del 3 per cento al deficit all’Obiettivo di medio termine, eccetera) contro le due regole che ci sono in media negli stati federali. “La Commissione Ue ha dovuto scrivere un vademecum di circa 120 pagine per spiegare la sua politica fiscale”, ha ironizzato ieri la Guerguil. E i risultati non sono nemmeno assicurati. Secondo l’economista, i leader del nostro continente dovrebbero comprendere perciò che una maggiore “centralizzazione” delle politiche fiscali è “più efficace per fronteggiare choc asimmetrici”; non a caso Draghi sul punto, nel suo intervento a Helsinki di fine novembre, ha citato proprio alcune bozze di questo lavoro del Fmi. Inoltre, secondo la Guerguil, creare stabilizzatori automatici comuni per le crisi “disincentiverebbe il lassismo fiscale a livello di stati membri”; infine regimi uniformi per pensioni o sussidi di disoccupazione “alimenterebbero la mobilità nel mercato del lavoro fra i vari stati europei”.
[**Video_box_2**]Padoan: “L’eurocrisi non cessa”
Cos’è che finora ha impedito in Europa questa svolta simil-federale? Più il timore dei paesi periferici di essere imbrigliati da quelli del nord, o più la refrattarietà preconcetta di quelli nordici (Germania in testa) che intanto – come dimostra il rendimento del Bund a 0,64 per cento – diventano un rifugio per gli investitori? La Guerguil risponde al Foglio in maniera diplomatica, ma tiene il punto: “Nell’Eurozona è necessario un qualche meccanismo per condividere rischi comuni a livello centrale. Negli Stati Uniti la clausola del ‘no bailout’ dei singoli stati funziona proprio perché c’è un bilancio centrale. Alla radice del progresso lento e solo incrementale dell’Europa, invece, c’è una mancanza di fiducia reciproca”. Situazione che ieri ha fatto dire al ministro dell’Economia italiano, Padoan, che “la crisi non cessa” e anzi “i rischi per l’Europa si fanno più pressanti”.
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