Abdullah è morto e pure gli altri non stanno tanto bene
La sera di giovedì il vecchio ordine del mondo arabo è cambiato: il re saudita è morto, il presidente dello Yemen si è dimesso, la guerriglia libica ha attaccato la filiale a Bengasi della Banca centrale. L’erede sospettato di demenza promette coerenza sul greggio e contro il jihad.
Roma. La sera di giovedì il vecchio ordine del mondo arabo è cambiato: il re saudita Abdullah è morto, il presidente dello Yemen si è dimesso, la guerriglia libica ha attaccato la filiale a Bengasi della Banca centrale (l’unica istituzione del paese che distribuisce i petrodollari e garantisce un minimo di unità, resta ancora la sede a Tripoli). Il sultano dell’Oman, Qaboos, è ricoverato anche lui in ospedale (in condizioni meno gravi va detto subito, ma non è soltanto un personaggio pittoresco, ha un ruolo importante nella mediazione con l’Iran).
Come scrive l’Economist, la morte di re Abdullah difficilmente poteva arrivare in un momento più difficile per l’Arabia Saudita. Il regno è alle prese con una crisi importante del mercato del greggio. I prezzi sono quasi dimezzati rispetto all’estate scorsa e quindi anche i profitti sauditi, anche se ieri hanno avuto un sussulto verso l’alto dopo la notizia della successione. E c’è da fare i conti anche con l’indipendenza energetica di alcuni grandi clienti come l’America, che ormai è decisa a far da sé con il greggio estratto grazie alla tecnica del fracking e ad abbandonare la relazione longeva con Riad. Per ora il paese non soffre per questa condizione del mercato, perché il governo attinge alle riserve, ma è significativo che non ci sia più il pareggio di cassa.
La casa dei Saud (la dinastia che regge il paese, con gran codazzo di parenti e principesse mantenuti a vita) si trova inoltre in una posizione difficile a causa dei gruppi jihadisti che combattono dall’esterno e dall’interno contro molti governi del medio oriente. Il governo saudita è il primo nemico dei jihadisti, alla pari con Israele. Eppure è il custode dei luoghi sacri dell’islam e applica nel paese un codice coranico non dissimile da quello dello Stato islamico (il sito Middle east eye ha messo a confronto le punizioni nei due diversi territori, quello di Baghdadi e quello saudita: quasi uguali). A giudicare dalla propaganda islamista che circola, questo conservatorismo islamista a nulla vale: da una parte il regno è considerato troppo corrotto dai jihadisti, dall’altra, quella dei nemici dello Stato islamico, è considerato un’entità incerta a metà tra l’alleato imbarazzante e la vera radice del problema wahabita.
[**Video_box_2**]Il vecchio ordine arabo è in mezzo a una crisi, ma il cambiamento è gestito per ora in modo che ci siano pochi scossoni. Il nuovo re, Salman bin Abdulaziz (con più di un sospetto di demenza), promette di non cambiare linea sul greggio anche se il prezzo sta scendendo – lo diceva in pubblico già da prima della morte del fratello. Secondo quanto ribadisce lui stesso, anche in politica estera dovrebbe mantenere la stessa postura verso gli alleati e verso il grande antagonista, l’Iran che tenta di diventare una potenza atomica. La sua prima preoccupazione è lo Yemen ormai senza governo, presidente e primo ministro, caduto sotto l’influenza di un gruppo filoiraniano e con la presenza robusta di al Qaida.
Per ora, si osserva la mappa del cordoglio. Teheran manda il ministro degli Esteri, Javad Zarif. L’Egitto dichiara per la prima volta nella storia un lutto nazionale di quattro giorni, perché il governo del presidente al Sisi si sente giustamente orfano.
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