Abe revolution
Il nonno Kishi, l’eredità di Koizumi, le elezioni anticipate. Breve storia politica del nuovo leader carismatico giapponese.
Quella del comando è un’arte. Un leader governa, eserciti e popoli. Barry Strauss, docente della Cornell University, nel suo libro “L’arte del comando” su Alessandro Magno, Annibale e Giulio Cesare parla di conquistatori che seppero “distruggere, ma anche costruire”. E le regole sembrano le stesse della politica d’oggi: attacco, resistenza, scontro, capacità di capire quando è arrivato il momento giusto per fermarsi. Non serve scomodare Max Weber per investigare sulla capacità di un uomo di divenire leader. Si potrebbe dire che l’autorità del leader politico si ottiene anche oggi attraverso la legge, per forza dinastica, oppure è un’autorità che proviene dal carisma, ma quale leader contemporaneo può dirsi in possesso di tutti e tre gli attributi? Si contesta spesso all’èra politica contemporanea, quella dei paesi più sviluppati, nell’occidente moderno e maturo, l’assenza di leader capaci di essere trascinanti, riformisti, senza ricorrere agli stratagemmi frequenti dei populismi, delle ragioni religiose. Lo stesso Barack Obama, grande speranza dell’occidente, è divenuto un’anatra zoppa. In Asia la questione è tutt’altro che marginale. La prima presidente donna sudcoreana, Park Geun-hye, figlia d’arte, è stata eletta nel dicembre del 2012. E’ considerata tra le donne più potenti del mondo e al quarto posto tra i coreani più potenti, ma ultimamente ha qualche problemino di leadership a Seul. In India nel maggio scorso è stato eletto primo ministro Narendra Modi, il primo a essere nato dopo l’indipendenza di Nuova Delhi. Modi è un riformista, progressista, ma è legato ai valori tradizionali indiani: un mix che gli assicura popolarità e forte leadership, quella ormai persa dalla famiglia Gandhi. Joko Widodo, ex governatore di Jakarta, è stato eletto nel 2014 settimo presidente dell’Indonesia. Jokowi, come lo chiamano tutti, è un leader credibile e popolare pur non provenendo dalla élite politica o militare: ascolta i Metallica e i Led Zeppelin, usa Twitter, è già finito sulla copertina del Time e promette di realizzare il suo personale “Indonesian dream”. E poi c’è il Giappone. Una democrazia giovane, una Costituzione scritta dopo una resa incondizionata all’America e mai totalmente accettata, e dalla metà degli anni Cinquanta in poi un numero spaventoso di governi, spesso diversi da un anno all’altro. E’ difficile ricordare il nome di un primo ministro giapponese che sia durato per più di una dozzina di mesi. A governare al Kantei, il palazzo del governo di Tokyo, è stato per più di sessant’anni il partito conservatore giapponese, il Partito Liberaldemocratico, tranne i due brevi intervalli del 1994-1996 e poi tra il 2009 e il 2011, con le storiche vittorie della sinistra del Partito democratico. Poi quell’11 marzo del 2011, con il triplice disastro naturale di terremoto, maremoto e crisi nucleare di Fukushima, ha cambiato molte cose. Ma nella storia democratica del Giappone quasi tutti i leader che si sono susseguiti hanno la stessa faccia, e compiono la stessa parabola. Le eccezioni si contano sulle dita di una mano. Negli anni Ottanta Yasuhiro Nakasone condusse il Giappone verso le prime vere riforme, ed ebbe la fiducia dei giapponesi per cinque anni di seguito. Fu lui il primo a stringere rapporti con l’Unione sovietica di Mikhail Gorbaciov, a rappresentare il nazionalismo nipponico pur rimanendo in ottimi rapporti con l’America di Ronald Reagan e il Regno Unito di Margaret Thatcher. Poi arrivò Junichiro Koizumi, l’Obama giapponese che è stato Obama prima ancora che un afroamericano si insediasse alla Casa Bianca. David Pilling, corrispondente da Tokyo del Financial Times, dedica a Koizumi un intero capitolo del suo libro “Bending Adversity” (Penguin). Il titolo è “Il samurai con il ciuffo”. Koizumi è stato l’ultimo grande leader politico nipponico in grado di smuovere i sentimenti dei giapponesi. Fu primo ministro dal 2001 al 2006, il coronamento di una vita politica in cui era stato anche ministro degli Esteri, della Salute, delle Comunicazioni. Da premier, in poco tempo, riuscì a rinsaldare rapporti diplomatici con tutti i nemici di Tokyo. All’inizio degli anni Duemila la sua faccia era stampata sulle magliette dei giapponesi, la gente sventolava le sue foto mentre canta Elvis Presley a Memphis in compagnia della famiglia Bush. La sua chioma fluente, che gli valse il soprannome di Lionheart in qualità di Richard Gere asiatico, avrebbe fatto digerire al popolo giapponese qualunque sacrificio. “Lo chiamavano henjin”, scrive Pilling, “Letteralmente significa ‘persona strana’, anche se rende meglio se tradotto in ‘stravagante’ o ‘eccentrico’. I giapponesi non sono conformisti come qualche volta vorrebbero mostrare, ma essere stravaganti ed eccentrici generalmente non è considerato desiderabile. Il caso di Junichiro Koizumi, comunque, il più carismatico primo ministro giapponese di un’intera generazione, era diverso. Koizumi era diverso. E nel suo caso, essere diverso era positivo”.
Oggi quello che si sta configurando come il nuovo e – inaspettatamente – forte leader politico giapponese non ha i capelli di Koizumi. Eppure Shinzo Abe rappresenta il primo volto noto all’occidente dopo un lungo periodo di assenza del Giappone dalle cronache mondiali. La sua leadership la sta costruendo, lentamente, e come scriveva il Japan Times qualche giorno fa lui è il primo premier dopo tempo immemorabile di cui tutti ricordano il nome: “E’ un cambiamento sorprendente per un politico che fece flop nel suo primo tentativo da primo ministro, quando successe a Koizumi nel 2006 e si dimise dopo meno di un anno adducendo problemi di salute”. Nel 2006 Abe era stato dipinto come il successore del carismatico Koizumi, di cui fu erede politico e delfino. Con Koizumi, Shinzo Abe partecipò al primo viaggio di stato giapponese in Corea del nord per la questione dei giapponesi rapiti dal regime di Pyongyang tra il 1970 e il 1980. Incontrò Kim Jong-il. Accompagnò Koizumi durante le visite al controverso santuario Yasukuni di Tokyo – e il problema con il santuario, costruito nel 1869 dall’imperatore Meji, è che nel libro delle anime, che contiene 2.466.532 nomi di militari e servitori dello stato caduti in guerra, sono segnati più di mille individui ritenuti dal tribunale della Seconda guerra mondiale “criminali di guerra”. Fra loro anche quattordici persone classificate come criminali di classe A, condannate per “crimini contro la pace”. Furono anche le reazioni furiose della Cina per quelle visite a costare a Koizumi, nel 2005, la candidatura alla premiership. Eppure Abe fece tesoro della strategica importanza comunicativa delle visite al tempio, e nel dicembre del 2013 sfidò Pechino e Seul e fece il suo ingresso al tempio scintoista. Nel 2006 non era ancora pronto a fare il leader perché, come scriveva allora Steven Vogel, professore di Scienze politiche all’Università della California, nel commentare la sua prima vittoria: “Abe è sufficientemente gradevole, ma gli manca il carisma di Koizumi, quindi dovrà fare più affidamento sulla costruzione del consenso e nel formulare politiche adeguate”. Lezione imparata.
Una delle foto più famose che circolano in rete di Shinzo Abe è quella in cui, bambino, siede sulle ginocchia del nonno materno Nobusuke Kishi. Il piccolo Shinzo, con i capelli tagliati a scodella e il colletto tondo, è l’unico del ritratto di famiglia a non guardare l’obiettivo. Il nonno sorride, e probabilmente lo scatto corrisponde al periodo in cui, anche lui, ha servito il paese come primo ministro. Kishi è l’eredità più ingombrante della storia politica di Shinzo Abe. L’attuale premier giapponese viene da una delle famiglie politiche più in vista di Tokyo, proprio come usa in Giappone dove lavorare nella politica si tramanda di generazione in generazione. Il padre Shintaro era stato giornalista del Mainichi Shimbun ed è morto nel 1991. Negli anni Ottanta fu ministro degli Esteri di Tokyo per il Partito liberaldemocratico, il suo dicastero fu uno dei più lunghi del Dopoguerra. Shinzo imparò le prime armi diplomatiche e di relazione grazie al padre. Lo seguì in almeno venti viaggi di stato, anche quando il padre Shintaro cercava di costruire una solida collaborazione con il leader sovietico Mikhail Gorbaciov. Nell’aprile del 2013 Shinzo Abe tornò a visitare la Russia come capo di stato. L’ultimo era stato Junichiro Koizumi nel 2003. Il padre di Shintaro, il nonno paterno di Shinzo, era Kan Abe. Kan è uno dei politici dell’inizio del Novecento ricordati con più affetto dai giapponesi. Morì nel 1946, poco prima che si costituisse la prima Dieta del Dopoguerra, e durante i suoi anni come parlamentare si oppose al militarismo che condusse il Giappone a Pearl Harbor. Viene spesso ritratto come un utopista e pacifista, in contrapposizione con il nonno materno di Shinzo Abe, quello sulle cui ginocchia, da bambino, si sedeva. Nobusuke Kishi è l’eredità più ingombrante di Shinzo Abe perché era tra i membri del governo giapponese durante la guerra, e fu imprigionato dagli Alleati nel carcere di Sugamo come criminale di guerra di “Classe A”. Tuttavia Kishi non fu mai condannato e dopo il suo rilascio, nel 1948, continuò la sua carriera politica. Di religione scintoista, divenne primo ministro tra il 1957 e il 1960, e fu tra i capi di governo più nazionalisti della storia del Giappone. Si oppose all’alleanza strategica militare con Washington, ma fu buon amico di Winston Churchill. Un suo albero di ciliegio donato all’allora presidente della Repubblica Giovanni Gronchi nel 1959 è al parco del Lago dell’Eur.
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[**Video_box_2**]Snap election. La locuzione, usata in italiano – dicesi elezioni anticipate – non evoca lo stesso significato dell’inglese. Snap è una parola onomatopeica, letteralmente significa molla, colpo secco, schiocco. A pronunciarla ricorda il fendente di una spada. Per chiamare uno snap election, ovvero per andare a elezioni anticipate nel bel mezzo di un mandato popolare, ci vuole coraggio. Lo stesso coraggio di cui parlavamo sopra, quello che definisce il carisma del leader. Shinzo Abe il 18 novembre scorso ha annunciato lo scioglimento della Camera bassa della Dieta e il ritorno alle elezioni con un paio di anni di anticipo – la campagna elettorale è durata nemmeno quattro settimane, ma a Tokyo organizzare le elezioni in così poco tempo non è un problema, sono abituati. Il giorno delle elezioni tutto si trasforma in una velocissima catena di montaggio, mentre i camioncini passano per le strade a spiegare, dagli altoparlanti, dove e come votare, e i tassisti vanno a prendere le scatole con le schede elettorali e le portano al quartier generale per lo spoglio. Lo slogan “Per la ripresa economica, questa è la sola e unica via”, simile al “There is no alternative” di Margaret Thatcher, ha premiato la coalizione guidata da Abe. Domenica scorsa la coalizione che lo sostiene (Partito liberaldemocratico e il partito Komeito) ha raggiunto una maggioranza di oltre due terzi: 326 seggi su 475. Rispetto alla situazione precedente, il partito di Abe ha perso quattro seggi, conquistati invece dal Komeito – la recente formazione politica fondata dai membri della Soka Gakkai, uno dei movimenti religiosi più grandi in Giappone. In ogni caso, quello di domenica è stato un trionfo del centrodestra e del governo. Abe è stato coraggioso, certo, ma non avrebbe mai indetto le elezioni con un’opposizione minimamente più forte. Sapeva di vincere, bisognava andare a vedere come. Un astuto calcolo politico del premier giapponese, spiegato al Foglio da Stefano Carrer, corrispondente da Tokyo del Sole 24 Ore: “Il lieve calo del pil nel terzo trimestre ha fatto il gioco di Abe, consentendogli di presentarsi agli elettori impostando il voto come risposta-referendum alla seguente domanda: approvate o no che io vi abbia risparmiato per 18 mesi un aumento delle tasse già previsto in modo bipartisan? Più tasse o meno tasse? Così ha spiazzato un’opposizione che stava cominciando a ricompattarsi solo ora”, dice Carrer. In pratica un referendum sull’Abenomics, la teoria economica lanciata da Abe con il suo nome e con una ficcante metafora delle tre frecce, comprensibile e memorizzabile da tutti (la stoffa del leader carismatico si vede anche dalla sua capacità di comunicazione).
Il problema è che quella giapponese è una democrazia atipica, e l’alternanza dei partiti al governo è praticamente inesistente. L’opposizione desaparecida. Il Partito democratico, il più grande del centrosinistra, ha perso tutti i suoi leader, e alle elezioni di domenica si è assicurato solo 73 seggi, il dieci per cento della Dieta. Scriveva qualche giorno fa l’Economist che “dopo la sconfitta catastrofica dei democratici nel 2012, il partito ha fatto poco per ridisegnare se stesso dopo i tre pasticciati anni al potere. Si è aggrappato al suo leader, Banri Kaieda, che si è sottratto al compito di imporre un’unica piattaforma politica di partito”. Kaieda si è dimesso, dopo la terza disastrosa sconfitta di fila. I grandi leader se ne vanno perché sanno quand’è il momento di andar via: Shintaro Ishihara, ottantaduenne storico governatore di Tokyo poi passato alla politica nazionale, nelle elezioni di domenica non è stato eletto. Fu lui a creare nel 2012 la crisi delle isole Senkaku con la Cina, ed è famoso per le sue dichiarazioni spesso sopra le righe. Un leader, a suo modo. Il ritiro dalla politica di Ishihara ha fatto pensare, secondo molti commentatori di affari interni giapponesi, alla vera fine di un’epoca. Così come un nuovo inizio, in Giappone, è quello del Partito comunista. Per la prima volta nella storia ha vinto 21 seggi nella Dieta, ed è ora in grado di proporre delle leggi e di contare qualcosa – una rivoluzione, nella storia politica di un paese che il comunismo lo ha sempre combattuto. Ultima considerazione. Abe ha rafforzato il suo potere un po’ ovunque, tranne che a Okinawa, una prefettura in cui tutti e quattro i candidati del Partito liberaldemocratico sono stati sconfitti. Tecnicamente. Perché i cittadini di Okinawa hanno voluto dare fiducia agli outsider che si oppongono al piano di ricollocare la base militare americana di Futenma. Già il mese scorso alle elezioni locali era stato eletto governatore dell’isola Takeshi Onaga, il cui slogan elettorale era più o meno “fuori l’America dal Giappone”. Non fa bene ad Abe e nemmeno al governo di Tokyo irritare Washington in questo momento di rilancio internazionale del Giappone. Eppure, l’idea che l’isola che ospita la maggior parte dei 47 mila soldati americani di stanza in Giappone sia in mano agli antiamericanisti, non può che aver fatto sorridere il patriottico Abe, quello che sedeva da bambino sulle ginocchia del nonno Kishi.
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