Stasera si va in musical
Da Milano a Roma il ritorno di un genere che dall’operetta è arrivato a Broadway. Via Hollywood. Il teatro Sistina che rivive il passato con “Tutti insieme appassionatamente”. L’esempio ossessione del West End londinese.
Forse è un miraggio di Natale, e però sugli schermi di “Porta a Porta”, in una sera di dicembre, c’è Pippo Franco, storico attore comico e faccia da musical, che racconta non le sue gesta da palcoscenico con lo struggimento dell’artista a fine carriera, ma i suoi recenti pellegrinaggi (in serie) a Medjugorje, il luogo che da qualche tempo gli ha rapito l’anima. Pippo Baudo, invece, sempre in una sera di dicembre, spunta sorridente nella folla accorsa davanti al teatro Sistina di Roma per la prima del musical di Natale per antonomasia: “Tutti insieme appassionatamente” (regia di Massimo Romeo Piparo, con Luca Ward e Vittoria Belvedere), quello che molti hanno introiettato dalle ripetute visioni in tv da piccoli, durante le vacanze invernali, nell’ora sonnolenta del dopo-pranzo festivo. C’era Julie Andrews che cantava con sette bambini una canzone orecchiabile sulle sette note musicali (“Do-re-mi”). C’era una sorta di colonnello burbero che poi si innamorava di lei. C’erano i nazisti alle porte dell’Austria, prima dell’Anschluss del 1938. Non c’era mistero su ciò che di brutto potesse accadere (era una certezza), non erano gli anni vaghi e minacciosi dell’inasprimento del regime a Berlino (1933-1934), anni descritti in modo agghiacciante e formidabile nel libro “Il giardino delle bestie” di Erik Larson (ed. Neri Pozza, 2012), romanzo basato sul vero diario di un ambasciatore americano e di sua figlia, catapultati dalla East Coast in una Germania in cui tutto sembra sereno ma tutto è già perduto (e rendersi conto di quello che accade è un lento avvicinarsi all’incubo attraverso indizi e percezioni che fanno capolino da una vita di caffè, parchi e balli). Ma in “Tutti insieme appassionatamente” si è già oltre: si sa tutto, ci si sente in pericolo, si canta per dimenticare, si cerca di fuggire oltre le montagne (è pure una storia vera, scritta dalla vera signora Maria von Trapp). E del film pluripremiato si ricordano non tanto i nazisti e la fuga, ma quelle suore così simpatiche e anticonformiste con quella novizia non in linea con il noviziato (che cantando e ballando addirittura si invaghisce di un vedovo e lo sposa). Qualche immagine, sempre con Julie Andrews e i bambini sui prati, riaffiora dalla memoria anche nel buio del Sistina, in attesa che il sipario si alzi. Eppure Pippo Baudo, al bar del teatro, mentre un “flash mob” di bambini va in scena nella strada antistante, pare ricordare benissimo: alcune signore gli si avvicinano, parlano, citano, canticchiano, forse in cerca di autografo.
Lui anche sembra canticchiare la melodia che sprigiona in filodiffusione sopra le teste delle famiglie in fila per un tramezzino: lo spettacolo sta per cominciare, le signore seguono Pippo, le suore-attrici entrano in scena, intere scolaresche disciplinatissime si mescolano a spettatori non “over-dressed” come gli spettatori di musical a Londra, patria del teatro musicale con le sue certezze da West End, la tappa di ogni vacanza-studio, prima, e di ogni viaggio in famiglia, poi: a un certo punto, consigliavano i prof. d’inglese all’inizio degli anni Novanta, bisogna scegliere che cosa vedere tra “Cats”, “The phantom of the Opera” e “Les Misérables” (alternativa più rockettara: “Jesus Christ Superstar”). Oggi, dicono i portieri d’albergo anche ai non interessati, potete scegliere tra “Billy Elliott”, “Mamma mia”, “Evita”. E chi si trovi a passare davanti ai teatri più famosi, improvvisamente capisce come mai tutti i negozi inglesi siano pieni di vestiti da sera immettibili, per l’occhio non inglese, al di fuori di un ballo di Carnevale: le file di aspiranti spettatori pullulano di abiti a balze e gonne a sbuffo rosse e verdi e blu e argento di taffetà, pizzo e velluto, completi neri con strascico e borse di paillette, pantaloni lucidi da uomo e quasi-tight. Sarà un effetto della fascinazione per le abitudini da festa anglosassone (Halloween o addirittura Festa del Ringraziamento) anche la passione popolare per il musical? Oltre a “Tutti insieme appassionatamente”, infatti, celebrazione dei 50 anni del musical che vinse 5 Oscar (in versione film) nel 1965, nei giorni di Natale arriva in “gemellaggio” a Milano, al teatro Nuovo, “Sette spose per sette fratelli”, sempre diretto da Piparo e ispirato all’omonimo altro ex film musicale da Oscar che ha compiuto sessant’anni: la storia di sette fratelli rozzi boscaioli e di una specie di Biancaneve volitiva, moglie del primo, che li prepara, naturalmente cantando e ballando, alle buone maniere necessarie al matrimonio con una brava ragazza del paese accanto. I non habitué del genere non si capacitano e faticano a trovare ricordi di un musical visto dal vivo: anche per un fatto generazionale, associano più facilmente la parola “musical” ai cosiddetti film-musical (tormentone) visti durante l’infanzia o l’adolescenza, spesso su consiglio di amici più grandi che li avevano amati negli anni precedenti: “Grease”, “Flashdance”, “Saturday night fever”, “The Blues brothers”, “The Rocky horror picture show”, “Dirty Dancing”, pietra miliare per timidi, e l’ipercinetico “Footloose”.
Non fosse stato per il film “Mamma mia”, che le canzoni degli Abba e il cast hanno reso appetibile anche per chi si riteneva odiatore di film in cui la canzone arriva ogni cinque minuti se non di meno, la fetta di pubblico non frequentatrice sarebbe rimasta per sempre legata all’idea del musical come di un genere vagamente astruso o buono per una parodia, tipo quello evocato da Nanni Moretti in “Caro diario” (dove si parla di un “musical su un pasticciere trotzkista nell’Italia degli anni Cinquanta”) o dalla scena di “Una pallottola spuntata 33 1/3”, in cui si assiste a una finta serata degli Oscar, con un musical politicamente scorretto su Madre Teresa di Calcutta che ballando picchia tutti con una stampella rubata a uno storpio (qualcuno, tra i post sessantottini, ricorda “i musical yiddish ispirati alle novelle di Israel Singer”. Per il resto è buio totale). Fatto sta che a Roma oggi i musical fanno il tutto esaurito: nei due inverni scorsi Enrico Brignano ha incassato dodici milioni di euro con un rivisitato “Rugantino”, cavallo di battaglia di Garinei e Giovannini, motivo per cui è stato anche invitato a Broadway. E Christian De Sica, nel marzo scorso, ha riempito il teatro Brancaccio con il suo “Cinecittà”, spettacolo in cui cantava, ballava e ricordava le facce e gli aneddoti che soltanto lui, nella sua famiglia e nel suo ambiente, poteva aver visto o aver sentito raccontare da bambino, per via di suo padre e dei suoi amici (Christian è cresciuto con i figli di Rossellini e ha sposato la sorella di Carlo Verdone, e quando gli hanno chiesto “perché fare un musical oggi?”, ha risposto che è stato “per passione”, perché quello era “uno spettacolo che voleva fare da molto tempo, un viaggio alla riscoperta di un tempio del cinema italiano attraverso i ricordi… un grande spettacolo, ma anche un progetto faticoso”. E lui, a sessantatré anni, si era detto “Ora o mai più”).
Entrando in sala al Sistina oggi, la sera della prima di “Tutti insieme appassionatamente”, si capisce in parte il segreto degli incassi passati e forse futuri: ci sono madri, padri, nonni, zii, nipoti, sposi e quasi-genitori. Il protagonista Luca Ward dice che il musical sta tornando ad avere successo dal vivo perché “è un tipo di teatro per famiglie, nel senso migliore del termine, nel senso che permette di passare del tempo insieme senza differenziare per età: chi ha nella memoria cinematografica e affettiva ‘My Fair Lady’ o ‘Tutti insieme appassionatamente’ si diverte proprio come il figlio di otto anni che esce cantando la melodia appena intonata dai bambini-attori sul palcoscenico”. Ward, attore e da qualche tempo “star” di musical, è diventato famoso come doppiatore di stelle del cinema anglosassone contemporaneo, da Russell Crowe a Hugh Grant, Pierce Brosnan, Keanu Reeves, fino a Samuel L. Jackson e Antonio Banderas. Ai non addetti può apparire strana la scelta di un protagonista doppiatore, voce pura, che sul palco di un musical deve farsi “corpo” al cubo: recitare, cantare e ballare. Ward dice che sono stati i suoi registi, con maieutica socratica, a “tirare fuori” l’attore da musical che era in lui, facendogli fare la parte del burbero (dal professore pigmalione di “My Fair Lady” al comandante vedovo George von Trapp di “Tutti insieme appassionatamente”, l’uomo rigido e votato alla “law and order” persino nella stanza dei bambini che improvvisamente smette di resistere alla musica e all’innamoramento represso per la ex novizia Maria, durante un ballo in cui decide che la musica non può più essere bandita da casa sua). Dice Ward che durante le prime prove, dovendo sconfinare in un ambito in origine non suo, a volte si è sentito perso, pensando di non potercela fare a cantare tutte quelle canzoni, “avendo al massimo doppiato la sigla di un film di Walt Disney” (“meno male che in scena, tra i colleghi, c’è un vero cantante lirico che nei momenti di difficoltà aiuta”).
Il panico tra i doppiatori, in ogni caso, si era scatenato molti anni prima, nel 1985, come racconta un testimone dell’epoca, quando a vari professionisti si prospettò la possibilità di doppiare il musical “A Chorus line” (film di Richard Attenborough, un caso di passaggio teatro-schermo inverso rispetto a “Tutti insieme appassionatamente”: capita infatti sempre più spesso che un musical di Broadway o del West End, scritto dal guru Andrew Lloyd Webber o, come nel caso di “Chorus Line”, da Marvin Hamlisch, ispiri uno sbarco su pellicola). “Ma davvero dobbiamo cantare?”, si erano domandati al provino dell’85 i doppiatori, spauriti come nemmeno gli attori americani sullo schermo al cospetto del terribile Zach, impersonato da Michael Douglas. Ma in tempi di prove canore sul web e in tv, il panico non coglie gli spettatori del Sistina che, come Pippo Baudo che sommessamente sembra canticchiare al bar, a un certo punto, in sala, si mettono a far da coro agli attori, battendo anche le mani. E forse è anche quello il motivo del successo del redivivo musical: la partecipazione diretta (non a caso sono musicali anche i programmi televisivi in cui si può parteggiare sfegatatamente per questo o per quello, come davanti ad “Amici”, o televotare da casa, come davanti a “X Factor”). Musicali sono anche i primi ricordi cinematografici (“Mary Poppins”, “Cantando sotto la pioggia”, apoteosi di note e impermeabili gialli, e, per chi è bambino oggi, “Rapunzel”, in arrivo in teatro a Roma con Lorella Cuccarini nella parte della strega cattiva – e a quel punto si chiude il cerchio: da “più amata dagli italiani” a star del musical in ruolo dark).
Non c’è, oggi, messaggio politico o satirico nell’intrattenimento cantato. Eppure, ai tempi in cui il “musical” era ancora “operetta”, fin de siècle (Diciannovesimo) in Inghilterra, Francia, Austria e Germania, la forma e l’ambientazione esotica potevano aiutare il librettista e il musicista a veicolare il contenuto controcorrente: la collaborazione tra William S. Gilbert, librettista, e Arthur Sullivan, compositore, porta, tra il 1871 e il 1896, alla produzione di quattordici operette anche politicamente scomode, nonostante le liti furibonde tra i due (documentate nel film “Topsy-turvy” di Mike Leigh nel 1999). Quanto Gilbert è eccentrico, scorbutico, genialoide e burlone, tanto Sullivan è pacato, metodico e conciliante. Con la scusa del contesto giapponese (operetta “The Mikado”), Gilbert, figlio di un chirurgo anche marinaio e anche romanziere, si mette in testa di deridere le principali personalità della politica inglese dell’epoca. Sullivan, meno portato per i conflitti, cerca inizialmente (e invano) di resistere. Sullo sfondo di pagode e strani mobili orientaleggianti, l’operetta infine va in scena nel 1885 e ottiene un successo insperato al Savoy Theatre di Londra e poi al Manhattan Theatre di New York, raggiungendo nel complesso il totale di ottocento repliche (Gilbert poi racconterà di aver tratto ispirazione per la storia in un giorno di malumore, seduto nel suo studio, quando una vecchia spada giapponese, appesa da anni alla parete ma mai notata più di tanto, cadde a terra facendo un gran baccano).
[**Video_box_2**]Qualche anno prima, in Francia, era stata l’antica Grecia a offrire a Jacques Offenbach (musica) e a Henri Meilach e Ludovic Halévy (testo), l’occasione, nella “Bella Elena”, per mettere in ridicolo i politici parigini. Diventati famosi, Meilach e Halévy diventano star anche a Vienna, dove un rovinoso crollo in Borsa (nel 1873) e il pessimismo da crisi nera che ne consegue, indicano agli impresari la strada dell’operetta come genere adatto a riportare il pubblico nei teatri (come oggi?). Gli spettatori accorrono a vedere “Il Pipistrello”, operetta in cui si rincorrono spasimanti, attrici esordienti, cameriere, contesse ungheresi e teorie di ubriachi. In Italia le operette straniere arrivano, vengono rappresentate a Napoli come a Trieste, ma non hanno il successo che avrà poi (trent’anni dopo) “Il paese dei campanelli” di Carlo Lombardo e Virgilio Ranzato, i cui brani orecchiabili vengono canticchiati in strada da spettatrici divertite all’uscita dello spettacolo. Il cosiddetto “plot” dell’operetta, una commedia degli equivoci cantata, si presta: c’è un’isola, c’è un villaggio di pescatori e c’è la strana leggenda del campanello magico che dovrebbe suonare nelle case in cui “l’angelo del focolare” ha anche soltanto in mente di tradire suo marito. E siccome in paese arriva un bastimento carico di marinai, i campanelli suonano. Poi però arriva un veliero con le mogli dei marinai appena sbarcati, e a quel punto le cose si complicano (scampanellio totale: anche gli uomini sognano l’avventura di una notte). Nelle sacche del processo alle intenzioni fedifraghe, il borgomastro litiga con la brutta moglie, ma il lieto fine è garantito. E però non è tanto il “plot” quanto l’atmosfera e la surrealtà del tutto ad attirare lo spettatore. Nel 1983 i critici cinematografici si sono trovati a dover sviscerare il mistero del sorpasso operato dal film musicale “’Nu jeans e ’na maglietta” di Nino D’Angelo sul film “Flashdance” (almeno in Campania). Era un momento d’oro per l’uomo soprannominato “caschetto d’oro”, il Nino D’Angelo ex cantante da matrimoni ed ex gelataio, baciato proprio allora dal grande successo (il caschetto era stato un segno distintivo, ha raccontato poi lo stesso D’Angelo, scelto perché un barbiere gli aveva consigliato di controbilanciare la non particolare bellezza dei tratti con l’abbondanza di capelli). Apprezzato anche dal critico Goffredo Fofi, D’Angelo, idolo dei nostalgici di pop napoletano d’antan, nei prossimi mesi girerà l’Italia con il suo “In Concerto anni Ottanta e non solo”, amarcord per l’autore del musical che, nel 1997, aveva fatto impazzire folle di cultori del genere anche fuori da Napoli: si chiamava “Core pazzo” e arrivava un inverno al Sistina, allora mezzo-decaduto tempio della commedia musicale anni Cinquanta (“risposta italiana a Broadway”, aveva scritto la rivista Variety del luogo dove era stata girata la scena finale di “Totò cerca moglie”, con Totò e la fidanzata che colà si nascondono, inseguiti dalle modelle vestite da sposa, e poi quartier generale di Garinei e Giovannini, con platee in visibilio per Walter Chiari e Delia Scala). L’operetta, veramente, andava in scena anche al teatro Valle (non occupato, a fine Ottocento). Ma il genius loci non l’ha mai premiato per questo.
Il Foglio sportivo - in corpore sano