Il venerdì spaventato, ambiguo e complottista delle moschee moderate
Spaventati dalle implicazioni di un atto di guerra avvenuto nel cuore di Parigi, i musulmani moderati italiani, etichetta che nel politicamente corretto mediatico dovrebbe bastare per dividere i buoni dai cattivi hanno reagito lentamente e con le solite ambiguità.
Milano. Spaventati dalle implicazioni di un atto di guerra avvenuto nel cuore di Parigi, i musulmani moderati italiani, etichetta che nel politicamente corretto mediatico dovrebbe bastare per dividere i buoni dai cattivi – quelli che possono farci molto male da quelli che, seppur rinchiusi dietro una rigidità dogmatica per loro inconfutabile, vogliono vivere in pace con la società italiana e fare un proselitismo discreto – hanno reagito lentamente e con le solite ambiguità. A Milano si sono dati appuntamento per una manifestazione oggi, in piazza Duomo, contando sull’appoggio di sigle cattoliche e ong varie. Con un doppio obiettivo: esplicitare la loro avversione al terrorismo compiuto nel nome dell’islam, ma soprattutto, come è stato detto alla fine del sermone nella moschea-capannone di Cascina Gobba, alla periferia di Milano, per evitare che si inneschi una campagna islamofobica. Nessuno di loro, però, scenderà in piazza, come hanno fatto alcuni musulmani francesi e alcuni italiani (gli ultimi lo hanno fatto per volontà individuale e non comunitaria), con l’immagine simbolica “Je suis Charlie”.
Come era auspicabile e anche prevedibile, nel sermone del primo venerdì dopo la strage di Parigi in tutte le moschee milanesi, è stato condannato l’attentato. “Dobbiamo perseguire il terrorismo per difendere noi stessi, la nostra religione e le nuove generazioni”, ha detto l’imam dell’associazione islamica di Milano, diretta dall’algerino Abdullah Tchina, molto attiva nel dialogo ecumenico. Il terrorismo è stato condannato anche al PalaSharp, riferimento anche per i seguaci della ex moschea di viale Jenner, già crocevia di mujaheddin e di jihadisti, dove è stata pronunciata la seguente frase: “Quando viviamo in un paese pacifico e facciamo un patto con la sua gente, come possiamo attaccarla e ucciderla?”. Anche se poi, sia in forma privata sia sui social network, quelli che vengono definiti moderati hanno sposato le teorie complottiste di Beppe Grillo, facendo leva sul fattore-indizio delle carte d’identità lasciate dai terroristi a bordo dell’auto abbandonata. Per gli amanti della dietrologia – che per i musulmani oggi è un tipico mezzo di autodifesa – c’è sempre qualcosa che non quadra. Da oggi, per molti giorni a venire, comincerà la solita serie di riunioni con i cattolici e i protagonisti del dialogo ecumenico, per cercare di mettersi al riparo dall’aspra diffidenza nei confronti della comunità musulmana, simile a quella provocata in tutto l’occidente dall’abbattimento delle Torri gemelle. “Cosa dobbiamo fare? Ce lo dica lei, noi siamo disposti a fare qualsiasi cosa per dimostrare la nostre buone intenzioni”, dice al Foglio Mohammed Asfa, dirigente di un’altra moschea considerata moderata, la Casa della cultura islamica, che sottolinea: “Noi ci impegniamo tutti i giorni in una campagna di prevenzione della radicalizzazione nelle nuove generazioni, ma nessuno ci ascolta”.
[**Video_box_2**]Lamentela che ha più di un punto di verità storica: negli anni Duemila, nelle moschee italiane c’è stato un aspro conflitto interno fra ortodossi ed esponenti cosiddetti “riformisti”, che cercavano un varco per interpretazioni aperte a una nuova esegesi del Corano. Ora invece nessuno ci prova più. E chi vorrebbe dissentire preferisce tacere, o non far trapelare pubblicamente i propri dubbi. “Non è giusto che la colpa di quell’attentato ricada su tutti i musulmani, sempre che gli autori lo siano”, dicono e ribadiscono tutti gli imam o dirigenti di centri culturali islamici interpellati dal Foglio, che pure hanno sempre tenuto le porte aperte agli italiani. Pochissimi, però, come ha chiesto lo scrittore iracheno Younis Tawfik – che ha tentato, invano, per mesi, di far uscire allo scoperto la comunità islamica piemontese perché prendesse posizioni nette contro l’Is – hanno accettato di scendere in piazza per gridare “Je suis Charlie”. Come ha fatto lui a Torino, due giorni fa. “La satira deve essere libera come ogni pensiero, anche se è offensiva, va rispettata – spiega con voce concitata – in nome della libertà universale e di espressione”. Invece non accade “per colpa di un islam analfabeta”, a suo dire, “che non prende in considerazione un’esegesi del Corano che tenti di riconciliare ragione e fede”.
Il Foglio sportivo - in corpore sano