Giorgio Napolitano è stato eletto presidente della Repubblica il 10 maggio 2006. Rieletto a fine mandato, il 20 aprile 2013

Natale in casa Napolitano

Stefano Di Michele

I preparativi per l’ultimo messaggio di fine anno. Il rimpianto della buona creanza. Ispirato da Eduardo e consigliato da Duddù, il presidente trova la via d’uscita.

Giorgiè, Giorgiè… scétate songh’ ’e sette e trentasette…”. Palazzo del Quirinale, 28 dicembre. La camera del presidente Napolitano è nella penombra. Donna Clio avanza, uno scialletto di lana sulle spalle e una tazza di caffè fumante in mano. Posa il caffè sul comò, apre le imposte. Il primo sole del mattino entra nella stanza. Torna al comò, prende il caffè e lo appoggia sul comodino. “Giorgiè, Giorgiè… scétate songh’ ’e sette e trentotto…”. Il presidente si passa la mano sul viso, apre gli occhi. “Ah, songh’ ’è sette e trentotto? Già si sono fatte le sette e trentotto! Clio, fa freddo fuori?”. “Hai voglia! Si gela”. “Non ho dormito bene, stanotte… Abbiamo mangiato pesante… Pure il capitone… A una certa età, te l’ho detto tante volte, ’o capitone fritto è pesante”. “E che c’entra? Quella è tradizione…”. “Poi Macaluso c’ha pure portato la cassata da Palermo… E ’a pastiera che ha mandato Duddù… ’O bicarbonato, dopo ’o caffè, ci vuole… Un bel bicchiere di bicarbonato… Lo sai, Clio, ho fatto un sogno che m’ha guastato ’o sonno… Curioso, non mi sono sognato che stavamo ancora al Quirinale? Mi sono sognato che lavoravo. Lavoravo al porto come scaricante… Salivo e scendevo co’ i sacchi sopra ’e spalle. Mi sono svegliato talmente stanco…. Guarda tu…”. “Giorgiè, sempre qua stiamo!”, replica secca donna Clio, sbattendo un cassetto. “Qua dove?”. “Qua al Quirinale!”. “’O vero? San Gennaro mio! Ti prometto, Clio, ti prometto è l’ultima volta, anno nuovo a casa nostra…”. “E speriamo… Perché, Giorgiè, so’ due anni che viviamo in mezzo agli scatoloni… Quando abbiamo fatto ’o presepe, in mezzo a tutta ’sta confusione, non abbiamo ritrovato né la statuetta del ricottaro né quella di Cicci Bacco! Tu ti sòsi, io intanto vado a cercare i Re Magi”. “Ah sì, che debbo scrivere il discorso di fine anno. L’ultimo, Clio, è una promessa, l’ultimo! Poi me metto ’o cappotto nucella e saluto tutti”. “E speriamo bene, fosse ’a Madonna!”.

 

Ore otto e trenta. Studio del presidente. Giorgio Napolitano è al telefono. “Sì, sì… Guarda, Emanuè, hai proprio ragione… No, non un minuto di più si può restare. Ma che scherziamo? Firmo questa legge di stabilità è poi… Ma figurati questi qui, una banda di malcreati… Mi dormono sullo scalone del Quirinale, ti dico! E mai un aiuto, sempre complicazioni, ognuno che vuole spuglià a ssan Giacchìno pe’ vvestì a ssant’Antuono… Ognuno bada solo ai fatti suoi… Dov’è che stai? A spasso sul ponte Marmorata? Stai già fuori da due ore? Copriti bene, non ti pigliare vento, che Clio mi dice che fa freddo… No, no, io non sono uscito… E guarda, fino a Capodanno non mette il naso fuori, che questi magari stanno accampati qui sotto… Pure se tengo sempre ’o cappotto nucella pronto vicino alla porta… La cassata? Sì grazie, io e Clio l’abbiamo molto apprezzata… Vedi, l’attenzione e i buoni sentimenti… Renzi invece c’ha mandato una scatola di tozzetti alle mandorle tosti, ma tosti, che non s’ammorbidivano manco se dentro il vin santo ce li affogavi per mezz’ora! Lasciamo stare! Ah, se per Capodanno vuoi fare un salto qui da noi… Viene Umberto Ranieri, magari un po’ di amici della Treccani, Peppino Gagliardi… Ci divertiamo, ma tranquillamente… Emanuè, io proprio vulesse truvà pace…”. “Giorgio, stai citando…”. “Eh, Emanuè, dici? Scusami, adesso provo a buttare giù questo messaggio… L’ultimo, lo giuro a te come l’ho giurato a Clio… Parole chiare, ci mancherebbe altro…”.

 

Ore nove. “Pasqua’, che si dice a Barletta? Sì, grazie, caro, grazie per gli auguri… Lascia perdere, non mi parlare della disfida vostra, che tu non c’hai idea di certe qui… Ah, ce n’hai idea, Casce’? Beh, del resto, tu eri notista… Tu che sei n’ommo letterato, che sei stato la nostra Matilde Serao quassù al Colle, come glielo aggio da dire a questi, che me ne vado davvero? Guarda, gli ho detto di tutto, malandrini e nullafacenti, sfaticati e mentitori, somari e perdigiorno, ma quelli niente… Io a dire loro – sempre citando, Pasqua’, è inutile che lo ripeto a te che sei n’ommo ’e lettere – mi volete lasciare tranquillo, che aggia fà ’o Presebbio della vita mia!, e quelli impuniti a rispondere: preside’, tu stisse facenno ’a Cupola ’e San Pietro? ’E vote se sentivano ’e strille fin’abbascio ’o palazzo… Se faccio una visita a Barletta? Sì, magari appena scappo da qui… Beato te che stai ’n coppa ’o mare! Ciao, Cascella bello, ciao”. Il presidente Napolitano comincia a scorrere i testi dei messaggi degli anni precedenti. Gli occhiali si appannano per la commozione. Entra donna Clio: “Tu me vuò vedè morta, a me!”. “Che succede?”. “Che succede? Che ecco come stiamo messi, in mezzo a tutti questi scatoloni: che ho ritrovato Gasparre e Baldassarre, ma di Melchiorre nessuna traccia!”. “Beato lui, che se n’è già andato… Io, piuttosto, non trovo le parole…”. “E ’e vulite ’a me, come disse donna Concetta? Giorgiè, trovale. E che siano definitive! Io intanto vado a trovare Melchiorre, vediamo a chi fa prima… Ma perché stai commosso?”. “Rileggevo i miei vecchi discorsi…”. “Ah, pensavo che stessi di nuovo in contatto con la Samantha che sta ’n mezzo alle stelle!”. Donna Clio esce, il presidente prende carta e penna e comincia a scrivere.

 

“Care italiane, cari italiani, un augurio affettuoso a tutti voi, uomini e donne d’Italia, che vivete e operate in patria e all’estero. Con queste parole, mi congedo da voi. Lo avevo già fatto nel 2012…”. Bussano alla porta. Un commesso si affaccia. Napolitano alza gli occhi dal foglio. “Signor presidente, scusi…”. Seccato, il capo dello stato appoggia la penna sulla scrivania: “Ma insomma, mi volete lasciare tranquillo? Aggia fà ’o Presebbio mio! Mo me facite rompere ’o Presebbio! Che c’è?”. “Signor presidente, c’è il presidente Renzi!”. “Accà?”. Il commesso annuisce. “Gesù Cristo m’è pate e sante me so’ pariente… Fatelo passare”. Entra il presidente del Consiglio. Napolitano lancia un’occhiata alla cravatta viola di Renzi. Con lo sguardo cerca un oggetto metallico a portata di mano. “Tu staie cà?”. “Buongiorno, presidente. Non so se ha visto la foto della mia scrivania, che via Twitter ho inviato stamattina…”. “Nun pratico. Matte’, svelto…”. “Carte, penne e pennarelli, e pure un tubetto di Supradyn, per far vedere agli italiani che non ci risparmiamo, che siamo al lavoro per le riforme anche durante le feste… A me e a Sensi…”. “Chi?”. “Nomfup…”. “Chiiiiiii?”. “Filippo…”. “Ah, ’o Cascella tuo! Meno male, pensavo fosse un altro tedesco… Embè?”. “C’era venuta un’idea: inviare via Twitter anche una foto della sua scrivania, presidente, da abbinare alla mia, per far vedere che insieme – esecutivo e presidenza della Repubblica – stiamo operando in stretta sintonia…”. “Matte’, ma che t’avessero dato na mazzata ncapa? La scrivania tua, la scrivania mia… Ma che vogliamo fare, l’intesa operativa di ‘Concetta Mobili’? Senti: Clio ha perso uno dei Re Magi, mi pare Melchiorre…”. “Se serve chiamiamo Delrio, che dà una mano a cercarlo…”. “Facciamo da soli, per carità… E io perdo continuamente il filo di questo discorso di fine d’anno che sto scrivendo, che ormai l’ufficio mio sembra diventato via Toledo nell’ora di punta”. “Ecco, presidente, a proposito del discorso, se lei potesse…”. “Matte’, lascia perdere, provvediamo da soli, tanto per Melchiorre quanto per il discorso.. Io il 31 a sera saluto gli italiani e vado… Tu parti tranquillo per Scandicci…”. “Pontassieve…”. “Quello che è”. “Guardi, presidente, che le Camere sono al lavoro…”. “Te lo ricordi quello che dissi a Montecitorio, il giorno che mi avete rieletto? Che ero costretto a stare lì perché non erano state date, cito… dove sta ’a carta?... ecco, cito, ‘soluzioni soddisfacenti’, che c’erano ‘contrapposizioni, lentezze, calcoli di convenienza, tatticismi e strumentalismi’, ‘sterilità’, ‘esiti minimalisti’, ‘tanti nulla di fatto’. E avevo detto che non era più possibile ‘alcuna autoindulgenza!’… Manco quando andavo a fare i comizi ai braccianti di Acerra! Erano più svegli loro di tutti voi, te lo assicuro. Matte’, quelli lì alle Camere stanno come i capitoni la notte di Natale: chi si nasconde sotto la credenza, quelli che si gghiutano e vanno a fernì dint’ ’a loggia abbascio! Famme il piacere!”. Renzi accenna un saluto col capo, esce. “Ggesù, ih che jurnata questa! Chìste sò nnùmmere! Hanno sempre da trasire int’i fatti d’uno”.

 

Napolitano suona. Entra il commesso. “Non ci sono per nessuno, fatemi il piacere”. Si fa cercare il numero di Ermanno Olmi. “Caro Ermanno, ti volevo ringraziare per le parole che hai speso sul Corriere per difendermi da Grillo… La malacreanza, tutta malacreanza, la scostumatezza… Mi fa piacere, certo, vediamoci quando vuoi… Ah, no, al Quirinale non credo, speriamo di no… Comunque, grazie davvero. Anche da parte di Clio. Guarda, a Natale abbiamo rivisto ‘L’albero degli zoccoli’, tutto in dialetto bergamasco… Capito bene bene non potrei dirlo, ma tieni conto che è appena venuto Renzi, e pure quello certe volte bisogna mettergli i sottotitoli… Ciao, Ermanno, un abbraccio forte, ancora grazie…”. Subito dopo fa il numero di Duddù La Capria. “Duddù caro, che piacere sentirti… Come vuoi che vada… Te lo ricordi il ‘Teatro degli Illusi’, quando eravamo giovani giù a Napoli? Beh, più o meno, pure oggi avimmo accuminciato a primma matina… Guarda, non vedo l’ora di andare, tante pizzeche ncopp’ ’a panza mi devo dare dalla mattina alla sera! C’è un traffico qui dentro, avimmo fatto ’o rione Sanità, Duddù… Mi sogno e mi piango certe serate, come quella piacevolissima dal professor Chiariello, quando abbiamo visto ’o film per il compleanno tuo, a parlare di Montale, con te e Francesco Rosi… O certe discussioni a ruota libera che da ragazzi facevamo a casa tua, a Palazzo Donn’Anna… Un’altra civiltà… Sì, stamattina è venuto pure Renzi, quello mi dorme sul pianerottolo… Mah, roba di falegnameria, mi pare… Sì, Duddù, lo sapete tutti, io sono stato il padre dei Presepi… venivano da me a chiedere consigli… mo’ viene lui e dice che dobbiamo fare il mobilificio… Quello ’o nemico della casa mia, è diventato, ’o nemico della casa mia! Ti volevo chiedere una cosa, Duddù carissimo. Tu ricordi quando ti mandai quel biglietto – aspetta, cito… dove sta ’a carta? – ecco, per chiederti, a te che sei n’ommo letterato… no, no come Cascella, di più, fin da quando stavamo insieme al Regio Liceo Ginnasio Umberto I… insomma, ti mandai un biglietto per chiederti di dare un’occhiata a un mio testo, per evitare… cito, eh… ‘la ruggine del linguaggio e dell’universo politico’. Ora, siccome devo fare questo discorso di fine anno… ah, l’ultimo, sicuro, dall’anno prossimo a Capri, in piazzetta, tanto mi porto con me il cappotto nocella… chello c’ ’o collo ’e pelliccia… chello c’ ’a fodera scozzese… chello c’ ’a martingala… chello, Duddù, chello c’ho… Insomma, mi dai un consiglio? Sì, va bbuò, pensaci… Ci sentiamo tra poco… Penzamme a nuie, Duddù…”.

 

[**Video_box_2**]Entra donna Clio. In mano ha una statuina rotta. “Ecco, Giorgiè, ecco: Melchiorre tiene a capoccia rotta! Ma si può andare avanti così? Quest’anno lo finiamo per Pasqua, ’o presepe! Vado a scaldare un po’ di colla… Sì, fa ancora freddo, hai voglia, si gela…”. “Me ne so accorto… E’ tutta la mattinata che non posso pigliare calimma, ’a porta sempre aperta, gente che esce e trase a tutte l’ore… Pure tu, copriti bene… Bive qualcosa di caldo, che ti fa bene. E mettiti gli stivali belli alti, come quelli che portava la Boldrini l’altro giorno, l’hai vista? Se si metteva ’o cappotto nucella stava una meraviglia. Ggesù, Ggesù, parava ’o corazziere!”. “Ma con questo discorso, a che punto stai?”. “Ah, guarda, ho avuto un’idea, ho chiesto consiglio a Duddù…”. “Giorgiè, diglielo chiaro che ce ne andiamo, mi raccomando! In diretta! Sennò l’anno prossimo qui dentro non ritrovo neanche il Bambinello!”. La signora Clio esce, il presidente Napolitano chiama Giuliano Amato. “Ciao, Giuliano… Pure tu che sei n’ommo letterato… Sì, sì, certo, pure di diritto… Ma no, tanto ho fatto… Sto scrivendo il discorso di fine anno… Emozionante? Macché, ormai l’abitudine… Lo so, lo so, il primo è bello, ma il nono… Lascio, lascio, beh, se la vedranno loro… Qui hanno decapitato pure Melchiorre… No, non era un candidato al Quirinale, era il Re Magio… Re Magio, macché Re di Maggio! No, non si era candidato al Quirinale… Per carità, Giuliano, qui serve pace, è venuto pure Renzi con una storia di scrivanie, voleva fotografare la mia… Che ggente! Ggesù, Ggesù… Io nun me ne faccio capace! Tu dici che voleva prendere le misure per qualcuno? Boh… Voi lì, belli tranquilli, alla Corte costituzionale… Lo so, lo so, il palazzo del Quirinale è più bello… Ma io… Beh, tu vedi… Dico, io voglio proprio rilassarmi… Ci sono tutti quei libri che mi hanno mandato dalla Treccani, manco ho potuto ancora aprirli… Ce n’è uno sulle città vesuviane e un altro su Federico II… E certo, lo Stupor Mundi… Tranquillo, a Renzi non gli ho detto niente, che quello sennò si monta la testa… Sì, un altro po’… Buon anno… Dov’è che vai per Capodanno? Se vuoi fare un salto qui, c’è pure Peppino Gagliardi… No, lui canta, non deve fare il presidente… Làssa fa ’a Madonna…”.

 

Napolitano fissa il foglio bianco davanti a sé. Allunga la mano verso il telefono, fa il numero di Macaluso. “Emanuè, ancora Giorgio. Mica stai ancora sul ponte? Ah, bene, perché mi dice Clio che fa parecchio freddo… Meglio che metti la sciarpa di lana, non solo quei foulard che ti piacciono… Lo so, eleganti… Ma poi, che vuoi l’eleganza, ormai… Tu stavi giù in Sicilia, a me invece viene sempre più forte la nostalgia di certi anni giù a Napoli… Dicono: i comunisti… Io ormai mi rimpiango pure Cacciapuoti… Sì, certo, hai proprio ragione, pure di Li Causi bisogna avere nostalgia… Ma ti pare modo di fare, questo qui? Poi ti devo raccontare una storia di scrivanie, da non credere… Lasciamo perdere, c’ho pure il Re Magio senza capoccia… Ne parliamo a Capodanno. Allora ti aspettiamo… Ma sì, se porti un po’ di arancini saranno graditi… Solo una cosa: per il discorso di fine anno, perché sia efficace, ho chiesto aiuto a Duddù. Ho fatto bene, mi pare… Tra poco dovrebbe richiamare…. Un abbraccio, ciao. Copriti, eh?”.

 

Squilla il telefono. E’ Duddù La Capria. “Caro, caro Duddù… Allora, che hai pensato… Ah, tu dici che glielo dovrei dire in versi, visto che in prosa non lo capiscono… E che mi consigli… Che gli faccio, Pascoli: ‘Oh! Se, rondini rondini, anch’io…’, figurati, quelli capaci che stanno con lo schioppo puntato… Ah, bella idea, Duddù, bella idea… E sì, pure in dialetto gliela dico… Beh, dovrebbero capire… E sì, che io proprio vulesse truva’ pace… Hai ragione, Duddù… ‘Senza sentere cchiu’ ’a ggente / ca te dice: io faccio… io dico, / senza sentere l’amico / ca te vene a cunziglia’. (…) / Senza scennere cchiu’ a patto / cu’ ’a coscienza e ’a dignità. / Senza leggere ’o giurnale / ’a notizia ’mpressiunante…’. Mi pare proprio una bellissima pensata. Proprio la situazione mia. Grazie, Duddù… E grazie pure a te, Eduardo, lassù… Anzi, sai che faccio? Chiamo Albertazzi, c’era pure lui quella sera di Montale, ricordi?, e mi faccio dare la giusta intonazione… E’ tanto che non sono più Tommaso Pignatelli – te lo ricordi, ero pure bravo come attore – e un po’ troppi anni che sono il presidente Giorgio Napolitano… E poi, ti sovviene quella frase di Eduardo, là in scena: ‘Ma io me ne vado! Vi lascio a tutti quanti, vi saluto!’. Pure questa ci metto! E così faccio! Ciao, Duddù, a presto!”. Il presidente va verso la porta, la apre, chiama: “Clio! Clio!”. Donna Clio: “Che c’è, che la colla si raffredda e Melchiorre resta senza testa…”. “Fosse l’unico… Lasciamo perdere. Ho trovato le parole adatte per l’ultimo dell’anno”. “Santa Lucia mia, accà te véco!”. “Aggia fà ’o Presebbio? E faccio ’o Presebbio! Ma a modo mio!”. “Ricordati: ci sta sempre quello che il Presepio non ci piace!”. “Ma quello è sempre il superuomo, il solito fesso più fesso della situazione. Pure a teatro!”. “Allora senti, Giorgiè: io a Melchiorre la capoccia nemmeno gliela riattacco, tanto l’anno prossimo il Presepio lo facciamo a casa nostra”. Il presidente Napolitano torna verso lo studio, poi lentamente si volta, osserva donna Clio e comincia a canticchiare a voce bassa: “Tu scendi dalle stelle, Clio bella, e io t’aggio purtato chest’ombrella!”.

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