I tormenti di Obama verso l'uscita da una guerra che non ha voluto vincere

I bambini di Peshawar sono morti perché “i loro genitori sono nell’esercito e sono dietro ai massacri dei nostri bambini e ai bombardamenti indiscriminati nel Waziristan”, ha detto un comandante talebano al Daily Beast. Sono morti per la complicità nella guerra che gli americani combattono oltre il confine afghano, non lontano dal luogo del massacro.

I bambini di Peshawar sono morti perché “i loro genitori sono nell’esercito e sono dietro ai massacri dei nostri bambini e ai bombardamenti indiscriminati nel Waziristan”, ha detto un comandante talebano al Daily Beast. Sono morti per la complicità nella guerra che gli americani combattono oltre il confine afghano, non lontano dal luogo del massacro. La guerra più lunga della storia americana, e che in origine era stata la più popolare, il conflitto che avrebbe dovuto non solo sradicare il network terroristico che ha attaccato l’America l’11 settembre 2001 ma bonificare la palude di fanatismo dove sono cresciuti i germogli mortiferi del terrore. Una faccenda più articolata di una caccia all’uomo.

 

Quella guerra che anche il riluttante Barack Obama considerava giusta e che si sta avviando però verso un finale sbagliato, com’è normale che accada quando fai sapere al nemico che il tuo impegno ha una data di scadenza. “C’è ancora una guerra in Afghanistan, non è ancora finita”, ha detto l’ex consigliere del Pentagono Sarah Chayes al Financial Times, annotazione non peregrina per una guerra che non è quasi percepita dall’opinione pubblica americana, più un fastidioso rumore di fondo che un’operazione militare al centro della scena. La percezione è un riflesso dell’atteggiamento del presidente, che negli anni ha oscillato tatticamente fra surge temporanei raccomandati dalle gerarchie militari e lo spostamento della guerra dai boots on the ground al cielo dei droni. L’orizzonte è sempre stato il ritiro, non la vittoria. Lo aveva detto rassegnato l’ex segretario della Difesa, Bob Gates: “Non crede nella sua strategia e non considera sua questa guerra. Per lui si tratta soltanto di uscirne”. A novembre la Casa Bianca aveva approvato nuove linee guida di combattimento per facilitare gli attacchi al nemico. L’obiettivo, dicevano funzionari dell’Amministrazione al New York Times, era evitare che succedesse in Afghanistan quello che è successo in Iraq e Siria. Quando due settimane fa il segretario uscente della Difesa, Chuck Hagel, ha fatto una visita a sorpresa a Kabul ha chiarito che sul tavolo non c’era nessun cambiamento strategico: “L’autorizzazione non cambierà la missione delle nostre truppe o la timeline del nostro ritiro”. Anche i mille soldati in più rispetto al previsto che rimarranno nel paese nella prima parte del prossimo anno non segnano un cambio di atteggiamento, semplicemente compensano il disimpegno più rapido degli alleati della coalizione. Obama non terrà fede alla promessa di lasciare soltanto 9.800 soldati alla fine di quest’anno ma l’obiettivo del ritiro totale alla fine del 2016 rimane invariato. Si sa che i talebani continueranno a innescare focolai di violenza, dice Hagel, che allo stesso tempo conferma in tutti i modi la totale fiducia di Washington nelle capacità dei militari afghani di garantire la sicurezza. Non lasceremo l’Afghanistan nelle stesse condizioni in cui abbiamo lasciato l’Iraq, ripetono alla Casa Bianca, e l’analogia sarà anche imperfetta ma la mente inevitabilmente va ai militari di Mosul che buttano la divise e scappano in abiti civili di fronte all’avanzata dei miliziani dello Stato islamico.

 

[**Video_box_2**]Non c’era bisogno della strage di bambini oltreconfine, nella guerra a specchio del Pakistan, per capire che si tratta di affermazioni spericolate. A novembre ci sono stati 16 attacchi gravi a Kabul; una serie di attentati coordinati ha ucciso 21 persone soltanto lo scorso fine settimana nella provincia di Helmand. “Nonostante i progressi iniziali, negli ultimi anni la guerra è da considerare un fallimento”, scrive il Financial Times. L’elezione di Ashraf Ghani è presentata dall’Amministrazione come una garanzia solida per la transizione, in opposizione agli anni sotto la guida dell’infido Karzai, il che sembra offrire al massimo qualche “talking point” in più ai funzionari del governo per i salotti televisivi domenicali, non una prospettiva strategica che possa fare la differenza fra la sconfitta e la vittoria. L’obiettivo rimane sempre uscire da questa guerra da mille miliardi di dollari – l’80 per cento pesa sui bilanci di Obama – secondo i tempi stabiliti e con una quota minima di flessibilità che Obama sempre si concede. Ma gli aggiustamenti lungo il percorso non cambiano senso strategico e obiettivi di una guerra che Obama non ha mai promesso di vincere.

 

Uccidere Bin Laden ha dato una mano alla popolarità presidenziale, non alla dinamica del conflitto. Nel suo libro “The Good War: Why We Couldn’t Win the War or the Peace in Afghanistan”, Jack Fairweather sostiene che il raid di Abbottabad ha avuto l’effetto tragico di dare all’America quel senso di “mission accomplished” che è letale per chi è in mezzo a una guerra lunga che si muove nella logica del nation building come segno della vittoria, non in quella chirurgica che prescrive occasionale rimozioni di singoli nemici, per quanto simbolicamente rilevanti. La faccia di Bin Laden è diventata la figurina da esibire per imboccare l’uscita di sicurezza dall’Afghanistan. Dopo l’incursione, la Casa Bianca si è sforzata di dire che la guerra non era finita “ma commenti del genere – scrive Fairweather – non potevano nascondere il fatto che Obama non ha mai appoggiato l’idea che fosse necessario un programma di nation building per rimuovere le minacce che s’annidavano in Afghanistan. Al contrario, la sua presidenza gli ha insegnato che l’Afghanistan doveva soltanto essere contenuto”.