Giorgio Napolitano lascia il Quirinale

La lezione di Napolitano ai mozzorecchi della sinistra

Claudio Cerasa

Così l'ormai ex presidente della Repubblica ha costretto la classe dirigente della sinistra italiana a fare i conti con tre concetti chiave: giustizialismo, questione morale, populismo giudiziario.

Ci sono molte scene da cui un bravo regista potrebbe partire per raccontare in modo compiuto il senso scenico dei nove anni trascorsi al Quirinale da Giorgio Napolitano. La crisi del 2011. Il rapporto con Berlusconi. La storia di Monti. L’ultra presidenzialismo. La grande coalizione. Renzi. Letta. E così via. Nel riavvolgere il nastro, però, non si può non notare che esiste un dettaglio particolare che ha generato un cambiamento decisivo nel comportamento e nella natura di una precisa realtà politica del nostro paese: il centrosinistra. E quel dettaglio riguarda il modo anche violento con cui Giorgio Napolitano ha costretto la classe dirigente della sinistra italiana a fare i conti con tre concetti chiave: giustizialismo, questione morale, populismo giudiziario.

 

Il dato storico è inequivocabile: all’inizio del mandato di Giorgio Napolitano, ai tempi di Romano Prodi, di Antonio Di Pietro, e anche ai tempi di Walter Veltroni e degli apparentamenti vari con l’Italia dei valori e delle manette, il profilo del centrosinistra era perfettamente sovrapponibile con il profilo del partito delle procure. Con il passare del tempo, e con il passare dei leader, il profilo è cambiato: la sinistra, seppure con cautela, ha cominciato a ricordarsi che la sinistra non garantista è più simile alla vecchia destra fascista che alla nuova sinistra riformista, e ha iniziato a cambiare approccio. E ha cominciato a farlo non per volontà personale, o per un’improvvisa illuminazione caduta dal cielo, ma ha cominciato a farlo perché a un certo punto è stata costretta a scegliere da che parte stare. Di qua o di là? Con le garanzie o con le manette? Con la politica o con le procure? Con Montesquieu, e la separazione dei poteri, o contro Montesquieu? E’ successo tutto non per caso ma in una fase storica precisa, e la maturazione di questo processo ha una data definita: giugno 2012, quando, tra le tante persone indagate dalla procura di Palermo nell’ambito della famosa inchiesta sulla trattativa stato-mafia, finisce, con l’accusa di falsa testimonianza, l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino; e quando, pochi giorni dopo, dalla procura di Palermo filtra attraverso i giornali una notizia clamorosa: tra le intercettazioni che riguardano Mancino ci sono anche conversazioni che riguardano direttamente il capo dello stato.

 

Succede tutto in quei giorni. Napolitano passa all’attacco. Considera quelle intercettazioni lesive di prerogative attribuitegli dalla Costituzione. Si sente vittima nel suo intimo di un attacco politico. Solleva il conflitto di attribuzione dinanzi alla Corte costituzionale nei confronti della procura – “per le decisioni assunte sulle intercettazioni di conversazioni telefoniche che lo vedono come interlocutore”. E sceglie di schierarsi apertamente: non solo contro una procura particolarmente attiva ma contro un blocco populistico giudiziario e mediatico – con il quale la sinistra in passato aveva mostrato buone complicità – specializzato nel trasformare i magistrati in supereroi portatori di una certa idea di Bene e di Verità, e non solo di legalità. La sinistra si trova così a fare i conti, in un modo che non aveva mai sperimentato prima, con un importante esponente del suo universo culturale che rivolge alla magistratura accuse di parzialità. Deve decidere da che parte stare. E sceglie in un modo preciso. Sceglie di stare dalla parte delle garanzie, dalla parte del presidente. Sceglie di dare un calcio nel sedere ad Antonio Ingroia e compagnia, sia per le questioni giudiziarie sia per le questioni politiche, e capisce che osservare l’azione della magistratura anche con occhio critico non è un oltraggio alla morale ma è un diritto, e forse un dovere, praticamente naturale.

 

[**Video_box_2**]Molti elettori sono naturalmente spiazzati. Alcuni si rifugiano nel grillismo. Altri si rifugiano nell’astensionismo. Altri, forse la maggioranza, semplicemente si rallegrano. Ma da un certo punto di vista il primo convinto principio di sinistra garantista, disposta a regalare al populismo a cinque stelle le armi spuntate e scariche della questione morale, nasce anche così. C’è chi dice che grazie a Napolitano, in silenzio, il Pd ha rottamato, per così dire, un tratto preciso del berlinguerismo. Forse è un’esagerazione. Ma di certo non è un caso se il presidente che ha costretto la sinistra a fare i conti con il moralismo è lo stesso politico che nel 1981, dopo la famosa intervista di Enrico Berlinguer a Eugenio Scalfari, chiese al suo partito, mettendolo nero su bianco sull’Unità, di non prestare il fianco ad “atteggiamenti di pura denuncia, stati d’animo pessimistici e finanche forme di smarrimento”. Anche grazie a Napolitano è nata probabilmente una nuova sinistra. E per girare un buon film sul senso politico dei nove anni dell’ex capo dello stato, e sul suo rapporto con la sinistra, un buon regista dovrebbe cominciare proprio da qui.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.