“Si può descrivere una qualsiasi cosa che esiste realmente per mezzo di un’altra che non esiste affatto”, scriveva Daniel Defoe

Peste mediatica

Marco Barbieri

Negli anni della Guerra fredda abbiamo convissuto con il terrore della bomba. La paura nucleare si era insinuata tra le inquietudini più abituali della nostra contemporaneità, il millenarismo invincibile aveva assunto le forme dello spettro della distruzione planetaria per mezzo di una serie di esplosioni definitive.

Negli anni della Guerra fredda abbiamo convissuto con il terrore della bomba. La paura nucleare si era insinuata tra le inquietudini più abituali della nostra contemporaneità, il millenarismo invincibile aveva assunto le forme dello spettro della distruzione planetaria per mezzo di una serie di esplosioni definitive. Una paura smaterializzata, anche perché confinata nel “sempre possibile”, quindi mai anticipabile, mai percepibile “prima”. Una paura profetizzata – come solo accade alla letteratura e all’arte rispetto alla vita reale – con una ventina d’anni di anticipo rispetto agli esperimenti del progetto Manhattan e delle due esplosioni di Hiroshima e Nagasaki, dalle parole di uno dei nostri scrittori meno domestici, Italo Svevo: “Quando i gas velenosi non basteranno più, un uomo fatto come tutti gli altri, nel segreto di una stanza di questo mondo, inventerà un esplosivo incomparabile, in confronto al quale gli esplosivi attualmente esistenti saranno considerati quali innocui giocattoli. Ed un altro uomo fatto anche lui come tutti gli altri, ma degli altri un po’ più ammalato, ruberà tale esplosivo e s’arrampicherà al centro della terra per porlo nel punto ove il suo effetto potrà essere massimo. Ci sarà un’esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie”.

 

La paura della bomba, evocata prima che il nucleare si affacciasse. Una paura che sa di antico. Di primitivo. Di malattia. Ma una malattia sottratta alla materia, quasi tutta mentale. Gli anni di Svevo sono gli anni Venti del secolo scorso, gli anni della nascente psicanalisi. Medicina non medicina. Scienza non scienza, come e più di tutte le scienze umane, prassi privata dell’oggettivazione dei corpi. Dove l’uomo stesso è attore infettante. Come un topo ai tempi della peste. L’essere umano produce realtà, non si limita a osservarla. E talvolta confonde la paura con l’allarme. L’inquietudine prende il posto del terrore. E la paura della peste nella versione moderna di Albert Camus è destinata a somigliare a quella vaga e profonda inquietudine della bomba atomica. Alla fine del flagello descritto nel romanzo del ciclo dell’assurdo, il dottor Rieux, ascoltando i “gridi di allegria che salivano dalla città” non poteva fare a meno di ricordare che “quell’allegria era sempre minacciata. Sapeva quello che ignorava la folla, e che si può leggere nei libri, ossia che il bacillo della peste non muore né scompare mai, che può restare per decine di anni addormentato nei mobili e nella biancheria, che aspetta pazientemente nelle camere, nelle cantine, nelle valigie, nei fazzoletti e nelle cartacce e che forse verrebbe giorno in cui, sventura o insegnamento agli uomini, la peste avrebbe svegliato i suoi topi per mandarli a morire in una città felice”.

 

L’epidemia è quella che si tocca con mano, o per contrario è quella che, per paura, fa sottrarre quella stessa mano dal rischio di un contatto. Per istinto animale di autoconservazione. Tutto il resto è nevrosi. O malattia; semplice, terribile (talvolta mortifera) malattia. In Africa si muore per malaria o dissenteria con un tasso doppio o triplo rispetto a quello che si è prodotto in questi mesi con il virus ebola. Anche in Italia la vicenda umana di un generoso medico siciliano è posta da giorni sotto gli occhi di giornalisti e telecamere per il nome del morbo che ha contratto, non per il rischio reale che quella malattia possa produrre ai suoi vicini. Nel nostro paese ogni anno ottomila persone – più di venti al giorno – muoiono per una “banale” polmonite infettiva, che produce un costo sociale valutato in mezzo miliardo di euro. Eppure è un contagio “non percepito”, al punto che un piano sistematico di immunizzazione – è possibile vaccinarsi contro lo pneumococco – non si fa. Non si raggiunge né la soglia quantitativa, né quella psicologica, le sole capaci di produrre attenzione mediatica e nevrotica, come ai tempi della bomba.
Succede invece che, talvolta, qualcosa inneschi il terrore. Sesso e sangue sono ingredienti fondamentali per parlare di epidemia. Quello essenziale è la morte. Un destino collettivo di morte. Ma paradossalmente solo quando la morte resta lontana – geograficamente o statisticamente – i media riescono a evocare i flagelli, a discuterne, a farne argomento di conversazione.
“Si può descrivere una qualsiasi cosa che esiste realmente per mezzo di un’altra che non esiste affatto”, scriveva Daniel Defoe, ma è un sintomo di nevrosi descrivere una cosa che non esiste, utilizzando l’esistente. Si farebbe la fine di don Ferrante, che essendosi convinto che la peste non esistesse – non è “sostanza” non è “accidente” – ha finito per morire “prendendosela con le stelle”. Certo com’era delle influenze astrali e non delle misure di igiene e profilassi, prima di andare a letto a morire si lascia andare a un monologo sospeso tra realtà e follia che tanto poeticamente documenta la nevrosi: “E lor signori mi vorranno negar l’influenze? Mi negheranno che ci sian degli astri? O mi vorranno dire che stian lassù a far nulla, come tante capocchie di spilli ficcati in un guancialino? … Ma quel che non mi può entrare, è di questi signori medici; confessare che ci troviamo sotto una congiunzione maligna, e poi venirci a dire, con faccia tosta: non toccate qui, non toccate là, e sarete sicuri! Come se questo schivare il contatto materiale de’ corpi terreni, potesse impedir l’effetto virtuale de’ corpi celesti! E tanto affannarsi a bruciare de’ cenci! Povera gente! Brucerete Giove? Brucerete Saturno?”.

 

Beh, non a caso si dà il nome di “influenza” a una delle malattie contagiose che annualmente miete mille volte più vittime del virus ebola. Senza dover ricordare la “spagnola”, che fece più di 25 milioni di vittime in Europa tra il 1918 e il 1919, ai ceppi influenzali si rifanno le “aviarie” (Sars) o le “suine” (Siv) che periodicamente tormentano i nostri corpi e i nostri giornali e che in quest’ultimo anno hanno lasciato il campo al più esotico virus (anche in questo casi si tratta di ceppi diversi) indicato con il nome del fiume lungo il quale per la prima volta si è manifestato: ebola. Forse è un nuovo millenarismo, post religioso (espiazione penitenziale spirituale che finisce per estirpare il male nell’uomo) e post nucleare (distruzione definitiva, che azzera il male dell’uomo, cancellandolo dal pianeta).

 

Ci mancano forse un po’ le pestilenze vere? Nostalgia della storia? D’altronde sono le epidemie che segnano la storia. Condannati come siamo a vivere schiacciati nella cronaca sincopata che misuriamo in minuti e in tweet, non riusciamo a ricongiungerci con il senso della vita che solo la storia può provare a riconsegnarci. Senza pestilenze non avremmo avuto il “Decameron” (o i “Promessi Sposi”). Alle descrizioni di Boccaccio (e di Manzoni, o di Lucrezio e Tucidide) il nostro immaginario ha sostituito quelle della filmografia di “contagio”, quasi tutte prodotte da pellicole post Guerra fredda: dal prodromico “Virus letale” del 1995, a “28 giorni dopo” del 2002, fino al più recente “Contagion” (2011). L’eccezione temporale di “Cassandra Crossing” (1975, in piena Guerra fredda) si spiega perché si tratta di un film dove il contagio non è protagonista, ma solo un pretesto. Nessun millenarismo, solo terrorismo biologico. Ma è tutta un’altra storia, nulla di ancestrale.

 

La favola mitica del vampirismo, quella sì, si inserisce a pieno titolo nel tracciato della storia perenne delle epidemie. Di sangue e di sesso. Ma segna un filone alternativo: il male come compagno inestirpabile della vita umana. Quindi non episodio o sfida definitiva dell’esistenza contingente, ma malattia dell’essere, contagio con cui convivere, fino alla fine dei tempi.

 

Nel nostro tempo recente solo la tragedia dell’Aids ha avuto un’autentica dignità di epidemia, non a caso forse negli anni in cui cadeva, con la Cortina di ferro, anche l’incubo della Guerra fredda e l’inquietudine della bomba atomica.

 

E’ tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta del secolo scorso che alcune morti eccellenti (da Rock Hudson nel 1985 a Freddie Mercury nel 1991) hanno fatto ripiombare l’occidente nella certezza di una pestilenza. E si è riaffacciata la possibilità di una periodizzazione storica che scandisse i tempi – almeno della vecchia Europa – sulla base dei contagi di massa. Una peste – la peste nera del 1348 – ha segnato l’inizio della storia moderna d’Europa (secondo la mai abbastanza meditata proposta di Roberto Sabatino Lopez); una pestilenza, in questo caso l’influenza spagnola, ha dato avvio all’Europa contemporanea, dopo la Prima guerra mondiale. Un’altra epidemia – quella del virus Hiv – ha sancito la fine della storia del Secondo conflitto mondiale, durato nelle sembianze della Guerra fredda. E come accade sempre, le pestilenze vere producono silenzio. O letteratura, scientifica o artistica.

 

La paura non disquisisce intellettualmente. Si scatena. E la paura produce afasia. O al contrario urla. Di terrore. La parola è il sintomo – e talvolta si utilizza come cura – delle nevrosi. Quando scendono in campo i media è certo che si tratti di nevrosi, e quindi di un progressivo allontanamento dalla realtà. “Al principio dei flagelli e quando sono terminati si fa sempre un po’ di retorica. Nel primo caso l’abitudine non è ancora perduta, e nel secondo è ormai tornata. Soltanto nel momento della sventura ci si abitua alla verità, ossia al silenzio”. Parola di Albert Camus, in uno dei non pochi classici della letteratura in cui una pestilenza è protagonista o diventa contesto essenziale dello svolgimento delle umane vicende.

 

L’epidemia da virus ebola che da mesi tiene desta l’attenzione dei giornali, forse più che dell’opinione pubblica, è l’episodio più recente – ma certamente non più tragico – degli allarmi mediatici lanciati quando si evoca un rischio di contagio senza nulla che razionalmente suggerisca l’avvio di una epidemia. Senza che ci siano i presupposti per temerla, se non l’ancestrale richiamo a una fine universale, possibile così come è accaduto un inizio

 

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Si sono inseguiti e si inseguono i casi individuali dei “pazienti zero” nei paesi occidentali. In tutto una decina tra Spagna, America, Italia e Francia. Finché resistono i casi individuali per fortuna non c’è nessuna epidemia in corso. Sempre Camus, quando narra l’esplosione della immaginaria peste a Orano, sottolinea con il gelido raziocinare del letterato che si finge cronista: “Non vi erano più destini individuali, ma una storia collettiva, la peste, e dei sentimenti condivisi da tutti”.
Verrebbe da dire che finché se ne parla molto, il rischio epidemico resta abbastanza basso, nella realtà. Finché se ne parla resta alto l’obiettivo di “trovare il colpevole”: pratica insensata di fronte alla morte collettiva. Ma argomento forte per spiegare l’attenzione mediatica attratta dalla riemersione di forme virali note e più o meno trascurate. Per il giornalista collettivo l’industria farmaceutica è quasi sempre in cima ai possibili colpevoli, perché in cerca di attenzioni per garantire investimenti in ricerca, studiare e varare un vaccino – il sospetto si è acceso in questo caso di fronte alla valutazione dell’epidemia di ebola, che ha prodotto “solo” sette-ottomila vittime nel continente africano, meno della metà di quelle mietute dalla malaria, una percentuale infinitesimale rispetto a quelle dovute alla dissenteria o alla denutrizione. Così come, al contrario diventa imputata d’ufficio quando scattano i timori per i vaccini, come è accaduto ultimamente in Italia. Ma l’irrazionalità vive in ogni latitudine. L’ostilità occidentale verso le case farmaceutiche somiglia al pregiudizio di molte popolazioni africane verso la nostra medicina. Racconta il sito specializzato Popular Science che “lo scorso agosto, in Liberia, un ospedale statale è stato attaccato da un commando armato che ha fatto fuggire i malati: gli attaccanti ritenevano che l’ebola non esistesse e fosse solo una invenzione del governo di Monrovia per controllare la popolazione e lucrare sulle spese sanitarie. Hanno abbattuto le porte con bastoni e saccheggiato la clinica. Sembra che addirittura 29 pazienti affetti da virus ebola siano stati messi in fuga. Il problema ora è che queste persone (oltre a non ricevere alcun aiuto medico per se stesse) diffonderanno il contagio. I medici in Guinea, Liberia e Sierra Leone hanno due nemici: il virus ebola, e l’ignoranza di nozioni medico-scientifiche della popolazione”.

 

Eppure attraverso i virus, e forse all’ignoranza scientifica, durante e dopo le epidemie si possono scatenare le migliori scintille artistiche. Più raramente quelle umane, che scaturiscono dai “cuori straziati ed esigenti” nelle parole di Camus: “Se l’ordine del mondo è regolato dalla morte, forse val meglio per Dio che non si creda in lui e che si lotti con tutte le nostre forze contro la morte, senza levare gli occhi verso il cielo dove lui tace”. Disperatamente laica o provvidenzialmente religiosa resta la storia. E l’arte. “Era con sì fatto spavento questa tribulazione entrata ne’ petti degli uomini e delle donne, che l’un fratello l’altro abbandonava e il zio il nipote e la sorella il fratello e spesse volte la donna il suo marito; e (che maggior cosa è e quasi non credibile), li padri e le madri i figliuoli, quasi loro non fossero, di visitare e di servire schifavano”. La crudeltà umana raccontata da Boccaccio non impedisce la fioritura divina dell’arte. Vera cura di ogni nevrosi. Guarigione di ogni devianza mediatica. Ma dono che ci si augura e non si può – ahimè – pretendere. Dono umile di cento novelle – dove la quantità consente di far nascere la qualità, senza paura di selezionare e di schifare – “scritte per cacciar la malinconia”, “a chi per tempo passar legge”. Far passare il tempo, tra la nascita e la morte, e in attesa della morte peggiore, è uno degli obiettivi dell’arte. Ci si può rallegrare anche durante un’epidemia, perché “se troppo per questo ridessero, il lamento di Geremia, la passione del Salvatore e il ramarichio della Maddalena ne le potrà agevolmente guerire”.

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