Oltre la piazza
Non c’è nulla di più simbolicamente possente della grande marcia di Parigi. L’Europa è la patria dell’emozione, ma il cuore dolente cozza contro la fredda determinazione del jihad.
Milano. “Noi siamo un popolo”, titola Libération pubblicando un’immagine della piazza di Parigi di domenica, potente e silenziosa, con gli applausi e gli elicotteri e la Marsigliese a fare da colonna sonora, i colori della Francia come sfondo, la Marianna insanguinata issata tra la folla, i leader di mezzo mondo in prima fila, un G40 in marcia, stretto stretto, per manifestare assieme a due milioni di persone contro il terrorismo che ha straziato la redazione di Charlie Hebdo e tutta la Francia. Non c’è nulla di più simbolicamente possente, nell’immaginario collettivo che vuole reagire ai giorni del terrore, esecuzioni e ostaggi, della grande marcia di Parigi, siamo tutti Charlie, siamo tutti uniti, combatteremo insieme quella minaccia che amiamo pensare sempre come lontana e che invece è vicinissima. Noi siamo un popolo, e vi sfidiamo, terroristi: “We are not afraid”, non ci sconfiggerete.
L’Europa è la patria dell’emozione (e sulle piazze la Francia non ha rivali, da secoli), ha la capacità di addormentarsi disunita e distratta e di risvegliarsi con gli occhi lucidi e il cuore sanguinante da usare come scudi di fronte a qualsiasi minaccia: l’11 gennaio è diventato, scrive il Monde, una giornata fondatrice della Repubblica francese. Poi però l’Europa si addormenta e si distrae di nuovo, perché lo sforzo della tolleranza e delle distinzioni è faticoso, e lascia stanchi, inebetiti. I terroristi invece non dormono mai. L’emozione calda dell’Europa cozza contro la fredda calma dei jihadisti che pianificano attentati per mesi, per anni anche, trovano i finanziamenti e le armi, le nascondono, studiano le mappe e gli obiettivi, calcolano i tempi, controllano le vie di fuga, percorrono le strade della strage, fanno sopralluoghi, preparano filmati da pubblicare postumi, e infine agiscono. Si coordinano nelle moschee – “Le moschee sono piene di uomini vigorosi, com’è che con queste persone non riusciamo a difendere l’islam?”, ha detto Amedy Coulibaly, l’attentatore dell’épicerie ebraica – e nei penitenziari – anzi, nei penitenziari si incattiviscono e si radicalizzano – e poi, con quella pazienza strategica che i leader e l’opinione pubblica occidentali perdono con il trascorrere del tempo e che invece tra i terroristi resta forte e inalterata, mettono a punto i loro attacchi.
[**Video_box_2**]Il tempo ci distrae, è il motivo per cui gli stragisti di Parigi erano noti e conosciuti e condannati eppure non più sotto sorveglianza, perché nel frattempo noi abbiamo avuto modo di indignarci sconsideratamente – e di dare Pulitzer a chi ha denunciato l’obbrobrio – per il grande fratello di stato, la sorveglianza dell’Nsa: sono tutti spioni, gli americani più di tutti, ma anche i francesi e i tedeschi, pensano di poter origliare tutto, come si permettono? Così, interrogandoci – flagellandoci – sui nostri metodi, sugli origliamenti di massa, abbiamo smesso di applicarli, quei metodi, lasciando che le maglie del controllo si allargassero mentre quelle del jihad si stringevano – e gli islamisti non hanno fatto nulla per farci pensare che la minaccia fosse diminuita, anzi, il loro scopo è farci vivere nella paura.
Ora in Francia si parla di un Patriot Act, e già la definizione risveglia tic ideologici irreversibili, fare come Bush, siamo pazzi?, ma poco cambia della strategia nei confronti dello Stato islamico in Siria e in Iraq – in Siria, laddove tutto è cominciato, come scrive il Wall Street Journal: la minaccia di oggi “si salda con l’abdicazione americana nella guerra civile in Siria, che è diventata la Grand Central del jihad globale”.
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