Redazione rel. corr.

Gli ottimati del New York Times annacquano l’elemento islamico della strage. Non tutti sono Charlie Hebdo.

New York. Il direttore del New York Times, Dean Baquet, si è consultato con i caporedattori, ha sentito le ragioni di quelli che volevano ripubblicare le vignette e di quelli che, più prudentemente, preferivano dichiarare solidarietà a Charlie Hebdo senza l’ingombro delle immagini, ha messo sulla bilancia gli argomenti degli uni e degli altri, ha cambiato idea un paio di volte e alla fine ha deciso di non pubblicare: “Seguiamo da tempo uno standard che fin qui si è dimostrato efficace: c’è un confine fra l’insulto gratuito e la satira. La maggior parte delle vignette sono insulto gratuito”. Baquet non voleva offendere i lettori, specialmente quelli musulmani, ha detto. Secondo la stessa logica, l’Associated Press ha rimosso le vignette dal suo archivio fotografico, e quando qualcuno ha fatto notare che la fotografia del crocifisso immerso nell’urina dell’artista Andres Serrano era ancora disponibile, l’agenzia ha provveduto a eliminare quella e altre immagini offensive.

 

La scelta del New York Times è finita nel tritacarne della critica (il professore di giornalismo Jeff Jarvis è stato chiaro: “Se siete il giornale dei record, se siete il più nobile esemplare del giornalismo americano, se vi aspettate che gli altri stiano dalla parte dei vostri giornalisti che sono minacciati, se volete che il vostro pubblico si faccia un’opinione, allora dannazione state con Charlie Hebdo e informate i vostri lettori. Pubblicate le vignette”) ma nel racconto del massacro e del suo contesto il Times è incappato in un caso di autocensura anche più significativo, benché più sottile del dilemma della ripubblicazione delle vignette. Il caso riguarda il racconto di Sigolène Vinson, una vignettista freelance che mercoledì mattina aveva deciso di partecipare alla riunione di redazione, come di tanto in tanto le capitava di fare. Vinson è una dei sopravvissuti alla furia islamista dei fratelli Kouachi e inizialmente il Times ha riportato le parole con cui uno dei terroristi ha deciso di risparmiarla: “Non ti uccido perché sei una donna e noi non uccidiamo le donne, ma tu devi convertirti all’islam, leggere il Corano e coprirti”. Poco dopo la citazione è stata sostituita sul sito del New York Times da una versione più generica: “Non ti uccido, sei una donna. Ma pensa a quello che stai facendo. Non è giusto”. Sono scomparsi i riferimenti alla conversione, al Corano, al capo coperto, il proselitismo islamico degli attentatori è stato immediatamente depurato dagli elementi religiosi, con il risultato di distanziare l’atto di violenza dal suo movente più profondo. Si è persa l’idea, esplicitata dall’editorialista Stephen Carter, che per i terroristi “le loro vittime non sono innocenti”, ma colpevoli in quanto infedeli, dunque destinate a convertirsi o a morire.

 

[**Video_box_2**]E’ una dinamica già vista. Anni fa Paul Marshall, analista dell’Hudson Institute, ha spiegato nel libro “Blind Spots” come, a suon di omissioni e annacquamenti, i giornalisti occidentali hanno progressivamente trasformato la guerra “fondamentalmente religiosa” di Bin Laden (lo ha detto lui dopo l’11 settembre) in una più generale lotta contro l’occidente, una vendetta contro l’oppressione imperialista americana che con lo scontro confessionale ha soltanto una vaga parentela. Allo stesso modo, il New York Times depotenzia la carica religiosa degli stragisti parigini, che non dicono alle loro vittime di leggere il Corano e di convertirsi all’islam. “Immaginiamo di essere un caporedattore del New York Times. Perché cancellare il racconto di questa donna alla quale è stato detto di convertirsi dietro la minaccia di un fucile?”, si è chiesto il sito Daily Caller, il primo ad avere notato la correzione. “E’ semplice. Perché siamo uno degli ottimati morali, etici e intellettuali e non vogliamo che sia andata così”. Della cerchia degli ottimati che in nome del religiosamente corretto rifugge qualunque possibile controversia fa parte anche la maggior parte dei rettori e professori americani. Il columnist David Brooks lo ha detto in modo chiaro: “I giornalisti di Charlie Hebdo sono giustamente innalzati come martiri della libertà di espressione, ma diciamocelo: se avessero tentato di pubblicare il loro giornale satirico in qualunque campus americano negli ultimi due decenni non sarebbero durati trenta secondi. Studenti e professori li avrebbero accusati di incitamento all’odio. L’amministrazione avrebbe tagliato loro i fondi e li avrebbe fatti chiudere”. Charlie Hebdo non sarebbe durato trenta secondi  nelle università americane, e il proselitismo dei fanatici musulmani è durato poco di più sul sito del New York Times, la coscienza degli ottimati d’America.

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