Il leader nordcoreano Kim Jung-Un

L'ossessione cinematografica nordcoreana e le sue star made in Usa

Luciano Capone

A nord del 38° parallelo non hanno preso bene l’esplosione del faccione del “Brillante compagno” Kim Jong-un nel film americano “The Interview"

Roma. A nord del 38° parallelo non hanno preso bene l’esplosione del faccione del “Brillante compagno” Kim Jong-un nel film americano “The Interview”, così come non avevano accolto di buon grado 10 anni fa “Team America”, il film d’animazione in cui l’allora presidente Kim Jong-il si trasformava in uno scarafaggio alieno. Al Caro leader non era piaciuto neppure “La morte può attendere” in cui James Bond viene catturato e torturato dai nordcoreani, forse anche perché la saga scritta da Ian Fleming, insieme a Rambo, era una delle sue preferite. Kim Jong-il possedeva una collezione sterminata di pellicole, era un fan di Liz Taylor e Sean Connery, ha scritto sue saggi sul cinema, è stato regista, produttore e attore in film che raccontano quanto egli sia bravo a fare i film. Insomma, nel paese dove da decenni mancano generi di prima necessità, è esistita una più o meno fiorente industria cinematografica.

 

Ovviamente nei film di Pyongyang, che concorrono alla mastodontica propaganda di stato, le parti si invertono, i buoni sono i nordcoreani e i cattivi gli americani. Ma come si trovano gli attori occidentali in un paese senza contatti con l’esterno? I più famosi sono dei disertori americani che in piena Guerra fredda attraversarono il confine che divide le due Coree. La storia di James Dresnok, per esempio,  è stata raccontata nel documentario del 2006 “Crossing the line” di Daniel Gordon e Nicholas Bonner. Dresnok era un giovane militare abbandonato dalla moglie: “Ero stufo del mio matrimonio, della vita militare, di tutto. C’era un solo posto dove andare”. E così il giorno di Ferragosto del ’62 attraversa un campo minato e si consegna ai nemici. Lì scopre che c’è un altro americano: “E tu chi diavolo sei?”. E’ Larry Abisher, un altro soldato che per motivi sconosciuti aveva passato il confine. Dopo di loro altri due passano dall’altro lato della cortina di ferro coreana, Jerry Parrish e Charles Jenkins. Ognuno scappa per motivi diversi e nessuno di loro pensa di trovare lì altri americani. Jenkins sente dire che la sua unità sta per essere spedita in Vietnam, ha paura, tracanna dieci birre e attraversa la Zona demilitarizzata. Per tutti l’impatto con quel regime orwelliano è durissimo, subiscono interrogatori, sono costretti otto ore al giorno per sette anni a imparare a memoria gli scritti del “Leader Supremo”. Il mondo non sa della loro esistenza, sono spariti nel nulla. Dopo quattro anni tentano la fuga cercando asilo in un’ambasciata, ma l’ambasciata è quella sovietica e i russi li riconsegnano al regime. Di fatto sono dei prigionieri, che il regime usa come icone propagandistiche, compaiono sulle copertine delle riviste per mostrare come l’ideologia e il prospero comunismo nordcoreano siano amati dagli stranieri. Ma la svolta nelle loro vite arriva con il cinema, diventano famosi facendo la parte dei cattivi imperialisti nei film propagandistici: in “Eroi senza nome”, una serie di film stile 007 sulla guerra di Corea, Jenkins è il malvagio Dr. Kelton, il capo della Spectre capitalista e Dresnok il cattivo colonnello Arthur. E’ solo grazie a questi film che nel 1996 in America scoprono della loro esistenza. Ma Parrish e Abisher sono morti giovani e Dresnok ha sposato le idee del regime, solo Jenkins vuole fuggire da quella prigione in cui era entrato dopo aver scolato qualche litro di birra. Riesce a trovare riparo in Giappone, grazie al fatto di essere stato obbligato a sposarsi con Hitomi, una donna giapponese rapita dal regime nordcoreano. L’odio comune nei confronti dei carcerieri si trasforma in amore e restituisce a entrambi la libertà. Hitomi viene liberata grazie all’intervento del Giappone e fa in modo che Jenkins possa raggiungerla, cosa che avviene due anni dopo, nel 2004. Oltre alla moglie c’è solo un’altra donna che Jenkins vuole vedere, è la madre Pattie Casper di 91 anni, a cui prima di partire militare in Corea del sud aveva detto che sarebbe tornato entro un anno. Ne sono passati quaranta: “Non pensavo che saresti tornato”.

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  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali