Francesco Totti, acclamato “ottavo re di Roma”. Ma lo era già stato anche Paulo Roberto Falcao. Del resto, ogni nuovo re è “ottavo re di Roma”

Ma quanti sono i re di Roma?

Stefano Di Michele

Carminati, ultimo della lunga serie, la sua Versailles l’aveva eretta però presso una pompa di benzina. Risultano già ben radicati “er re della pajata”, “er re der carciofo”, “er re der bucatino”, “er re della grattachecca”. “Io so’ io e voi non siete un cazzo”, diceva il citatissimo Alberto Sordi marchese del Grillo (e prima di lui il sommo Belli).

“Per esse’ re so’ re, nun c’è questione…”

(Cesare Pascarella)

 

Se c’è una cosa di cui a Roma c’è abbondanza (come i piccioni sempre, i carciofi quando è stagione, i “fagottari” che invece che verso le spiagge di Ostia vanno ormai all’assalto dei quotidiani buffet di deprimenti “eventi”) sono i re. Di ogni specie, per ogni gusto. Più di quelli attruppati al congresso di Vienna con Metternich, ce ne sono a Roma, più di tutti quelli di “c’era una volta…”. Farsi re, sul Lungotevere, è quasi più facile che beccare un controllore sull’autobus dell’Atac o trovare parcheggio a Trastevere all’ora dell’apericena (e peraltro, ci sarà sicuramente qualche locale debitamente intitolato “er re dell’apericena”, come da apposita documentazione giornalistica risultano già ben radicati, tra il gusto e la cronaca e il colesterolo capitolino, “er re della pajata”, “er re der carciofo”, “er re der tiramisù”, “er re der bucatino”, “er re della grattachecca”, e peraltro su Repubblica l’illustrissimo chef Antonello Colonna veniva gratificato quale “re del cacio e pepe”, di saporoso reame). A Roma, avendo abbondanza di papi e di chiese e di mignotte, e soprattutto di lunghe storie di bulli di strada (“er più”, in fondo, più o meno è solo un altro modo di dire “er re”) e di coatti di quartiere, farsi sovrano è gioco da ragazzi, cosa che viene facile facile, basta una carta dorata da pasticceria e un manico di scopa, così che quasi sempre “er re de Roma”, sopra al Gianicolo, sta come il pischello DiCaprio “re del mondo” a prua del Titanic filmico: glorioso nel vento, e spesso lo stesso destino di affogato sullo sfondo. Che poi, si capisce, avendo avuto Roma, come ognuno già dalla scuola media sa e debitamente recita, sette re da Romolo al Superbo (che al Sistina, qualche anno fa, Gigi Proietti rese splendidamente, e con gran divertimento), sempre per il re che arriva l’intronizzazione mediatica richiede l’appellativo di “ottavo re di Roma”, e da lì non ci si sposta, fosse il malandrino o fosse il tennista o fosse il calciatore, sempre ottavo il nuovo re trimestrale risulterà e mai oltre andrà: quasi come i Luigi sovrani francesi di Jacques Prévert, “ma che gente è mai questa / che non ce l’ha fatta / a contare fino a venti?”.

 

Così, adesso ci voleva solo questa storia di Massimo Carminati inteso “er Cecato”, pure esso re di Roma, e come tale su ogni gazzetta e da ogni cronista di vaglia e in ogni tiggì appellato (anzi, dice il Fatto, ma così dicono tutti, “l’ultimo re di Roma”), con la sua apposita Versailles presso la pompa di benzina: Sua Maestà de Corso Francia? E sia. Ma appunto, nelle cronache giudiziarie/malavitose/toponomastiche di questi giorni – con i protagonisti che vanno in pellegrinaggio in Smart al bar “da Franco”, location di “Romanzo criminale” (come da debita annotazione dei validissimi carabinieri al seguito), che essendo location invece che alla Magliana sta a Pietralata – ecco che il fiorire di re, sia orbi e sia di buona vista, si fa a un certo punto impetuoso. Dalle cronache emerge così un vertice, sempre in zona Corso Francia (sempre lì, manco il “Campo d’Oro” delle cronache rinascimentali tra re Enrico e re Francesco), tra il Carminati, sovrano riconosciuto, e un certo Michele Senese detto “’o Pazzo”, nientemeno. E si parla, e pertanto si scrive, e fortunatamente c’è apposito filmato, “minuto per minuto il vertice tra i due ‘re di Roma’” (il Fatto). Due re sarebbero già troppi, ma mica è finita. Poi scappa fuori che pure il Buzzi Salvatore, diciamo il versante a sinistra della congrega, trova sua apposita definizione (sempre sul Fatto, che nelle verbalizzazioni di sostanza è praticamente magistero: tale e quale la “mammà” della sora Cecioni su questioni de uomini a cena e de camomilla per i pupi, “mammà, è un barbiturico?”) come “l’altro ‘re di Roma’”, e perciò a tre stiamo, se il conto regge. Però, ecco che giusto un paio di anni fa, sull’Espresso, esce un dettagliato articolo (servizio di copertina) del bravo Lirio Abbate così intitolato: “I quattro re di Roma” (a farla breve, tra i regnanti, sempre Carminati e Senese, più altri due, Casamonica e Fasciani, in torbida e reale convivenza, che neppure nella più scalcagnata repubblica weimariana). E sull’Espresso, peraltro, già due anni prima era rintracciabile un’intrigante intervista a Enrico Nicoletti, che “nel salotto della sua casa parla come un sovrano in esilio”, e perciò il titolo del servizio appariva il seguente: “Boss? No, ero il re di Roma”. E siamo, e fermiamoci. A cinque. Re. (Ovviamente senza tener conto del De Pedis, che assassinato finì, davvero quasi fosse un re, sepolto nella cripta di Sant’Apollinare. Titoli sui giornali: “Renatino, il re venuto da Trastevere”).

 

Chiaro che, per inchieste di questo tipo, si necessita di una certa suggestione mediatica. E che essa sia indispensabile e persino necessaria, tra feroce realtà e appassionate rievocazioni: col vero che va a visitare il suo personaggio nel luogo dove la finzione lo aveva situato, come se il pasoliniano Accattone cercasse il suo bar, come se il marchese del Grillo vagasse intorno al suo palazzo. E si capisce, nel trionfo mediatico di tanta regalità, tutto il gran lavoro operato dall’epica romanzesca/cinematografica/televisiva sulla banda della Magliana, col suo inabissarsi e tornare a galla da trent’anni e passa: così che pure lì, nel romanzo o al cinema o in televisione, i personaggi sempre di essere o di immaginarsi re parlano, ognuno afferrato alla vacuità di quella corona capitolina, come da resoconti su Wikiquote: “E me pare che da ’e parti vostre i re s’eleggono da soli…” (Nembo Kid). “Dice che era il re de’ Roma, è cascato ar primo colpo che me pareva ’na pera cotta, me pareva… ’Sto cojone! Che poi l’amici sua, quei quattro buiaccari, stavano là a guardallo come poveri stronzi! ’O sapete che c’è? Che si quello era re de Roma, allora portateme a corona perché io so’ ’imperatore!” (tale Beato Porco, che parla della morte del Libanese). “Ma che stai a fa’? Che nu ’i vedi? Stanno tutti a festeggia’! ’Na festa pe’ er nuovo re de Roma, er Dandi!” (il Libanese al Dandi: trattasi nel caso specifico di allucinazione). “Più in alto del re de Roma, giusto la morte!” (Libanese). Sparati/sparatori/criminali: re di piombo, soprattutto. O impiombati. Non essendoci poi a Roma vero reame dai giorni di Romolo Augustolo (deposto, 476 d. C., e buonanotte ai suonatori e ai monarchici de’ noantri), essendo il papato tutt’altra cosa (ma persino lì, due o tre papi per volta si sono ammucchiati), ognuno si fa (o è fatto) re come e quando: a comodo suo. Un po’ tutti seguaci – persino tra la plebe somma, cui l’insulto era destinato – del citatissimo Alberto Sordi marchese del Grillo, “io so’ io e voi non siete un cazzo!”, che a sua volta era citazione del sommo Gioacchino Belli, e qui il solito re caciarone e cazzone fa capoccella: “C’era una vorta un Re cche ddar palazzo / mannò ffora a li popoli s’editto: / ‘io so io, e vvoi nun zete un cazzo, / sori vassalli bbuggiaroni, e zzitto’…”. Sta perciò, il re capitolino di turno, nella piena tradizione e disposizione d’animo – direbbe il poeta, come d’autunno sugli alberi le foglie (il Lungotevere, infatti, dalle stesse cadute è intasato).

 

Per fortuna, e ovviamente, non solo per faccende di malandrini la posticcia regalità romana periodicamente, come dicono sul bordo Tevere, “riciccia”. Così, intorno a questo fantomatico “ottavo re di Roma” c’è tale assembramento che manco sul tram all’ora di punta. Sempre ottavo, ma con declinazioni dal primis al secundis al tertium, ecc. ecc.: con scombinata felicità e facilità la corona viene sulla capoccia posta e dalla capoccia fatta rotolare. Il campo sportivo, nello specifico pallonaro, nella minuzia romanista, di codesta regalità ha fatto larghissimo uso mediatico. Almeno a tener dietro alla cronache sportive e agli ululati della curva. Perciò, come ognun sa, è capitan Totti “l’ottavo re di Roma”, né la cosa si discute tanto pare risaputa, “un capitano / c’è solo un capitano!”, e anzi per il suo ex compagno di squadra John Arne Riise, non bastevole la corona terrena, fu scomodata l’aureola celeste: “Questo Dio del calcio”. Ma, esagerazioni tra i fiordi a parte, mica solo un ottavo sovrano si è potuto conteggiare. La faccenda è parecchio complessa. Così che già fu acclamato prima di Totti, quale “ottavo re di Roma”, si capisce: sempre a caratura giallorossa, Paulo Roberto Falcao, mejo detto “Farcao”, “gran iocatore, intelijiente, lui piedi come mani”, certificò Nils Liedholm. Poi, in realtà, tra er Pupone e er Farcao, è stato tutto un corri corri, un ballo a corte e a bordo campo, una santificazione di altare e di spogliatoio. Ottavo con la corona a Roma, per Champions Matchday “rivista ufficiale della Uefa Champions League”, nella gloria dei mesi passati, risultava l’allenatore Rudi Garcia (al momento, visti i risultati, forse in fase di regicidio), anzi veniva stilata una classifica con “altri sette re di Roma”, che a loro volta erano stati tutti “ottavo re” di Roma stessa, e si partiva da Amedeo Amadei, mito degli albori, scudetto del ’42, per infilarci altre assortite glorie di varie epoche – Totti e Falcao, si capisce, in prima fila. Così da avere la mirabile composizione finale di ben otto – e ognuno ottavo – re di Roma. Però, ecco che nemmeno tre mesi fa la stampa inglese elevava un nono sovrano – un altro calciatore romanista, Gervinho: altro re, avanti che c’è posto! Neanche per i Lancaster e gli York, in un simile albero genealogico, sarebbe stato così complesso rimettere ordine. E si sa, se di innalzamenti sul trono il mondo sportivo è ricco, quello romano è munifico: perciò ecco che pure il tennista Nadal, a seguito di acclamata vittoria, fu degnamento ornato e coronato: “Lui, Rafa Nadal, Re di Roma, indiscutibilmente”.

 

Indiscutibilmente mica tanto. La corona di re di Roma è una delle cose che con più allegra possibilità si può assegnare e revocare col cambio di stagione. Se lo sport gonfia pettorali e aspettative, la politica lo stesso fa la sua parte: avendo, peraltro, più aspettative che pettorali. Tralasciando Andreotti, che fu tutto, pure sovrano della città, per i più appassionati tra il Divo e il Divino, addirittura Vittorio Sbardella, il suo centurione dentro il Raccordo Anulare, il giorno dei funerali a Santa Maria del Popolo fu decisamente omaggiato da Repubblica: “E’ morto uno dei re di Roma…”. Ed era “re di Roma (e del Pd)”, solo pochi mesi fa, Goffredo Bettini, nella variante giornalistica persino avanzato quale “nuovo imperatore di Roma”. E (ma qui era per sfottere) Gianfranco Fini, in polemica con Francesco Rutelli, lo chiamò (ci risiamo) “ottavo re di Roma”. Così come “I re di Roma” s’intitolava una puntata di “Report” sulla politica urbanistica della città negli anni veltroniani – e non si scappa, ché pure a Veltroni toccò il fatidico appellativo. E se certo Sordi, per naturale conseguenza, nella non troppo ristretta cerchia rientrò (“Roma celebra il suo ottavo re”), Carlo Verdone a sua volta fu scelto all’inizio del terzo millennio, con minima variante numerica, tra “i sette re di Roma”, e appositamente premiato al Teatro Parioli. Così come esiste una biografia, “Aldo Fabrizi. L’ultimo re di Roma” (di Camillo Moscati), e come tale il grande attore fu celebrato durante la “Rassegna cinematografica nazionale di Borgio Verezzi”. C’è sempre “l’ultimo re” a Roma (in certi momenti pure “l’ultimo Papa Re”), ma subito dopo ecco l’ennesimo “ottavo re” o “il nuovo re” o “il re di Roma” e basta. Casomai, al più, con un filo d’ironia, un “reuccio” – come fu appunto Claudio Villa, cantore della città e dell’inno della squadra.

 

[**Video_box_2**]Che poi ebbe Roma, a Tarquinio il Superbo fatto fuggire a gambe levate, un altro suo re – di nome, se non di fatto. Persino i libri di storia quasi non ne parlano, e solo per sbaglio nella sua figura si inciampa. Era nientemeno che Napoleone II, figlio del primo. Nato nella porpora, al mondo venne col titolo di “re di Roma” e con quel titolo inutile e pretenzioso a soli ventun anni questa valle di lacrime lasciò, senza mai aver posato il deretano su qualche sorta di trono/sgabello/trespolo romano. “Non sono che un imbarazzo”, disse di se stesso questo piccolo re virtuale. In più, fu Hitler, allora occupante, a far riportare il suo corpo in Francia: pessima vita, poveraccio, pessimo pure il funerale – con un simile guardiacassa. Forse, i re andrebbero solo lasciati stare: come i soldatini, a una certa età abbandonati nel cesto dei giochi vecchi. Che tanto, se non portano sfiga, inutili sono. Pure il povero Totò, nel film ispirato a un racconto di Cechov, inciampa nei nomi dei sette re di Roma, malandrini e dispettosi. E si fa bocciare.

 

E’ la facilità di essere “re di Roma” – reame che non esiste, è come la Ruritania del film con David Niven, come il Catonga della truffa del principe De Curtis – che determina la sua fragilità. Ognuno può essere re, pazienza, se proprio vuole: manco quelli savoiardi che si erano piazzati al Quirinale sono rimasti a lungo. Avendo il vicario di Cristo, gli serve forse quello di Numa Pompilio? Ogni re, da quelle parti, più di un Meo Patacca non è – e Meo Patacca nell’immaginario romano è già parecchio. Si dice re – ma in fondo chi ci crede, né chi la corona porta né chi fa finta a quella corona di inchinarsi. Il reame di Roma è quasi perfetta rappresentazione del “pensiero spettinato” di Stalinslaw J. Lec sul fatto che “anche le repubbliche sono a volte governate da re nudi”. Instabile la corona, instabile la testa sul collo – come gli sgherri di Scarpia sapevano: “Er popolo è boia e cambia gabbana; / stasera t’onora, domani te sbrana…”. Però, per giocare a fare il re, Roma è proprio perfetta – a cavacecio sul cavallo bianco sopra al Gianicolo. Se solo non ci si crede troppo.  

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