Julie Burchill, 55 anni, ha scritto come columnist per il Sunday Times, il Times, il Guardian, l’Independent e il Mail on Sunday

Sono grassa e mi piaccio

Anselma Dell'Olio

Autobiografia “non autorizzata”, una star-columnist irriverente pure verso di sé. Burchill, l’amore per Israele, le risse con liberal compassionevoli e femministe.

Combina il talento letterario, la verve polemica e lo spirito comico-iconoclasta di Oscar Wilde, Dorothy Parker, Oriana Fallaci – ed è molto fogliante. Christopher Hitchens è morto tre anni fa; ma un erede all’altezza c’è, viva, spiritosa e pugnace. L’anticonformismo geniale, puntuto, scompisciante ed esaltante di Julie Burchill è una lotta infinita contro ipocrisia e perbenismo che procede sin dall’età di diciassette anni, quando vinse un concorso per un posto da “giovani pistoleri hip”, cioè giornalista rock con la penna al posto della pistola, al New Musical Express, nel 1976.

 

Dopo aver fatto il critico rock, diventa celebre, popolarissima e molto ben pagata, attirando adoratori e odiatori in egual misura. Ha scritto come columnist per il Sunday Times, il Times, il Guardian, l’Independent e il Mail on Sunday. Tra i suoi 18 libri, il romanzo sesso-e-shopping, Ambition, era un best-seller, e Sugar Rush, su teenager e lesbismo, è diventata una serie di successo su Channel 4. Al West End sono andati in scena due one-woman show costruiti sulla sua vita, “Julie Burchill is Away”, e un sequel, “Julie Burchill: Absolute Cult”, scritti dal commediografo Tim Fountain. Le sue avventure ricordano la serie di culto della Bbc “Absolutely Fabulous”, su un gruppo di anti-casalinghe sfottenti senza freni inibitori, dedite ad alcol, stupefacenti e sesso a volontà, gruppo molto, molto spiritoso.

 

Julie da ragazza era una sfiziosa bionda con occhi verde-azzurri, un fisico bestiale, sboccata e linguacciuta, con a sorpresa (per chi l’ha solo letta) una vocina acuta e infantile. E un gran naso, che rivendica con gusto. Oggi è bruna e potelée (lei dice “grassa”), e all’inizio di dicembre il suo penultimo marito, Cosmo Landesman, ha accettato di presentare il suo libro insieme a lei, in un duetto-duello sulle divergenti versioni del loro matrimonio, di cui lui ha scritto nella sua autobiografia Starstruck, e lei in The Unchosen (I non eletti). L’ex marito la descrive come la persona che l’ha fatto ridere come nessun altro. Conquistandola, “ho vinto la lotteria dell’amore”. Sembra ancora molto preso.

 

The Unchosen racconta nascita, sviluppo e passione di una radicale filosemita, cioè lei. La ragazzina ariana partorita dai quartieri privi di ebrei dei colletti blu di Bristol, papà comunista-sindacalista e mamma operaia, ha un amore entrato nel quinto decennio per gli ebrei, l’ebraismo e, of course, Israele. L’irruente Julie brandisce la scrittura come una spada affilata che riduce in polpette antisionisti e antisemiti (sinonimi inseparabili per lei). “Sono più di quarant’anni che resiste la mia passione per la gens israelitica: non è una cotta”. Il suo amore nasce quando il padre passa a Julie quattordicenne la puntata sull’Olocausto di una collezione seriale sulla Seconda guerra mondiale.

 

Julie non ha avuto la solita infanzia difficile che l’avrebbe portata a identificarsi con un popolo afflitto nei secoli. Era una ragazza “bionda, con tanti amici, figlia unica di genitori stabili e presenti (“well-parented”) con soldi a sufficienza per una vita decorosa”. E’ tosta con se stessa come con gli altri: “Sono un’alcolista grassa con un nasone, scrivete quello che vi pare su di me. Ho molta autostima”. JB si descrive come adolescente con broncio d’ordinanza, ribelle, musona e segaiola. Ma dopo aver letto degli indicibili orrori inflitti agli ebrei d’Europa, trasforma la sua frustrazione giovanile, tra l’altro per non potersi sposare con la rockstar Mark Bolan, in collera incandescente e ripugnanza abissale per i carnefici nazisti, e compassione immensa e indelebile per le loro vittime. (Scopre con gusto che il glam rocker Bolan era d’origini ebraiche). L’unica cosa che le mancava era una vita emozionante da bohémienne nella metropoli; se la sarebbe procurata a breve. “Mi sentivo un’adulta nel corpo di una bambina”. Legge su una rivista rock di un concorso per “giovani banditi” senza esperienza giornalistica ma con una buona scrittura. Chi vince sarà assunto alla New Musical Express. Julie manda un pezzo sui Sex Pistols, e tra quindicimila aspiranti critici rock vince lei, com’era sicura di fare “anche fossero stati un milione i concorrenti”.

 

Al New Musical Express (Nme) si traveste da punk e si dedica a scrivere su una musica che in realtà detesta. “Io amavo la musica nera; il punk era solo rumoroso. La cosa migliore del punk è la sua breve durata”. Sempre precoce e avventurosa, lascia il posto (“Il mestiere del critico rock va fatto dai giovani”, aveva 20 anni) ma non prima di aver escoriato, con tutta l’impressionante carica di disprezzo a sua disposizione, la cantautrice punk Siouxsie Sioux. Aveva scritto “Too many Jews for my liking” (“Troppi ebrei per i miei gusti”) nella canzone “Love in a Void”. Julie: “… è il più ributtante e imperdonabile testo di canzone mai scritto”. E poiché Siouxsie aveva 22 anni, “… non si può nemmeno attribuirlo alla solita per quanto labile scusa dell’ignoranza giovanile. Perciò (Siouxsie) dev’essere o maligna o deficiente”. Insieme con il mondo rock abbandona pure l’ideologia comunista paterna dopo un breve flirt con il Socialist Workers’ Party, e oggi nel libro difende – con lodevole sprezzo del pericolo – la catena di supermercati Tesco contro le aggressioni di bottegai risentiti per i bassi prezzi che danneggiano la concorrenza. Fondato da un ebreo polacco partito con una bancarella nella East End di Londra, Tesco diventa una multinazionale. JB non canta la perfezione di Tesco, ma insiste che si riconoscano i meriti di un percorso tipicamente ebraico: dagli stracci alle stelle in pochi decenni. Il motto del fondatore Jack Cohen, sta nella sigla YCDBSOYA: “You Can’t Do Business Sitting On Your Ass”. Non puoi fare affari con il culo sulla sedia.

 

Burchill ammira incondizionatamente la rapida salita della scala sociale ed economica della sua etnia amata: onorano le proprie ambizioni, proprio come ha fatto lei. E attirano invidia e risentimenti. Julie è autodidatta senza complessi. In un’intervista, Will Self le ha chiesto se era “solipsista”. “Non lo so”, ribatte, “non ho fatto l’università”. Degli ebrei tiene a ricordare che sono appena lo 0,002 per cento della popolazione mondiale, ma hanno vinto il 22 per cento dei premi Nobel, persino l’11 per cento di quelli per la Pace. Ma non le basta lodare gli ebrei: prende di mira non solo o non tanto gli islamisti, ma soprattutto i loro compagni di strada, come il Guardian e la columnist India Knight. Descrive le donne occidentali che si convertono all’Islam: “… ha lo stesso senso di quelle bovine rincitrullite che si beano di scrivere lettere d’amore ad assortiti serial killer e stupratori nel Braccio della morte. Molte femmine attirate dalla causa palestinese o islamista fino a convertirsi all’islam sono state avviate all’autoimmolazione dalla romantica, mitica figura degli scecchi sensuali nei film in tv. E’ solo un mito: avete mai visto quei regnanti nei feudi mediorientali? Non per essere antipatica, ma molti di loro assomigliano assai alle caricature naziste degli ebrei”. E ancora: “E’ come se sapessi sin da piccina che se un maomettano sta cercando il clitoride, non è certo per far divertire la ragazza, ma per dargli un taglio netto”. Rivendica il dispetto (“spite”) come hobby preferito, polemizzare con la lingua affilata come il suo blood-sport prediletto, e considera l’essere odiata meglio del denaro.

 

Julie è stata accusata di considerare gli ebrei come tutti uguali, una sorta di inconscio razzismo alla rovescia, ma è falso. Ha conosciuto tanti ebrei, ne ha sposato uno, appunto il giornalista Cosmo Landesman, da cui poi ha divorziato, e che le ha strappato l’affidamento del loro bambino per anni; ora il figlio di 22 anni vive con lei, ma Burchill considera d’averlo perso comunque. Ha visitato più volte Israele trovando parecchio da ridire sui residenti di quel fazzoletto di terra grande come il Galles: “Sono piuttosto rudi”. Ha vaffanculato la sinagoga riformista sulla cui officiante rovescia battute velenose. Racconta di un pranzo a casa della rabbi, che dice subito: “Chiamami Elli”. A modo suo tradizionalista, Julie usa quelle due parole con il trattino in mezzo ogni volta che la cita nel libro. Non le garba che la rabbina (?) porti le scarpe da ginnastica durante la liturgia: “Voglio sentire rispetto e un po’ di timore per il mio rabbino”, scrive JB. “Noi ci mettiamo gli abiti buoni per andare in sinagoga; e sarebbe confacente che il rabbi facesse altrettanto”. Ma ciò che la manda ai pazzi è che “Chiamami-Elli” decanta in schul e a pranzo le gioie dell’omosessualità e i meriti dell’islam, per mostrare quanto è cool. Invita Julie e un’amica a pranzo, poi pomicia lingua in bocca con la sua compagna a tavola tutto il tempo, facendo battere in rapida ritirata Julie e la filosemita Nadia, terrorizzate di trovarsi “magari coinvolte nostro malgrado in un’orgia lesbica à quatre”.

 

[**Video_box_2**]Una seconda ebrea che ha deluso Burchill è Fran Landesman, madre del marito numero due Cosmo Landesman. La suocera Fran era un’artista, poeta e paroliere di canzoni, nota nel mondo del jazz (“Spring Can Really Hang You Up The Most”). La nostra Julie cornifica ampiamente il primo marito Tony Parsons – che ancora oggi non sopporta – con lo Hot Jew Cosmo. Molla Mr. Burchill N. 1 (la famosa è lei) e il bimbo di quattro anni, e si trasferisce in una stanza della cialtronesca, lercia (“filthy”) casa georgiana di sette piani a Islington dei Landesman. Fran e Jay Landesman sono ebrei bohémien americani che si sono trasferiti nella swinging London degli anni Sessanta con i due figli Cosmo e Miles. Solo perché Julie rivendica l’amore viscerale per l’alcol e l’aver sniffato “più cocaina di tutte le forze armate colombiane”, non vede perché glissare sui vizi dei suoceri. Ebrei. Il matrimonio “aperto” sbandierato dai Landesman non le garba. Né la costante presenza di giovanissime amanti del suocero-satiro la entusiasma, ma questo è niente. La suocera e artista Fran, a 57 anni (otto meno del marito, allora già ufficialmente con tessera gratis di mezza età per i mezzi pubblici) è trattata dal marito e dalla famiglia come “invalida sessuale”, è relegata a cuoca celibe e per giunta macrobiotica. Il suocero Jay, invece, o porta le sue “fidanzate” poco più che minorenni, o prova ad abbrancare qualunque femmina appetibile che si trovi a tiro (assai gradite le partouze).

 

“Non c’è ipocrita come uno hipster”, chiosa Burchill. “Osservo ancora una volta che, quanto a sessismo, gli hippy battono i Tory sistematicamente”. Avere sotto il tetto come nuora un’autentica Celebrità manda Jay in estasi; essere famoso era il sogno della sua vita. Julie non è lusingata: “Hanno ricevuto Lenny Bruce, Jack Kerouac e i Beatles a casa loro, cazzo, mentre io ero solo una fortunata mestierante della stampa popolare con un posticino di lusso a Fleet Street”. La sua solidarietà di donna sarebbe tutta per Fran, relegata in un ruolo di eunuca che deve inventarsi impossibili leccornie biogastronomiche, ma arrivano le opinioni sugli ebrei della suocera. Fran racconta che le brucia ancora l’essere stata respinta in quanto ebrea dal country club in Connecticut. Julie assume l’espressione di chi sente una barbarie razzista, ma Fran non sa che farsene della solidarietà, e continua: “E SIN DA QUEL MOMENTO DETESTO ESSERE UNA FOTTUTISSIMA EBREA!” (sic anche per le maiuscole). La nuora tenta di dire che era il country club in torto, non lei, ma Fran sibila: “Fino a quando gli ebrei crederanno di essere GLI ELETTI – se la sono cercata. Hanno CHIESTO di essere gasati!”. La nostra non gliel’ha mai perdonato. La combattiva Julie spiega e rispiega che l’elezione non era un vanto degli ebrei, “ma solo qualcosa di ANNUNCIATO prima a loro, e poi gli altri hanno avuto la possibilità di ascoltare. Se hanno scelto di non ascoltare, non è colpa degli ebrei”.

 

Bisogna ricordare che Burchill è una scrittrice satirica? Occorre una certa conoscenza dell’inglese per leggerla. Difficile fare giustizia alla sua prosa, e ancor più impervio trovare un editore disposto a rischiare la pubblicazione. Non l’ha trovato nemmeno in Inghilterra, il libro è stato finanziato dal “crowdfunding”. Delle sue faide con Camille Paglia e l’opinionista liberal India Knight, si può solo riferire che JB vince due a zero, ogni volta: più arguta, più spiritosa, più veloce, più tutto (versione integrale in rete). Paglia le scrive un un-cool fax minaccioso in seguito a una critica negativa di Burchill a un suo libro. JB risponde: “Fai tanto la tosta, il bullo, Camille, e non riesci ad accettare una recensione poco entusiasta?”. Dopo l’ennesima, lunga, biliosa, martellante filippica minatoria della Paglia, le risponde, spazientita: “E vaffanculo, vecchia pazza magnafrange che non sei altro. Always, Julie”. (Julie è stata lesbica “per sei settimane”, è sposata da vent’anni con il fratello del suo breve flirt saffico).

 

Nella guerra delle Falkland, va da sé, era spalla a spalla con Christopher Hitchens a favore dell’invasione, idem per la guerra contro Saddam Hussein. Burchill ha idee chiare e distinte ma non lesina autocritiche e una comprensione barocca di se stessa (“Mi voglio bene, e la verità è sempre più divertente”). Si autodefinisce “la peggiore madre della Gran Bretagna” per aver perso l’affidamento di ben due figli, e il primo non la saluta. “Non ci andiamo a genio. Preferisco essere un mostro che un’ipocrita”. A 55 anni – “svaniti anche i rimasugli della mia fu avvenenza” – descrive la bizzarria delle molte cose che ha in comune con sir Paul McCartney (una moglie e una fidanzata ebree): “Siamo vecchi, ricchi, panciuti e viviamo a Brighton Hove, ci tingiamo i capelli, abbiamo eccentrici ex consorti – e ci piacciono gli ebrei – in senso biblico”. E’ talmente femminista, ma lucida, da non sopportare la stolta petulanza di tante lagnose suffragette multi-culturali. “I maschi occidentali sono tutti mascalzoni stupratori, ma se gli islamici asportano clitoridi, perseguitano i gay, fanno sposare le bimbe, e sparano in testa alle ragazze solo perché studiano – è tutto occhei, sorella, poiché è la loro cultura, cazzo!”.

 

Il suo filoebraismo è solido, ma fuori della sinagoga. Rispetta lo Shabbat partecipando ogni sabato da un anno a una contro-manifestazione con una colorata coorte trasversale di sodali a Brighton per contestare il boicottaggio isterico, bianco e middle class di Ecostream, un’azienda israeliana. Continua lo studio dell’ebraico (“sono al livello della prima elementare – ma di una bimba inglese, più che israeliana, temo”). Fa volontariato in una casa di riposo: “Finiremo tutti così, alla fine. Giochiamo, non mi deprime per niente”. Fa parecchia beneficenza, anche a istituzioni ebraiche: “Morire ricchi è una vergogna”. Non ama l’umorismo di Woody Allen, e per lei gli israeliani hanno un grave difetto: “Sono troppo tolleranti verso quei freak dei loro vicini. Persino nei paesi arabi moderati vendono Mein Kampf e I Protocolli dei Savi Anziani di Sion. Gli ebrei che pensano che quelli moderati non abbiano lo stesso atteggiamento degli estremisti mentono a se stessi. Li capisco, perché spaventa pensare quanta gente ti odia a morte”.

 

Ultimo pensiero burchilliano: “Gli islamisti non sono ipocriti; ci dicono esattamente quello che vogliono fare a noi e agli ebrei: sono quelli del Guardian (i progressisti) che replicano: “Oh no, non dicono sul serio”. Dice di essere semi-pensionata e di volersi solo divertire. E’ femminista vera: “La libertà che le donne hanno trovato negli anni Sessanta, in fin dei conti, risulta essere contraccettivi a volontà e aborto, cose che rendono la vita più facile per i maschi, di fatto”.

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