Come e perché la Juve di Allegri continua a essere la più forte
Fine del girone di andata, tempo di voti. E il panorama non cambia, perché (gli “odiatori” di mestiere se ne facciano una ragione) ancora una volta è la Juventus a raccogliere quelli più alti, da noiosa secchiona qual è: poni una domanda, sai già chi alzerà la mano.
Fine del girone di andata, tempo di voti. E il panorama non cambia, perché (gli “odiatori” di mestiere se ne facciano una ragione) ancora una volta è la Juventus a raccogliere quelli più alti, da noiosa secchiona qual è: poni una domanda, sai già chi alzerà la mano. Avviene da quattro stagioni in qua, nell'attesa vana di un angelo vendicatore in grado di mettere fino a tale dominio. Immutabile e inattaccabile, unico punto fermo in un mondo che velocemente fa cadere nella polvere idoli altrettanto velocemente innalzati. Capace, a differenza di quanto accadde ai partiti della Prima Repubblica, di rinascere dalle ceneri di una Tangentopoli in versione pallonara. Il tempo di rimettere in sesto i cocci e di assemblare una squadra degna di questo nome, e la serie B è ricordo di un'altra epoca, anche se risale solamente a una decina di anni fa.
Una differenza, a dire il vero, c'è. E spiega, al tempo stesso, quale sia la forza bianconera e quale sia la leggerezza di giudizio dei cosiddetti addetti ai lavori. Perché in estate erano tutti lì a darsi di gomito, cinque minuti dopo che Antonio Conte aveva sdegnosamente rassegnato le dimissioni per stanchezza personale e per acquisti non corrispondenti alle personali attese (europee). Gomitate divenute ancora più frenetiche all'annuncio di Massimiliano Allegri, ritenuto non all'altezza del compito e, in sostanza, un alleato dei rivali sul campo. Pochi mesi dopo fioccano i personali mea culpa (anche se non pubblicizzati) e abbondano i punti in classifica. La Juventus gira in testa al campionato, anche questa volta come nelle ultime tre edizioni. Lo fa in continuità con la gestione Conte, seconda soltanto alla squadra (irripetibile) di un campionato fa, capace di chiudere il torneo con 102 punti, di cui 52 all'andata. Per il resto, Allegri è andato meglio rispetto ai precedenti bottini italiani del predecessore aggiungendo, tanto per gradire, quell'accesso agli ottavi di Champions League svanito tredici mesi or sono nella neve di Istanbul. Un cambio di gestione che ha saputo inserirsi in un cammino già indicato, se si va a scorrere l'elenco di chi compone l'ossatura bianconera. Ma che, al tempo stesso, ha saputo segnare una profonda frattura.
Tattica, innanzitutto, perché Allegri ha portato le sue idee, cominciando dall'introduzione di una difesa a quattro al posto della precedente con tre uomini. Psicologica, quindi, perché dal martellamento ossessivo – di impronta sacchiana – imposto da Conte si è passati al disincanto toscano, a quella capacità di volare sopra le magagne, evitando le incazzature fini a se stesse e privilegiando le battute utili al proprio progetto e demolitrici nei confronti dell'avversario. Un'arte che ha permesso ad Allegri di sopravvivere a presidenti imprevedibili come Massimo Cellino a Cagliari o presenzialisti come Silvio Berlusconi al Milan. Uno stile di vita che gli ha consentito di abbracciare la causa di chi era nemico fino al giorno prima (ricordate le polemiche sul gol negato a Muntari?) e di tornare a lavorare come niente fosse con chi era stato epurato in altre vite: Andrea Pirlo, tanto per intenderci. In questo hanno avuto gioco facile la juventinità di Allegri, ben camuffata ai tempi rossoneri, e il suo ingresso nel ristretto gruppo di allenatori capaci di essere gestori di uomini, oltre che gente di campo. Quelli che si confrontano con le grandi realtà senza uscirne stritolati. Alla Juventus il nuovo arrivato non ha storto il naso e non ha fatto fremere il labbro quando la campagna acquisti non è apparsa in grado di supportare sogni di una grandezza europea da recuperare, sembrando – anzi - persino di livello inferiore rispetto a quella dei competitor italiani.
[**Video_box_2**]Ha accettato di buon grado giovani da valorizzare come Coman e Morata, onesti pedalatori come Romulo e Pereyra, usati supposti sicuri come Evra. Si è chiarito con Pirlo, si è alleato con il gruppo storico, ha gestito casi delicati come l'irrequieto Vidal, ha finalmente abbracciato quel Tevez che avrebbe potuto avere al Milan se non si fossero frapposte ragioni di famiglia (leggi alla voce: Barbara Berlusconi-Pato). Ha ascoltato, ha ragionato, ha plasmato. E ha messo sul campo. Il risultato? Una Juventus rimasta identica a se stessa, nel furore agonistico, nella gestione delle partite, nella ricerca del risultato. La forza di cui sopra, per un sereno mantenimento dello status quo. In attesa che qualche aspirante rottamatore provi a farsi avanti.
Il Foglio sportivo - in corpore sano