I mandanti in piazza
Chérif e Said Kouachi non erano terroristi e non è terrorismo la strage della redazione di Charlie Hebdo. A Parigi c’è la sharia e il consenso pubblico di chi manifesta contro i “blasfemi”.
Roma. Chérif e Said Kouachi non erano terroristi e non è terrorismo la strage della redazione di Charlie Hebdo. Non è una provocazione: se non si affronta questo nodo tutt’altro che formale, non si inquadrano i fatti e men che meno si imposta una reazione efficace. I Kouachi hanno eseguito una condanna a morte contro i “blasfemi” redattori di Charlie Hebdo non solo chiesta a gran voce da centinaia di migliaia di manifestanti musulmani in tutte le città dell’islam dal 2006 in poi, ma anche prevista dai codici penali di non pochi stati islamici. Per questo, non solo per la sua atrocità, questa strage segna un salto di qualità nella vicenda jihadista. Il massacro cerca e trova consenso in una parte minoritaria, ma consistente, della umma, quantomeno tra le centinaia di migliaia di manifestanti scesi nelle piazze di tutte le città musulmane nel 2006 per chiedere la morte degli autori delle vignette del danese Jyllands-Posten, ripubblicate da Charlie Hebdo. Manifestazioni ovunque cruente e non solo a parole. A Gaza, il jihad islamico e altri gruppi minacciarono di “trasformare in bersagli” i francesi, danesi e norvegesi presenti nella Striscia. Ovunque ci furono attacchi e incendi di ambasciate occidentali e molti morti. In Nigeria, Boko Haram fa i suoi primi passi e promuove enormi manifestazioni, bruciando alcune chiese e trucidando decine di cristiani.
Ma è il contesto a essere ancora più inquietante: una blasfemia contro il Profeta oggi è punita con condanne a morte in Pakistan, Iran, Kuwait, dai talebani e nel Califfato. In altri paesi è punito con l’ergastolo, o lunghe pene detentive e durissime punizioni corporali. Inoltre, poiché il blasfemo spesso è dichiarato “apostata”, è punito con la morte in ben 10 paesi musulmani – cosa dimenticata in quasi tutti i commenti dei media occidentali. Asia Bibi, quattro anni fa, è stata condannata a morte dal tribunale di Nankana, in Pakistan, proprio perché – falsamente – accusata di avere pronunciato parole blasfeme contro il Profeta durante una lite con alcune donne vicino a un pozzo d’acqua. C’è una sottovalutazione colpevole da parte dell’occidente non solo di un caso umano disperato (le sue condizioni di detenzione sono miserevoli), ma anche di un nodo shariatico che dovrebbe essere discriminante – ma non lo è – nei rapporti tra il Pakistan e l’occidente, tra islam e occidente. Dunque, per un jihadista e per molti musulmani e stati islamici, uccidere un blasfemo (come i redattori di Charlie Hebdo) non è gesto di terrorismo, ma significa applicare la sharia più classica, in vigore anche in paesi alleati dell’occidente.
E’ eloquente la coincidenza tra la strage di “blasfemi” di Charlie Hebdo e la notizia delle prime 50 frustate (sulle mille comminate) inflitte in pubblico davanti alla moschea al Jafali di Gedda, in Arabia Saudita, al blogger Raif Badawi, condannato a dieci anni di reclusione, per avere postato “frasi irriverenti nei confronti del Profeta”. Re Abdullah, alleato “moderato”, dell’occidente contro il jihadismo, ha rifiutato la grazia chiesta da innumerevoli petizioni.
[**Video_box_2**]Le regole omogenee della umma
Sbaglia dunque chi pensa che la strage di Charlie Hebdo abbia lo scopo precipuo di incutere terrore nelle città occidentali (obiettivo esplicito di tutti gli altri attentati precedenti in occidente, dalle Twin Towers a Atocha sino a Sydney). Il suo fine è diverso: dimostrare alla umma che i jihadisti applicano con determinazione la sharia e la pena di morte per i blasfemi chiesta da centinaia di migliaia di musulmani. Proprio la raccolta del consenso da parte dello Stato islamico da mesi caratterizza l’abnorme evoluzione del fenomeno jihadista. Sviluppo che erroneamente molti misurano solo sul parametro di un movimento che “si è fatto stato”, che è un dato preoccupante, ma solo quantitativo. Il Califfato di al Baghdadi ha fatto compiere al jihadismo un salto qualitativo, cercando – e ottenendo – quel “consenso”, sia pure minoritario, sia pure intrecciato col più feroce autoritarismo, che è caratteristica principe dei moderni stati autoritari: lo Stato islamico applica l’identica sharia che vige in Arabia Saudita e in molti paesi islamici, solo con più ferocia e vigore. E non si pensi che la schiavitù delle bimbe cristiane e yazide desti scandalo in tutta la umma: è prevista e regolamentata non solo dalla sharia, ma anche da molti versetti del Corano. Ed è praticata in tutte le monarchie del Golfo.
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