La distruzione dell'Impero romano, di Thomas Cole del 1836, ispirato molto probabilmente al sacco di Roma dei Vandali

Il logorio dell'Occidente

Conversazione con Leon Wieseltier su terrorismo islamico (“chiamarlo nichilista è una stronzata”), Diderot e l’Europa che credeva di vincere le guerre con il cappuccino e ha creato il vuoto in cui crescono i suoi nemici.

New York. Leon Wieseltier ha ancora il cuore spezzato per “l’atto di vandalismo culturale” con cui Chris Hughes ha smantellato il suo New Republic, suscitando una diaspora di intellettuali e giornalisti pensanti proprio durante i festeggiamenti del centesimo anno della rivista. Il giovane direttore del magazine coltiva la visione disruptive di una “compagnia di media digitale integrata verticalmente”, qualunque cosa voglia dire; Wieseltier usa espressioni meno ellittiche ma irriferibili. L’impoverimento della casata nobile del giornalismo liberal non ha però sgonfiato la vis polemica dell’intellettuale con criniera, che ha trovato accoglienza al mensile Atlantic e in primavera terrà a Harvard un corso su Mosè Maimonide, per il quale nutre una speciale devozione. Una volta Sam Tanenhaus ha detto che Wieseltier è uno “specialista dell’ira di Dio”, definizione perfetta che s’applica anche quando ad abbattersi, con raffiche di kalashnikov nella redazione parigina di un giornale satirico, è l’ira di Allah.

 

Dopo la strage di Charlie Hebdo la coscienza di Wieseltier è tormentata dal destino di un occidente culturalmente afono, dalla libertà d’espressione minacciata, dagli ebrei in fuga dalla Francia e dalla visione di una società ultrasecolarizzata che non ha il vocabolario concettuale per rispondere alle minacce. “La strage di Parigi – dice Wieseltier al Foglio – ha una dimensione teologica chiara, chi lo nega non si rende conto di quel che dice. Dire che questi terroristi sono nichilisti è una stronzata. Credono in una particolare flessione teologica dell’islam, e che questa rappresenti o no il ‘vero’ islam è una faccenda interessante ma che riguarda soltanto i musulmani. Per quanto riguarda me, ogni musulmano rappresenta l’islam quando lo invoca: e assassini che gridano ‘allahu akbar’ prima di uccidere dei vignettisti colpevoli d’aver disegnato Maometto tendo a pensare che stiano invocando l’islam”. Il fatto, dice Wieseltier, è che l’occidente non può vincere questa battaglia culturale. Non può incidere sul dibattito interno all’islam, non può avere un ruolo nel conflitto delle interpretazioni del jihad se non quello di involontario fiancheggiatore tramite politiche di propagazione del vuoto multiculturale. E la società umana, come la natura, del vuoto ha orrore. “Per uno come me che non parla l’arabo o l’urdu né altre lingue in cui la cultura islamica si esprime è difficile capire nel dettaglio quello che succede nel panorama jihadista: è la situazione di tutto l’occidente, che è ai margini del dibattito, ma contemporaneamente promuove leggi che peggiorano la situazione. Francia e Germania in questo senso sono cattivi esempi, le loro politiche di integrazione non funzionano contro il terrorismo né contro i terroristi, che sono due problemi diversi. Il problema dei terroristi si risolve uccidendoli; per vincere contro il terrorismo bisogna invece sradicare la sua radice ideologica o religiosa, ma l’occidente non ha gli strumenti per scavare in quel terreno”.

 

E’ “l’insicurezza filosofica” dell’illuminismo occidentale, che cercava princìpi universali e si è ritrovato in mano un fragile pluralismo senza un centro di gravità, nemmeno provvisorio. Tutti questi spazi di libertà possono originare forme di kenofobia ideologica. L’ironia, dice Wieseltier, è che “i fanatici islamici non cercano di convertire, il loro scopo non è la conversione degli infedeli tramite la persuasione. Il comunismo era una variante dell’illuminismo, parlava un linguaggio attraente per i liberali occidentali, l’islam invece no, rimane una questione musulmana. In occidente cresce nelle comunità di immigrati, dove troviamo fenomeni di assimilazione ma anche di attaccamento alle versioni più oscure e reazionarie della religione. Non c’è un terreno comune fra un’Europa che sta diventando sempre meno religiosa e la società islamica: vanno in direzioni diametralmente opposte. Trovo che la perdita della religiosità europea sia gravissima da questo punto di vista”.

 

Non sarà che l’occidente s’è compiaciuto un po’ troppo dei suoi ideali, illudendosi che il modello culturale del liberalismo avrebbe rimpiazzato naturalmente, per osmosi ideologica, qualunque residuo reazionario? “A un certo punto l’Europa ha creduto di poter rimpiazzare i conflitti con il cappuccino. La vita bella e liberale delle democrazie avrebbe spazzato via tutto: chi avrebbe voluto più vivere da schiavo dopo la caduta del Muro di Berlino? Si pensava, con molta ingenuità. Le identità nazionali sono diventate improvvisamente un ostacolo per la realizzazione dei grandi ideali universali e cosmopoliti del liberalismo illuminato. E’ stato in quel contesto che si è pensato che l’eliminazione dei confini, il libero scambio di merci e persone la cessione di sovranità monetaria  fossero non solo buone idee ma processi inevitabili, attuati con illuministico ottimismo”, spiega Wieseltier.

 

Ecco la debolezza del liberalismo occidentale, “che ha sempre faticato a difendersi filosoficamente dagli attacchi esterni, ed è stato così anche con fascismo e comunismo. Ora l’attacco arriva dall’islam”, spiega l’allievo del critico Lionel Trilling. “In America siamo più pronti a difenderci, a combattere anche perché siamo storicamente influenzati da varianti dell’illuminismo, ad esempio quello scozzese, che non disprezzavano la religione, ma la ammettevano come parte dell’esperienza umana. L’illuminismo radicalmente anticlericale di Voltaire e Diderot, quello che descriveva scene di sesso selvaggio in un convento di monache, ha fallito: non mi pare che abbia raggiunto il suo scopo primario, distruggere il cristianesimo”, dice Wieseltier. Michel Houellebecq dice che non si fida più degli ideali dell’illuminismo, crede si riferisca a questo? “Mi pare di sì. L’illuminismo di Diderot non è utile per spiegare la situazione di oggi, è portatore di un secolarismo intollerante che non ferma l’avanzata del fanatismo terroristico. Non mi sorprende che diversi autori in Francia oggi parlino di ‘suicidio culturale’ o immaginino una società dove l’islam occupa il posto lasciato vacante dalla secolarizzazione. Jean-François Revel parlava già trent’anni fa del ‘deperimento della democrazia’”.

 

[**Video_box_2**]Wieseltier s’infiamma sulla libertà di espressione, altro filone della riflessione dopo la strage di Charlie Hebdo e delle sue vignette dissacranti. Nel suo cuore (spezzato) di liberale americano non c’è nemmeno un pertugio per le eccezioni alla libertà di parola: “Ci sono cose orribili scritte su di me, sul mio popolo, sulla mia nazione. Semplicemente non le leggo. Dieudonné è un maiale ma è stato un gravissimo errore arrestarlo. Mostra che abbiamo paura delle idee. Allo stesso modo ti posso dire che trovo Charlie Hebdo un giornale stupido, e ha tutto il diritto di esserlo. Il problema è sempre il solito, quello che più si fatica ad ammettere: Charlie offende anche cristiani ed ebrei, ma non vedo cristiani ed ebrei che assaltano la redazione con gli ak-47. E va notato che nella Bibbia la punizione per la blasfemia è la morte, eppure solo l’islam ha un problema con la violenza”. La granitica garanzia del Primo emendamento per Wieseltier è un vessillo da mostrare all’Europa vacillante, eppure anche l’ampio raggio della libertà di parola in America ha un limite: il politicamente corretto. David Brooks ha fatto notare quello che tutti sanno: un giornale come Charlie Hebdo in una università americana “sarebbe durato trenta secondi”. Lo avrebbero accusato di incitamento all’odio, gli avrebbero tagliato i fondi, lo avrebbero screditato, avrebbero emesso laiche fatwe per metterlo ai margini del discorso pubblico.

 

E’ per motivi analoghi che il New York Times ha preferito la sensibilità dei musulmani alla solidarietà alla libertà di satira del giornale francese. “Chiunque si sente oltraggiato dall’attentato in quanto gesto di soppressione della libertà di parola – dice Wieseltier – deve essere oltraggiato allo stesso modo dal politicamente corretto: concettualmente non c’è differenza”. I campus universitari hanno vissuto un’intensa stagione di “disinviti” di personaggi troppo controversi per la sensibile cultura universitaria: Condoleezza Rice era troppo conservatrice per gli studenti di Rutgers, Ayaan Hirsi Ali troppo islamofoba per quelli di Brandeis, Christine Lagarde troppo poco populista per una frangia anti Fondo monetario dello Smith College. Sono tutte storie di minoranze rumorose che impongono l’agenda alle autorità e alla maggioranza silenziosa, senza nemmeno il bisogno di agitare la minaccia della protesta violenta. Si fa presto a dire Je Suis Charlie nell’ora emozionante della solidarietà globale, poi ciascuno torna a recitare il proprio ruolo nella “grande farsa del politicamente corretto”, come la chiama Wieseltier.