L'armonia ritrovata di Giorgio N.
Il giorno del trasloco tra ricordi che non ti aspetteresti e nel giudizio amicale di quelli di sempre. Autobiografia degli ottanta, con il Bel Marinaio di Melville alla mano e l’incubo del capitano Vere nel vascello del Quirinale.
Cala, con leggerezza di sospiro, lassù sul Torrino, il vessillo presidenziale. Suona marziale la fanfara, giù nel cortile. Lacrimano persino alcuni funzionari – tutto un appannarsi di lenti, di occhiali che scivolano dal naso. Ogni onore adesso è reso. Ora la storia è davvero conclusa – si conclude, la storia, quando ci si eleva ad emeriti. Nove anni – e nove, ognuno giura, non saranno mai più, per nessuno mai più. I giorni “dei tanti con i quali ho combattuto buone battaglie e sostenuto cause sbagliate, e cercato via via di correggere errori, di esplorare strade nuove” – scrisse il presidente, che ancora presidente non era, dieci anni fa. E narrava di nipoti, di figli, di bambini, di affetti privati, “nella mia pervicace monogamia”. Erano ottanta esatti, allora, gli anni di Giorgio Napolitano, quando dava alle stampe la sua autobiografia che pensava definitiva, con un titolo senza volo, senza enfasi, qualcosa che più sottraeva anziché invogliare (“Dal Pci al socialismo europeo”). “E non ho cessato di sentirmi legato alla politica. Per l’anziano, tuttavia, è bene non prendere alla lettera il pur sapiente precetto di Plutarco: ‘L’importante è fare attività politica, non averla fatta’…”. Dieci anni dopo, e dopo nove tumultuosi di presidenza, quell’autobiografia è da riscrivere: ciò che era essenziale ora è mutato in poco più che postilla – e sul desiderio eduardiano di pace e riposo del già anziano ex dirigente comunista, prevalse (prevale tuttora, annotano già le vispe cronache dei giornali) il precetto di Plutarco.
Come sono stati, questi anni di Napolitano al Quirinale? Di gloria, e di tormento. Di inabissamenti, e di inaspettati innalzamenti. Di applausi, e di ripetute comparse in scena dei “martelli di ferro sodo” dati sul grugno, di brechtiana evocazione. Chi è stato, infine, Giorgio Napolitano – tra quelli che come re lo elogiavano, e quelli che come monarca lo dileggiavano? Non tra le stellari cafonate, non tra le schizofreniche titolazioni (l’esemplare servitore delle istituzioni ieri, il golpista oggi), non sulla rugosa corda insaponata e ostentata della società (in)civile, va forse cercata la metafora più calzante. Forse in qualcosa di molto precedente, qualcosa di quasi settant’anni fa – una lettura che il presidente ha a volte rievocato. Come dice il suo amico Duddù La Capria – che allora, settant’anni fa, già c’era, e del poco più che ventenne Giorgio Napolitano era amico, e oggi ancora c’è, e amico continua a essere: “Quando uno invecchia i ricordi della prima giovinezza sono i più vivi nella mente. Tutto quello che viene dopo appare meno vivo e ammantato di luce romantica”. In quella Napoli magica e miserabile del Dopoguerra (costeggiava quasi ancora “La pelle” del suo amico Curzio Malaparte), leggeva e rileggeva, il giovane Napolitano, un racconto (tra i tanti, ma questo in seguito espressamente citò) di Herman Melville: “Billy Budd”.
Racconto postumo, racconto in parte incompiuto – perciò racconto perfetto, che tutto può comprendere: forse pure l’epilogo e durezza e orgoglio di questa lunghissima presidenza. E’ questo Billy Budd un marinaio, “gabbiere di parrocchetto”, imbarcato sulla nave “Indomitable”, oppure “Bellipotent”. Bello – “Bel Marinaio”, viene ripetuto sempre, con gioco ambiguo, da Melville – ottimo, saggio, ragionava con calma, e tutti lo presero a benvolere, “lo presero in simpatia come i calabroni la melassa”, tranne il maestro d’armi John Claggart, un ganzo irritante e superficiale – che ossessivamente lo perseguita, che costantemente lo molesta, che ingiustamente lo accusa (di ammutinamento) – così che un giorno, senza volerlo, Billy Budd lo uccide con un pugno. Lui, la vittima, si ritrova colpevole – anche se ognuno pensa che sia, nella sostanza, innocente. E il capitano, “lo stellato Vere”, che sa e non vorrebbe, costretto dalla disciplina deve far impiccare il “Bel Marinaio”. Ecco allora: il presidente Napolitano degli anni burrascosi che ha dovuto attraversare è stato più Billy Budd, o a volte, nell’esercizio dei suoi poteri, è stato costretto a scegliere come il capitano Vere ciò che forse liberamente non avrebbe scelto? “E’ un libro sulla giustizia e sull’innocenza”, spiega Duddù, che in quella Napoli di macerie e sogni, faceva conoscere ai suoi amici la buona narrativa d’Oltreoceano, fino ad allora congelata dalla stupidità fascista, “nel nostro gruppo napoletano il grande esploratore della letteratura americana contemporanea era La Capria, che si esercitava nel tradurre William Saroyan” (così rievocò Napolitano).
Forse, in questi anni al Quirinale, pressato dai giorni e dagli eventi e dalle persone, il presidente è stato entrambe le cose: equilibrato e saggio Billy Budd, e insieme capitano Vere col suo senso (doloroso, a volte incomprensibile, spesso inevitabile) del dovere: il governo delle istituzioni simile a quello della nave inglese di fine Settecento. E ovviamente, per i suoi nemici – i tentativi innumerevoli, spesso volgari, di “mascariare” la presidenza, di trascinarla nel gorgo, tra il limo e l’indicibile, tra assassini e felloni – non poteva essere altro che il prepotente maestro d’armi. E’ stato faticoso, per Napolitano, insistere, resistere, persistere. Si sarà sentito Billy Budd, più volte? O più volte il capitano stellato Vere?
Il contesto. Come al solito, conta il contesto. “Lui ha fatto il presidente in un periodo di crisi della politica, in un momento in cui le forze politiche erano tutte sfasciate”, analizza il suo amico Emanuele Macaluso. La crisi del centrosinistra prodiano, la crisi del partito berlusconiano, la scissione di Fini, i Ds che diventano Pd, le dimissioni del Cav. “Forze politiche che cambiavano penne, che cercavano altre strade, unificazioni che significavano anche rotture. Un sistema politico fragile, quasi frantumato, piccoli partiti personali a destra e a sinistra: situazioni molto difficili dentro cui garantire la governabilità. Napolitano è sempre stato teso a dare al paese i governi possibili, quelli che il Parlamento poteva esprimere. Quelli possibili, non quelli che lui voleva”. Sospira, Macaluso, ricordando una delle più pagine più oscure e dolorose di questi anni passati: “Con accuse folli di chi pensava che, essendo lui un uomo di sinistra, avrebbe dovuto supplire all’impotenza della stessa sinistra e cacciare via Berlusconi, e poi Berlusconi che lo accusava di golpe, di averlo cacciato via… Un periodo di eccezionalità costituzionale, aperti conflitti con la magistratura, col gruppetto della procura di Palermo che ci ha messo del suo… E il presidente indotto a fare quel passo verso la Corte Costituzionale, per garantire i poteri del Quirinale, non i suoi. Che disastro, se si affermava il principio, poi smentito dalla Consulta, che i magistrati possono fare tutto quello che vogliono, che non sono sindacabili, anche cose contro il presidente della Repubblica! Quelle tre ore e mezzo di testimonianza davanti ai magistrati, poi… Tutte le tensioni tra politica e giustizia in questi ultimi anni, la questione Berlusconi, la guerra dentro la magistratura, pensiamo solo a Milano, le manovre delle correnti per imporre le nomine dei capi… Napolitano ha dovuto affrontare situazioni drammatiche, ha dovuto riaffermare in continuazione i poteri costituzionali, il richiamo a comportamenti compatibili con la Costituzione”. Ha avuto non pochi dolenti stupori, in questi anni, Napolitano. Non che l’antico e saggio comunista, l’uomo che era stato nelle istituzioni a lungo anche prima del Quirinale (ministro, capogruppo, eurodeputato, presidente di Montecitorio), non sapesse quale grumo di ispirazione e di rischio fosse il Colle – e gli era già successo, a sigillo delle sue antiche memorie, di riportare il discorso che dall’America Thomas Mann rivolse ai tedeschi sotto il tallone di Hitler, di come “la politica racchiuda in sé molta durezza, necessità, amoralità, molta expediency” (altissima traduzione letteraria del “sangue e merda” del suo amico Rino Formica), ma pure “non potrà mai spogliarsi del tutto della sua componente ideale e spirituale, mai rinnegare completamente la parte etica e umanamente rispettabile della sua natura”.
Ogni cosa, nella politica italiana, in questi anni si è frantumata, per finire spiaggiata, come avanzi di un naufragio, davanti al portone del Quirinale. Anni in cui il buzzurro urlante sempre tendeva a prevalere, “una sorta di orrore per ogni ipotesi di intese, alleanza, mediazioni, convergenze tra forze politiche diverse” – pretesa bambinesca della politica di non comportarsi da politica. “Abbassare i toni”, invocò – quasi solo a timbro, purtroppo, dell’inimitabile parodia crozziana. Allora inventare, saldare, preservare, tentare e ancora tentare: anno per anno, giorno per giorno, governo per governo. Come in certi racconti di fantascienza, dove le cose cominciano a correre più veloci persino dello sguardo – fino alla collaborazione (al posto del sempre caro Letta nipote) a volte tumultuosa col sovrastante, in voce e video, Matteo Renzi, come con un filo d’ironia sottolinea alla Stampa un altro amico del presidente, Gianni Cervetti, ché appunto “la saggezza dell’anziano ed esperto uomo politico” possa essere stata “di conforto all’entusiasmo del giovane politico”. I molti anni. Una stanchezza delle cose. Il turbinio di parole date, atti non compiuti, quasi “il lento scorrere senza uno scopo”, a parafrasare, di questa cosa che chiamate seconda presidenza – sigillo di supremo soffocare, la rielezione di due anni fa, quando supplicanti gli chiesero di restare: la maionese impazzita della politica china davanti a un vecchio e stanco presidente di 88 anni. “Giorgio ha vissuto tutto con partecipazione, non con sofferenza”, dice Macaluso. “Tranne questo ultimo periodo, visto come si sono comportati quelli che in ginocchio gli chiedevano di restare”. E forse come Giobbe, a volte, vagando sempre più faticosamente tra quegli immensi saloni, gli sarà successo di pensare che “così a me son toccati mesi d’illusione”.
Il Quirinale ha di questi effetti. “Qui si sta bene, è tutto molto bello, ma è un po’ una prigione”, ha detto Napolitano l’altro giorno. E Scalfaro uscì da quello stesso palazzo evocando di aver vissuto una “spaventosa traversata”, e Ciampi lo definì “un posto pericoloso, basta un niente per sbagliare e perdere la faccia e la dignità”, e Cossiga che sulla tomba di Moro meditava l’abbandono, e Leone sparì silente e offeso – e silente e offeso rimase per sempre. Novant’anni, e con questi ultimi così speciali, significano molte cose. Fatica. Delusioni. Ricostruzione dei ricordi. Con la memoria che, come dice Duddù, più insegue ormai ombre lontane piuttosto che quelle vicine. Racconta La Capria: “Avevo sempre visto, per tutta la vita, Villa Rosebery, la villa presidenziale, da sotto, da dentro l’acqua, anche dopo aver scritto ‘Ferito a morte’. Mai da dentro. Così un giorno, un paio di anni fa, ho chiamato il presidente: ‘Giorgio, vorrei vedere Villa Rosebery’. ‘Vieni a colazione da me’, disse. ‘Sono con un amico’. ‘Porta anche lui’. E così andammo – in questa villa dall’aria austera, che era stata di un nobile inglese che si spostava con lo yacht per visitare il suo amico Norman Douglas. Con Napolitano andammo verso il mare. ‘Vedi, quella è la Pietra Salata’, dove all’inizio di ‘Ferito a morte’ compare la famosa spigola. Fu divertente. Parlammo di politica, delle ingiuste situazioni economiche che ci sono nel paese, e poi a pranzo, c’era pure Clio, a lungo rievocammo i nostri amici di quando eravamo giovani: Ghirelli, Compagna, Rosi, la rivista ‘Sud’, ognuno di noi cominciò a citare versi di Gianni Scognamiglio e Tommaso Giglio e Luigi Compagnone, altri amici di allora, ‘le folaghe che volano sull’acqua rossa al tramonto…’, oppure ‘questa è la mia città senza grazia…’, a rievocare i romanzi americani che all’epoca ci faceva conoscere William Fense Weaver. Pure versi di Montale che leggevamo avidamente a Napoli – ‘codesto solo oggi possiamo dirti / ciò che non siamo, ciò che non vogliamo’, e noi esagerando e sbagliando gli davano una valenza antifascista”. Un’amicizia che si era rarefatta nei lunghi decenni d’impegno politico di Napolitano, e che si è rianimata dopo la sua elezione al Quirinale – appunto, come a cercare meglio e di nuovo ciò che si fu, ciò che si voleva essere. E sere e incontri – una volta, a casa di Duddù, causa avvicinamento a una candela, a momenti prendeva fuoco la giacca presidenziale, e certe altre occasioni: la politica, inevitabilmente, ma soprattutto quel ritornare a quel gruppo di giovani di belle (e validissime, si è visto in seguito) speranze. “Un parlare da amici e basta, ma sempre con grande rispetto, lui è per me il presidente, da parte mia persino un eccesso di convenevoli. Mai di confidenza”.
Il lungo “novennato” è finito. Anni dove, sotto lo sguardo paziente, e a volte d’impazienza, sempre con garbo espressa, cose si sono dissolte e altre hanno preso vita: non sempre il peggio è passato, e non sempre il meglio è arrivato. Ha tenuto lo stesso il timone, Napolitano. Non è salito sulla mezzana con la corda, come il suo scrutato, nei vent’anni, “Billy Budd”. E il fantasma del capitano Vere non deve ossessionarlo troppo – ma chissà il Cav., chissà Letta Jr… Ora che è emerito e senatore a vita (l’ultima cafonata nei suoi confronti: lo vogliono dimissionario), con calma potrà riprendere nl mano Melville. E godere così di una ciurma sulla pagina – senza avvertirne, come finora è stato, il fiato pesante sul collo.
Il Foglio sportivo - in corpore sano