Donne di Godrano (Palermo) convocate dai carabinieri dopo un omicidio, 1959

I processi infiniti

Massimo Bordin

Mentre di fronte alla Corte d’assise palermitana si va svolgendo il processo sulla trattativa, in Corte d’appello è alle prime battute il secondo grado del processo contro il generale Mori e il maggiore Obinu accusati, e assolti in primo grado, di non aver catturato, potendolo fare, Bernardo Provenzano.

Mentre di fronte alla Corte d’assise palermitana si va svolgendo il processo sulla trattativa, in Corte d’appello è alle prime battute il secondo grado del processo contro il generale Mori e il maggiore Obinu accusati, e assolti in primo grado, di non aver catturato, potendolo fare, Bernardo Provenzano. A Catania intanto è iniziato il dibattimento in Corte d’assise sull’omicidio di Luigi Ilardo, il confidente-pentito che ebbe un ruolo chiave nella vicenda della mancata cattura di Provenzano. Dunque il processo catanese ha un rapporto strettissimo con quello contro Mori e Obinu che a sua volta si incastra nei temi di accusa del processo sulla trattativa. Se la questione vi pare complicata, e sarebbe difficile darvi torto, una semplificazione possibile può essere l’immagine della matrioska, già usata su queste pagine e dunque meglio non farla lunga. Si può aggiungere che, arrivati a sentenza, i tre processi, potrebbero in teoria produrre esiti contraddittori fra loro e allora la matrioska imploderebbe, abbattuta non dall’assenza di una verità processuale storicamente accettabile, come purtroppo a volte succede, ma dalla compresenza di più verità processuali che nel contrapporsi finissero per elidersi, situazione paradossale non priva di un certo suo virtuosismo. Potrebbe bastare e già così si potrebbero rivalutare, con un filo di ironia, le petulanti telefonate di Nicola Mancino al povero Loris D’Ambrosio. Difficile negare che il problema posto dall’ex ministro, ovvero il coordinamento fra i diversi uffici giudiziari e le diverse inchieste, avesse un suo fondamento. Potrebbe bastare, ma naturalmente c’è di più. I tre processi citati si incastrano perfettamente perché due si ritrovano integralmente nell’accusa mossa al generale Mori nel processo contenitore, la matrioska più grande. Ma non c’è solo il Ros nella narrazione della “trattativa”. L’ambizione del grande processo è cogliere il senso dell’utilizzazione delle stragi del ’92-’93, sia da parte della mafia sia da parte della politica. E allora conviene porre attenzione al fatto che si stanno celebrando ancora dei processi su quelle stragi. A Caltanissetta sono in corso i processi “Capaci bis” e “Borsellino quater”. A questo punto l’immagine della matrioska funziona relativamente, forse più calzante potrebbe essere quella del big data e, con un salto a ritroso nel tempo che solo in uno spazio immateriale è possibile, proprio l’aggettivazione in latino posposta al tema dei processi ce lo fa intendere. “Capaci bis” ovviamente non è un processo di appello ma uno tutto nuovo, con nuovi imputati, sulla stessa strage per la quale un processo è già stato celebrato fino alla sentenza definitiva. Come può succedere una cosa del genere? Possono esserci diversi motivi, il più semplice dei quali è un nuovo pentito che aggiunge alle persone coinvolte nella strage un nuovo nome, una cosa del tipo “Ah, non ve lo aveva detto nessuno? Strano. Io ricordo perfettamente che a portare l’esplosivo c’era anche Tizio”. A quel punto si indaga Tizio e, se il gip acconsente, lo si processa per strage. Inevitabile. Il processo bis però potrebbe essere relativamente semplice. Si acquisisce la sentenza definitiva del processo già fatto, così che la corte abbia cognizione della vicenda, e ci si concentra su Tizio e sulla possibilità che vi abbia svolto un ruolo.

 

Ma non sempre, anzi quasi mai, va così. C’è un esempio molto indicativo che riguarda un’altra strage, quella di via dei Georgofili. A processo concluso se ne deve aprire un altro con un solo imputato, un mafioso di Brancaccio, tale Francesco Tagliavia, chiamato in causa dal nuovo pentito Gaspare Spatuzza. Tagliavia, già gravato da alcuni ergastoli per altre stragi, non ha grandi spazi di difesa e il processo potrebbe essere abbastanza lineare e rapido. E invece no, perché la strage fiorentina è temporalmente connessa alle vicende indagate per la cosiddetta trattativa e dunque il processo che ha per oggetto i rapporti fra Tagliavia e i fratelli Graviano, e la fondatezza delle accuse di Spatuzza, vede sfilare sul banco dei testimoni ex ministri e diversi altri personaggi che il quartiere Brancaccio non sanno nemmeno dov’è. A che pro? E’ semplice. In quel momento l’inchiesta palermitana sulla trattativa è in pieno svolgimento, in parallelo se ne sta occupando anche la commissione parlamentare Antimafia , anche a Caltanissetta si indaga sullo stesso tema e allora perché privarsi di una Corte d’assise già insediata per giudicare su un piccolo fotogramma di quella storia? Con la trattativa l’imputato non c’entra nulla? Vero, ma il contesto ha la sua importanza. Occorre lumeggiarlo, per usare un verbo che si trova solo in alcune sentenze, nei saggi del professor Giovanni Fiandaca e negli articoli di Marco Travaglio. Tutto ciò un po’ di confusione l’ha creata. In primo grado, nella requisitoria, la procura fiorentina si è dovuta pronunciare non solo su Tagliavia ma anche sulla trattativa. I pm hanno detto che per loro non c’era nulla di provato. Nella sentenza, sul punto, la corte ha detto il contrario. Tagliavia ha avuto l’ennesimo ergastolo, confermato in appello, ma recentemente annullato dalla Cassazione. Ci sarà un nuovo processo d’appello. Il processo Capaci-bis, che si sta svolgendo a Caltanissetta ha avuto grosso modo la stessa genesi. C’entra sempre il pentito Gaspare Spatuzza, che anche qui ha arricchito il numero dei personaggi implicati. Altri nove, compreso lui che ha scelto la strada del rito abbreviato insieme ad altri tre, stralciati dal processo principale, con cinque imputati, iniziato a maggio di quest’anno. Processo importante, ha assicurato il pm Domenico Gozzo, perché “a quindici anni dalla conclusione del primo processo, affronta gli stessi fatti con nuovi imputati e svela la vicenda del reperimento dell’esplosivo. Abbiamo voluto che il nostro lavoro fosse una casa di vetro e, come per il Borsellino quater, sono inserite nel processo tutte le altre indagini che abbiamo fatto in merito”.
Il reticolo dei dati si allarga e il processo bis ritorna sulla questione delle questioni: i mandanti esterni delle stragi. Provata che fosse una cosa del genere, chi più potrebbe stupirsi se i mafiosi, arrestati per le stragi che avevano concordato, avessero imposto almeno una trattativa per farla franca? Per la verità un esito del genere viene subito ritenuto improbabile. Proprio sulla faccenda dell’esplosivo, sulla cui provenienza erano state fatte le più complesse e mirabolanti ipotesi, il pentito Spatuzza propone una versione ultra minimalista. Nessun deposito di Gladio, nemmeno un complicato percorso dal medio oriente. Cosa nostra attinse alla pingue riserva dei pescatori di Santa Flavia-Porticello, che evidentemente per pescare non si limitano alle reti. Restavano però testimoni da risentire, magari avrebbero potuto aggiungere qualche nuovo elemento. Finora non è successo. Il pentito Santino Di Matteo, anzi, ha escluso la partecipazione di “entità esterne” nella fase esecutiva della strage. A Giovanni Brusca, in virtù della sua maggiore caratura di boss, la domanda è stata posta con uno spettro più ampio ma in modo molto diretto: “Cosa nostra decise e Cosa nostra fece?”. “Per me sì”, è stata la risposta. Con tanti saluti ai mandanti esterni. Ma non fa nulla, perché il processo avrà altri testimoni, basterà una mezza parola, una frase un po’ ambigua di qualche pentito per riproporne almeno l’ombra.

 

[**Video_box_2**]Quanto al processo Borsellino-quater, la vicenda è nota e ancora una volta il pentito Spatuzza è decisivo, in questo caso a sottrarre più che ad aggiungere. Il processo primigenio si affidò a un pentito sbagliato, un poveraccio messo in mezzo da indagini frettolose e interrogatori un po’ bruschi. Confessò, ma non c’entrando nulla parlò un po’ a casaccio e mise in mezzo mafiosi che a quell’attentato non parteciparono. Anni dopo si è pentito Spatuzza e ha rimesso le cose a posto, creando un certo imbarazzo perché fu proprio il pm Nino Di Matteo, allora a Caltanissetta, a sostenere in aula la assoluta attendibilità di Vincenzo Scarantino, il pentito farlocco. Era lì da poco tempo, sostiene Travaglio, Di Matteo non si era ancora ambientato ma oggi è la punta di diamante dei pm antimafia. Per la verità Di Matteo seguì il processo nel quale il malcapitato Scarantino ritrattò in due riprese la sua “confessione”, ma non ci fu verso. Anzi, nella sua requisitoria, Di Matteo sostenne che proprio quelle ritrattazioni erano chiarissimi indizi della importanza delle sue rivelazioni. Ora in procura sostengono che il finto pentito fu una raffinatissima operazione di depistaggio ordita da forze oscure e deviate che rimandano ai famosi mandanti esterni. Perché questo è il filo conduttore di tutti questi processi. Lo stesso processo sulla trattativa, il più azzardato e incomprensibile fra tutti, è una tessera che deve servire a comporre un mosaico nel quale il rapporto fra mafia e politica si confermi immutato nel tempo, almeno dallo sbarco degli americani fino ai nostri giorni.

 

Se ci si pensa un attimo non può sfuggire un paradosso evidente. L’antimafia degli Ingroia, degli Scarpinato, dei Teresi e dei Di Matteo finisce per erigere “un monumento più duraturo del bronzo” proprio alla mafia che, in un tempo in cui tutto è cambiato e sono caduti imperi nel mondo e grandi partiti in Italia, sarebbe rimasta immutabile nella sua capacità di controllo e di rapporto col mondo politico. Non c’è da stupirsi che qualche storico senta l’esigenza di prendere le distanze. Ma la ricerca della “entità” esterna è una esigenza insopprimibile degli inquirenti, come non bastassero le mille intersezioni fra politica, affari e mafie che quasi quotidianamente si verificano. Deve esserci il grande progetto unitario, il patto eterno di potere, possibilmente messo per iscritto sotto forma di papello, a tutto spiegare. Così le parole “Non può essere solo mafia”, pronunciate da Leoluca Orlando quando ancora non si era sciolta la nuvola di fumo dell’esplosione di Capaci, sono diventate la chiave di oltre vent’anni di indagini. I cui risultati ognuno vede. Quando il processo Borsellino-quater iniziò, nel marzo dell’anno scorso, fu presentato da Sky Tg 24 con il seguente redazionale: “Il nuovo processo sulla strage di via D’Amelio nasce dalla convinzione degli inquirenti che la strage non sia stata solo opera di Cosa nostra. Anche se non è stata individuata una prova di ciò capace di reggere il setaccio del dibattimento”. Esempio evidente di come una cronaca asciutta produca un effetto da teatro dell’assurdo. In questi casi la colpa non è del cronista. Del resto, se si cerca quello che il procuratore generale Scarpinato definisce “l’indicibile”, quand’anche lo si trovasse non ci sarebbe sentenza capace di metterlo nero su bianco. Il sofisma è perfetto e inattaccabile, condanna l’inquirente a una ricerca perennemente senza esito e il cittadino all’indignazione perpetua. E’ il trionfo dell’impotenza rancorosa.

 

Un risultato però tutto questo produce. L’inquisitore, vocato a questa terribile fatica di Sisifo, finisce per essere circonfuso da un’aura di eroismo, come chi, malgrado tutto e tutti, tiene accesa e porta una fiaccola. E sarebbe indelicato far notare al tedoforo che ai suoi lati, mentre corre, sono visibili a occhio nudo i mille traffici della regione siciliana, i mille peccati della cosiddetta “società civile” che pensa di emendarsi partecipando a qualche fiaccolata di sostegno e anche, naturalmente, i mille tentativi dei mafiosi di riorganizzarsi. Questi ultimi sono la prova che oggi la mafia è più debole che mai e potrebbe forse essere colpita nelle radici. Ma il solo pensarlo è, per i sacerdoti dell’indicibile, un sacrilegio. Per loro la mafia è più perenne del bronzo, non può perdere né tanto meno finire. Non è “una delle cose di questo mondo e dunque prima o poi finirà”. Giovanni Falcone, secondo i nuovi sacerdoti, si sbagliava nel suo disincantato e operoso empirismo. Quella meta non è raggiungibile e dunque la corsa del tedoforo è una corsa a ritroso. E infatti è appena iniziato a Firenze l’ultimo processo di questa serie. Riguarda una strage, quella del rapido 904 Roma-Parigi, avvenuta giusto trent’anni fa. Il processo che si fece negli anni 80 portò alla condanna all’ergastolo del capo mafia Pippo Calò e di alcuni malavitosi romani da lui incaricati dell’esecuzione materiale. Ora, trent’anni dopo, viene processato Totò Riina come mandante di Calò. La terza udienza del processo è fissata per il prossimo 13 gennaio. Verrà sentito come testimone Giovanni Brusca. Nella loro corsa all’indietro i tedofori incontrano sempre le stesse persone e gli fanno le stesse domande. Invece di Godot aspettano l’indicibile.

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