Il presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker (foto AP)

Europa avanti a regime minimo

David Carretta

I leader Ue timbrano il piano Juncker ma rimandano questioni cruciali. L’europresidenza di Renzi ha scalfito i sacerdoti del rigore.

Bruxelles. Nel vertice dei capi di stato e di governo che si è aperto e chiuso ieri, l’Unione europea s’è messa a servizio minimo, dopo cinque anni di crisi a ripetizione che ne hanno fatto vacillare i pilastri della costruzione. Il nuovo presidente del Consiglio europeo, l’ex premier polacco Donald Tusk, ha limitato la discussione tra i leader a due temi. Il primo – il piano per rilanciare gli investimenti del presidente della Commissione, Jean-Claude Juncker – serve a celare profonde divergenze che persistono sulla politica economica e di bilancio. Il secondo – un dibattito strategico sulla Russia – si è reso necessario per evitare che la cacofonia sui temi dell’economia contagi definitivamente la politica estera.

 

“E’ la discussione più difficile”, spiegano al Foglio dall’entourage di Tusk. I ventotto leader sono divisi tra chi teme ripercussioni sull’Unione europea dalla crisi finanziaria in Russia, come Italia e Francia, e chi plaude al crollo del rublo perché “le nostre sanzioni cominciano a funzionare”, come ha detto la presidente lituana, Dalia Grybauskaite. Secondo Tusk, i leader devono concordare una strategia di lungo periodo verso la Russia perché il prossimo anno “ci saranno decisioni molto concrete da prendere”: le sanzioni contro Mosca in scadenza, un nuovo vertice sulla partnership orientale e ulteriore aiuti all’Ucraina.

 

Una bozza di conclusioni di tre pagine denota lo scarso appetito dei leader europei per le questioni economiche. “La nuova attenzione sugli investimenti, insieme all’impegno degli stati membri a intensificare le riforme strutturali e a perseguire un consolidamento di bilancio favorevole alla crescita, sarà a fondamento di crescita e occupazione”. Il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, ha dovuto rassegnarsi sul suo cavallo di battaglia: “La flessibilità c’è a gennaio, quando ci sarà una dichiarazione della Commissione”. Dopo decine di notti trascorse a salvare la Grecia, creare facility finanziarie emergenziali e costruire l’Unione bancaria, Tusk voleva chiudere in fretta, mandando gli altri leader a casa prima della mezzanotte e annullando la seconda giornata di vertice. Così, nonostante le critiche piovute da più parti, i leader hanno vidimato il piano Juncker, approvando la creazione “entro giugno 2015” del Fondo europeo per gli investimenti strategici che dovrebbe mobilitare in tre anni 315 miliardi di investimenti privati. Con 5 miliardi di capitale e 16 miliardi di garanzie, il Fondo dovrebbe permettere alla Banca europea degli investimenti (Bei) di aumentare la sua capacità a 60 miliardi, generando una leva complessiva di 315 miliardi. E’ “finanza creativa”, ha detto Grybauskaite. Il premier finlandese, Alexander Stubb, ha consigliato di tenere “basse le aspettative”. Le questioni più controverse – la governance del Fondo e l’ammontare dei contributi nazionali, la ripartizione dei progetti finanziati tra singoli paesi e diversi settori, eventuali sconti da riservare a investimenti pubblici nell’ambito del Patto di stabilità – sono state rinviate all’anno prossimo, quando la Commissione preciserà i dettagli nei documenti legislativi. Se ne riparlerà in un vertice straordinario a febbraio. Il presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, dovrà invece attendere giugno 2015 per ascoltare i leader dibattere e dividersi sullo “Structural compact” necessario a completare l’unione economica e monetaria.

 

[**Video_box_2**]L’approfondimento sulla zona euro era stato programmato per questo vertice ma Juncker ha preferito rimandare il suo rapporto. Il servizio minimo dell’Ue trova conferma nel programma di lavoro della Commissione. Juncker ha annunciato che l’esecutivo comunitario si limiterà a presentare ventitré iniziative nel 2015. Nel frattempo, tra le proteste di ambientalisti e progressisti, saranno ritirate 80 proposte legislative ereditate dall’esecutivo comunitario di José Manuel Barroso. Le ragioni politiche del servizio minimo sono state spiegate dalla cancelliera tedesca Angela Merkel: “Le elezioni europee hanno dimostrato che l’opinione pubblica non vuole che l’Europa faccia tutto”. All’Italia, al termine del semestre di presidenza di turno del Consiglio dell’Unione europea, lo status quo non dispiace, perché nasconde lenti progressi. “L’Ue non è una piccola barca a grande velocità”, confida una fonte diplomatica: “E’ un grande transatlantico a cui non si possono imporre inversioni di rotta improvvise a 180 gradi”. Il clima è cambiato. Sotto la presidenza italiana, l’austerità è stata messa sulla graticola con molta più efficacia rispetto al 2012, quando il francese François Hollande era alla testa del fronte anti merkeliano. Nei vertici di giugno e agosto i leader passarono ore a discutere se inserire nelle conclusioni riferimenti all’inflazione troppo bassa o se allargare l’ordine del giorno di un summit sull’occupazione organizzato dall’Italia anche alla crescita e agli investimenti. Certo, a luglio Renzi aveva creato grandi aspettative sulla “flessibilità”, il che può prestare il fianco a critiche. Ma “abbiamo fatto un bel pezzo di strada”, dice la fonte. Non tanto per il rapporto della Commissione sulla flessibilità, quanto per il rinvio a marzo delle decisioni sulla legge di stabilità e l’enfasi sulle riforme strutturali che ha sostituito l’ossessione per il consolidamento. Quanto al lavoro quotidiano di mediazione tra governi ed Europarlamento, la presidenza italiana è riuscita a far attraversare all’Ue la fase delicata di transizione istituzionale (il prossimo turno è della Lettonia). Dai compromessi sulle questioni fiscali, all’Ecofin – direttiva anti riciclaggio – agli accordi nel settore ambientale – libertà per gli stati sugli Ogm – Roma e i suoi ambasciatori possono rivendicare qualche successo.