I professionisti dell'anticorruzione impongono il vaniloquio: ora basta
Da vent'anni portiamo alle stelle l’ideologia delle manette, del controllo cosiddetto di legalità, dello sputtanamento delle classi dirigenti e delle istituzioni. Spargiamo il seme della sfiducia più corriva, insegniamo agli italiani che loro sono puri, che i loro comportamenti non c’entrano, che tutto dipende dall’avidità e dalla rapacità dei potenti.
I professionisti dell’anticorruzione fanno a gara con i professionisti dell’antimafia. Mentre lo stato “colluso”, cioè partiti e governi, carabinieri dei Ros e polizie e finanza stremavano la mafia e smantellavano la sua centrale direttiva a colpi di arresti e confische, la società e le istituzioni venivano attraversate dal grande massacro del sospetto, del mascariamento, della letteratura paracriminale, dell’antropologia universale mafiosa in cui tutto è mafia, fino alla farsaccia finale della mafia romana di Buzzi e Carminati, uno scandalo per l’intelligenza e una sistematica irrisione verso i dati di realtà di un piccolo giro di corruzione municipale cravattara trasformato in fenomeno mafioso a risonanza planetaria. Sono vent’anni, dal tempo dell’incorruttibile Tonino Di Pietro, che gli italiani si pappano la brodaglia anticorruttiva e antimafiosa da mattina a sera. Sbalorditi e pigri, quelli del New York Times scrivono che non c’è interstizio della società italiana mondo da corruzione, tutto è marcio. Saremmo un caso, un’anomalia. Ballano cifre sempre diverse, sempre abusabili, sui costi sociali della corruzione, sulla corruzione “percepita” (che truffa!) mostro gigantesco che ci soffoca e impoverisce. La politica è sotto schiaffo. Management e burocrazie sono sotto schiaffo, nella magistratura inquirente agiscono sezioni auree di avanguardia militante, si costruiscono partiti, liste elettorali, candidature ed elezioni a sindaco, tutto con il carburante spesso limaccioso e taroccato dell’ideologia anticorruzione.
Molta gente, moltissima, è letteralmente rincoglionita dalla chiacchiera anticorruttiva, che alimenta lo share of voice dei talk show (sempre meno), consente all’ultimo venuto di farsi bello con la magniloquenza onnipresente delle mani pulite, dell’indignazione del popolo, della necessità di un immediato repulisti, delle responsabilità del potere politico. L’anticorruzione ha un suo marketing, una sua necessità commerciale e civile che tutto travolge, è una guerra di parole e di formule che penetra in Parlamento, crea partiti fasulli e li porta al 25 per cento, alimenta lotte interne e dossieraggi, falsa lo stato di diritto e compromette l’habeas corpus, intrufola lo stato per ogni dove a spese degli individui e dei gruppi sociali, mette tutti gli uni contro gli altri, deturpa il volto di vera responsabilità e di controllo dei giornali e delle tv e della rete, che dovrebbero cercare induttivamente la verità empirica e invece parlano a nome di una verità dedotta dagli idoli demagogici. Il professionismo anticorruttivo falsa la pista democratica lungo la quale si dovrebbe effettuare la corsa che seleziona i migliori o i meno peggio. Il ciclo italiano dell’anticorruzione, che in forme letali dura da oltre vent’anni, è una delle cose più corrotte, compresa la Repubblica dei partiti, che abbia mai visto in vita mia.
Serve una rivoluzione della coscienza in nome del principio di realtà. La corruzione è puzzona e marginale se comparata alle altre grandi questioni della vita pubblica e privata (la capacità del sistema di decidere, la crescita economica in epoca di moneta unica e di crisi recessiva, la competitività del sistema italiano di produzione e lavoro, la struttura dei consumi, l’energia, la politica estera, l’avvicendamento di nuove classi dirigenti alla guida dello stato, la cultura e l’istruzione, la ricerca). E’ diffusa ma non è affatto centrale nella vita reale, non ha il posto di devastante onnipresenza che le attribuiamo nel nostro vaniloquio quotidiano. E, come giustamente dice l’ex magistrato Gherardo Colombo con la sua disincantata erre moscia e la sua apparente ingenuità, il succo e la radice della corruzione è nei comportamenti sociali, nell’inconsapevolezza culturale, nell’identità profonda del nostro modo di considerare il particolare e il generale, cose che si curano con la scuola, con investimenti veri nel miglioramento della qualità del vivere e del convivere.
[**Video_box_2**]Da vent’anni, invece, facciamo il contrario. Portiamo alle stelle l’ideologia delle manette, del controllo cosiddetto di legalità, dello sputtanamento delle classi dirigenti e delle istituzioni. Da vent’anni spargiamo il seme della sfiducia più corriva, insegniamo agli italiani che loro sono puri, che i loro comportamenti non c’entrano, che tutto dipende dall’avidità e dalla rapacità dei potenti, basta stanarli con sempre maggiori vincoli e poteri legali, di stato, e alla fine la battaglia sarà vinta. Tutti sanno che non è così, che l’ultimo scandalo romano in ordine di tempo non è mafia ma turbo-assistenzialismo e piccola avidità sparpagliata in un paio di dozzine di corrotti che agiscono all’ombra della carità e della redenzione e dell’accoglienza; tutti sanno che non si può dire con schifo la parola appalti come sta avvenendo all’Expo di Milano, e mettere in zona sospetto un’impresa planetaria come Eataly (poi lo sentiamo il New York Times, che si pubblica nella città in cui l’industria di Farinetti ha la palma dei consumi e del successo).
Renzi dovrebbe avere più coraggio. Non si fa una rivoluzione dei comportamenti e delle strutture, tanto meno all’insegna dell’ottimismo e del volontarismo, se si resta sotto scopa delle campagne manettare. Bisogna che trovi il modo di non farsi infilzare dai turlupinatori dell’opinione pubblica, certo, ma anche di rottamare l’ideologia mefitica dell’indignazione demagogica da anticorruzione. Trovi il modo di dare i pieni poteri pedagogici a un Colombo e a quelli come lui, investa il paese di un discorso di verità contro la menzogna. I corrotti vadano a processo, ma chi specula sull’anticorruzione, con tutta quella pappa del cuore savianea impastata di diffamazione e di spregio, sia messo in condizione di non nuocere. E buon Natale, per così dire.
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