Disgelo a L'Avana
Obama apre a Cuba e ai Castro, in attesa di chiudere Guantanamo
Gringos a Cuba. Un complicato scambio di prigionieri riattiva le relazioni con il regime castrista. La furia dei repubblicani. Il negoziato asimmetrico. Con una storica telefonata a Raúl Castro dallo Studio ovale, Obama archivia la Guerra fredda.
Roma. “Todos somos americanos” è lo slogan che Barack Obama offre ai suoi sostenitori assetati di cambiamento nel giorno memorabile del disgelo con il regime di Cuba. Una specie di “Ich bin ein Berliner” ispanico per incorniciare il trionfo della “openness”, della mano tesa, dell’inclusività, dei vecchi equilibri della storia rovesciati da un presidente che quando è stato imposto l’embargo a L’Avana non era ancora nato. Quello annunciato ieri con una conferenza stampa simultanea di Obama e Raúl Castro è il primo, decisivo passo verso la normalizzazione dei rapporti diplomatici con Cuba: Obama ha ordinato alla segreteria di stato di lavorare per l’apertura dell’ambasciata, rivalutando lo status cubano di sponsor del terrorismo, ha reso “più facile per gli americani andare a Cuba” (anche se non ci sarà un’apertura totale per i turisti), dove potranno usare le carte di credito che connetteranno il regime isolato al sistema bancario americano. E riportare indietro sigari per un valore di cento dollari. “Credo che questi contatti daranno potere ai cittadini di Cuba”, ha detto Obama nel suo inno al cambiamento dopo una politica di isolamento e sanzioni che ha bollato come infruttuosa. L’embargo era diventato anche impopolare e anacronistico nei sondaggi d’opinione, indicatori che Obama segue con metodo. Tutto questo però ha un prezzo. Cuba ha liberato l’americano Alan Gross, detenuto da cinque anni con l’accusa di spionaggio, ufficialmente per ragioni umanitarie, date le sue precarie condizioni di salute. L’America ha rilasciato tre spie cubane del Wasp Network, condannate nel 2001 da un tribunale della Florida. Ufficialmente Gross non è una pedina nello scambio fra prigionieri, ma è stato rilasciato “separately”, avverbio chiave nella spiegazione che ha dato Obama. Non è un dettaglio. Scambiare un uomo che l’America giudica innocente con spie regolarmente condannate non è un affare accettabile per gli standard americani. Per questo nella trattativa è entrata una spia senza nome che era detenuta a Cuba da oltre vent’anni, liberata con altri 53 prigionieri politici cubani. I termini dello scambio hanno fatto imbestialire i repubblicani, e non solo.
I critici dello scambio mettono in guardia dai negoziati con i regimi che sponsorizzano il terrorismo, cosa che “invita i regimi dittatoriali a usare gli americani che viaggiano all’estero come pedine di scambio”, ha detto il senatore democratico Robert Menendez, di origini cubane, in un comunicato. L’Amministrazione “stabilisce un precedente pericoloso”, recitano in coro i repubblicani, e qualcuno ha anche evocato un termine inquietante: “Appeasement”. Perché, prigionieri a parte, Washington ieri non ha ottenuto nulla dal regime di Castro. Nessuna promessa di riforma, nessuna apertura del sistema sul fronte delle libertà civili, nessuna garanzia. Il più furioso di tutti per lo scambio “asimmetrico” è il senatore Marco Rubio, che nella foga polemica da talk-show ha attaccato il gran mediatore della trattativa, Papa Francesco: “Chiederei anche a Sua Santità di prendersi a cuore la causa della libertà e della democrazia”. L’asse antagonista dei Senatori non ha mancato di ricordare che l’ambasciatore a L’Avana dovrà essere confermato dal Senato, e la decisione sull’embargo spetta a un Congresso a maggioranza.
Intanto ristabiliamo i rapporti e apriamo cautamente i confini, libertà e democrazia verranno, questo è il ragionamento di Obama, che invita a mettere nello sgabuzzino il ciarpame della Guerra fredda, così come si era proposto di tendere la mano all’Iran e di smantellare le residue strutture della guerra al terrore, innanzitutto il carcere speciale di Guantanamo. Del resto, ha detto il presidente, se abbiamo rapporti con la Cina e il Vietnam non si vede perché non possiamo cambiare una strategia che aveva un senso in un’altra epoca e un altro mondo. Guarda all’efficacia, Obama, ma guarda anche alla legacy, l’eredità politica che lo proietta nella storia come il presidente che ha archiviato l’ultimo residuo della Guerra fredda, in un mondo sognante e post partisan in cui i regimi cadono con la pressione docile della connettività e dei flussi liberi di informazioni e merci, non con l’aggressività (e si potrebbero fare impietosi paralleli con altri regimi vivi e vegeti). La foto di Obama che dallo Studio ovale parla al telefono con Raúl Castro è già una figurina nell’album della storia obamiana, faccenda magari povera di sostanza politica ma piena di simboli e momenti storici che improvvisamente s’inanellano uno via l’altro. Potrebbe festeggiare con un sigaro cubano, se soltanto Michelle glielo permettesse.
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