Quirinale? conta un tubo
Con la legge maggioritaria e senza le coalizioni, il futuro presidente sarà notarile. Metodo, segreti, veti, sussurri, grida: tutto un po’ pleonastico. I presidenti sono sfolgoranti e decisivi negli stati d’eccezione che arrivano da coalizioni divise. Con l’uomo solo al comando riposano.
Un presidente: un nome e, nell’attesa, un metodo. Eppure si avvertono bullismi e nervosismi, il respiro si fa asmatico, riemergono pregiudizi e si infittiscono i retroscena. Ma ne vale la pena? Davvero il Quirinale è la porta stretta attraverso cui passano gli equilibri della politica e ha ragione chi dice e ripete che a piccoli passi e in modo irreversibile stiamo andando verso una repubblica semi-presidenziale? Davvero dobbiamo credere che dal Quirinale si possa manovrare, influenzare partiti e magari pure movimenti e piegarli a un disegno egemone? In venti anni due sole volte un presidente della repubblica si è trovato a dover governare un’eccezione nel senso schmittiano del termine. Due sole volte, nel lungo tempo in cui tre presidenti hanno svolto il loro bravo lavoro, fare nomine, lanciare moniti, presenziare, inaugurare: come dicono i francesi, “couper les crysanthèmes”. Messa così, la nostra repubblica sembra soprattutto a-presidenziale.
In giuridichese di giornata, si può dire che c’è una “tranquillante certezza”: uno ne verrà e non avrà gli occhi di Giorgio Napolitano, undicesimo nella funzione, unico ex comunista nella storia, unico rieletto. Degli altri dieci, cinque democristiani, due liberali, un socialdemocratico, un socialista, un indipendente ex del partito d’azione. Wikipedia si è divertita a declinarli per provenienza geografica dagli stati preesistenti all’unità d’Italia: sei dal Regno di Sardegna, cioè l’ensemble Piemonte Sardegna e Liguria, tre dalle Due Sicilie, due dal granducato di Toscana. Nessuno dal Lombardo-Veneto e dalla marca pontificia: visti i tempi, anche questo potrebbe nascondere un metodo. Che sarebbe più intrigante e più ci farebbe riflettere sulla nostra identità nazionale del cosiddetto metodo Ciampi, attualmente molto di moda. O del metodo playboy, tutti in piscina e vediamo chi affoga, il solo che dia erezioni di lunga durata al cronista collettivo: un Francesco Cossiga eletto al primo turno, l’unico in anni recenti ad avere avuto tanto consenso, evidentemente non eccita. Meglio l’odore di palude, i conti sul pallottoliere, la tela che si tesse nel voto e nel veto segreto e si deve poi sconfessare. Quanta nostalgia di fronte alle scene da Tv in bianco e nero e canale unico, anno 1964, lo speaker che alterna i nomi di Saragat e di Leone. Dovrebbe essere un rito solenne: il popolo ne fa già una barzelletta, “sarà gatto o sarà leone”, ventuno votazioni ci vogliono e un Natale passato in aula, alla fine sarà Saragat e un deputato monarchico dice “viva la monarchia” e tutti applaudono. Sette anni e ventitrè votazioni dopo, toccherà a Leone, democristiano doc, che dovrà dimettersi sotto i colpi di una folle campagna lanciata contro di lui da parte dell’Espresso e di Camilla Cederna, avallata dai partiti padroni. E’ la prova che anche lassù si può stare scomodi e che la funzione non dà necessariamente forza. Nessuno pensava allora a una Repubblica presidenziale, il solo che provò a parlarne, Randolfo Pacciardi, passò i guai suoi. I partiti forti si sono sempre nutriti di presidenti deboli, nessuno con la tempra – e gli archivi – di Clemenceau che ispirò a Georges Simenon il presidente Emile Beaufort. Sandro Pertini, amato dagli italiani, moralmente integro e collerico, perciò con qualche arma per farsi sentire, era scarsino in politica così subì anche lui un sistema di potere a cui non sapeva opporsi.
La prima eccezione si presenta quando al Quirinale c’è da due anni Oscar Luigi Scalfaro. Un settennato travagliato assai. Siamo nel 1994, fine anno, Berlusconi in aprile distrugge la sinistra di Occhetto, si appresta a fare riforme liberali, tra queste le pensioni, i sindacati scendono in piazza e lui fa marcia indietro. Bossi, l’alleato del nord, apre la crisi. Norma e cortesia vorrebbero che si tornasse alle urne, ma la Lega non vuole farsi asfaltare dall’alleanza tra Berlusconi e Fini che ha appena tradito, D’Alema ha bisogno di tempo per riordinare la Quercia dopo la sconfitta sanguinosa. Si lavora di fino e nasce il governo di ribaltone guidato da Lamberto Dini. Di sicuro c’è, dietro, la sapiente regia del democristiano al Quirinale ma la decisione di non andare a votare con l’inganno (la data fu promessa a Berlusconi), di dar vita a un governo di segno diverso da quello voluto dagli elettori, è condivisa da una larga parte del sistema politico. Se Scalfaro tesse, la stoffa la procurano D’Alema e Bossi, allora costola della sinistra. Persino dunque in questa situazione d’eccezione, il presidente della Repubblica non può nulla se non ha sponde. La Costituzione italiana non gli consente quello che è concesso a un presidente in regime semipresidenziale, licenziare il primo ministro quando vuole, sciogliere le Camere. E’ la differenza tra una monarchia repubblicana che ha a disposizione armi convincenti e una repubblica dai simulacri monarchici in cui il presidente vive in un palazzo che fu dei papi e dei re senza avere i poteri che aveva il papa né quelli che aveva il re. Ci sta insomma come un inquilino leggermente abusivo.
Il secondo faccia a faccia con l’eccezione capita proprio a Giorgio Napolitano ed è in questa occasione che si rafforza, emerge in modo più netto il cambiamento di pelle istituzionale. E’ il 2011, l’autunno dei picchi di spread, delle gride dei mercati, dell’Italia che sembra dover finire come la Grecia. Berlusconi governa da tre anni, dopo aver stravinto le elezioni del 2008. Sarebbe il Quirinale a farlo cadere, a decidere di non far votare gli italiani sotto la neve, a dare vita al progetto di Monti che poi sarà di Letta, in stretta osservanza e continuità con le raccomandazioni di Bruxelles, Francoforte e altre lontane tecnocrazie? Su questa storia del grande complotto che si rimpalla e autoalimenta da dentro a fuori, da fuori a dentro, hanno scritto libri e fatto inchieste, come si dice hanno ammazzato il gattopardo. Una parte dell’entourage dell’ex premier è pronta a scommetterci la testa, già in estate Napolitano aveva pensato a Monti come successore a Palazzo Chigi: non può che essere al cuore della macchinazione, gli osservatori non schierati vedono qui l’inizio del dispiegamento di una Terza Repubblica a forte trama presidenziale. Magari fosse vero.
[**Video_box_2**]Come ogni grande ambizioso che vuole divorare il mondo e siccome non ci riesce finisce per divorare se stesso, Berlusconi si fa del male da solo. Non crede sia importante ricomporre la frattura con Fini, non usa gli strumenti giusti, anzi gli fa una guerra campale. Invece di prendere la palla al balzo e chiedere nuove elezioni, si mette a rimpinguare la maggioranza sfarinata con apporti risibili per immagine e durata. Insieme a Tremonti, si incarta con Francoforte, con l’allora governatore Trichet e i paesi che contano in Europa. Offre il fianco: ci si può stupire se poi il coltello affonda? Napolitano altro non ha fatto che prevedere la ferita e la cura, si è comportato da esperto professionista della prima Repubblica qual è più che da smanioso uomo di potere della seconda.
Persino quando la crisi era al parossismo, se Berlusconi invece di raccogliere gli inviti alla prudenza che venivano dalla grande famiglia delle sue imprese, si fosse rifiutato di fare il padre della patria, nobile ma non richiesto, e avesse cercato elezioni, il presidente della Repubblica avrebbe avuto qualche difficoltà a rifiutarle. Più che della forza di un presidente della Repubblica si dovrebbe dunque parlare della debolezza istituzionale del presidente del consiglio.
Sembra paradossale parlarne quando il paese ha per la prima volta un premier e un leader che si dice ostile alle coalizioni, alle grandi tavolate, alle nenie della concertazione, vero vulnus della nostra democrazia e siccome è anche un po’ bullo e un po’ smargiasso, concentra nelle sue mani un potere che non ha molti precedenti. Ma è proprio l’estensione dei suoi avversari palesi e occulti, a dirci che è Palazzo Chigi ad aver bisogno di puntelli, non Renzi ma il simbolo che rappresenta, un primo ministro, un cancelliere che non sia inter pares ma possa decidere se necessario anche da solo. Piuttosto che vagheggiare nuove repubbliche che forse nemmeno ci servono, e sforzarci di leggere derive che non ci sono, teniamoci questa democrazia. Almeno ora che un po’ funziona come si deve.
Metodo e battaglia per il Quirinale sono il codice unico del giornalismo e della politica au jour le jour. Ma c’è l’inganno, e Renzi e Berlusconi probabilmente lo hanno intuito. Chiunque vada a capo dello stato, i suoi poteri sono limitati: con la legge elettorale con premio di maggioranza alla lista les jeux sont faits. Le coalizioni e le proporzionali reggono sulle loro spalle il Quirinale; senza, non c’è trippa.
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