In occidente tira un'aria di abiura di Israele. L'abbandono degli ebrei
Il disprezzo negli occhi di Obama, la crisi con la Diaspora, le inchieste dell’Aia e il disinteresse di Francesco.
Roma. “Netanyahu ci ha sputato in faccia”. Questo, ieri, il commento della Casa Bianca alla notizia che il premier israeliano Benjamin Netanyahu parlerà al Congresso degli Stati Uniti, senza essersi consultato con la presidenza e con Foggy Bottom. Invitato dallo speaker John Boehner, il 3 marzo “Bibi” riceverà un’altra nuova standing ovation a Capitol Hill. Soltanto Winston Churchill finora ha parlato, come Netanyahu, per ben tre volte al Congresso. Il presidente Barack Obama e il segretario di stato John Kerry ricambieranno il favore rifiutandosi di incontrare Netanyahu durante il suo soggiorno in America, trincerandosi dietro la scusa che il protocollo impone di non favorire candidati alle elezioni in altri paesi. Una piccola bugia. Shimon Peres da primo ministro israeliano un mese prima delle elezioni volò in America per incontrare Bill Clinton.
Fra Bibi e Barack regna il puro disprezzo. George Will, editorialista del Washington Post, ha chiamato Netanyahu “l’anti Obama”, la nemesi del presidente americano. Il quotidiano israeliano Maariv ha commentato così il modo in cui l’Amministrazione Obama riceve la delegazione da Gerusalemme: “Non c’è esercizio di umiliazione che gli americani non abbiano tentato con il primo ministro e il suo entourage. Bibi ha ricevuto alla Casa Bianca lo stesso trattamento riservato al presidente della Guinea Equatoriale”.
“A pain in the ass”, un rompicoglioni, fra le molte traduzioni più o meno eleganti, è il modo in cui Obama ha chiamato Netanyahu. Obama si è fatto fotografare con le scarpe sul tavolo nello Studio Ovale mentre era al telefono con Netanyahu per redarguirlo sulla costruzione di una manciata di case per i coloni (mostrare le scarpe è il gesto di maggiore insulto in medio oriente). Quando Obama ha visitato Israele, due anni fa, appena sceso dall’Air Force One ha abbracciato il presidente Peres, ma ha solo stretto la mano a Netanyahu. L’esperta di linguaggio del corpo, Tonya Reiman, ha detto che Obama mostra “disprezzo negli occhi” per Netanyahu. E quando durante una visita di Bibi a Washington, il premier israeliano ha risposto picche alle richieste della Casa Bianca di riprendere il processo negoziale con i palestinesi, Obama si è alzato e ha detto: “Vado a cena con Michelle e le ragazze”.
Ma è un disprezzo dai risvolti politico-strategici, sullo sfondo di una crisi senza precedenti fra Gerusalemme e Washington. Israele dipende dagli americani sul piano militare e diplomatico. Gli Stati Uniti contribuiscono alle spese militari israeliane per il venti per cento (Israele riceve aiuti americani più di ogni altro stato dalla Seconda guerra mondiale a oggi). Nessun altro paese si interessa a proteggere il diritto all’esistenza degli israeliani quanto gli Stati Uniti, che bloccano spesso risoluzioni anti israeliane al Consiglio di sicurezza degli Stati Uniti. L’asse Israele-America ha dominato la scena internazionale dal 1948 a oggi. Eppure, l’America neoisolazionista di Obama sembra voler fare a meno dello stato ebraico, non lo tratta come un asset ma come un problema da gestire o da risolvere. Come ha scritto l’analista israeliano Gerald Steinberg: “Netanyahu è un pessimista che vede i pericoli di ciò che Thomas Hobbes descriveva come ‘la guerra di tutti contro tutti’ nell’anarchia della politica internazionale. Israele è uno stato ebraico solitario e vulnerabile in un ambiente mediorientale ostile e pericoloso”. Obama, invece, “è un ottimista come Immanuel Kant, ritiene che le controversie possano essere superate attraverso il compromesso. Per lui l’uso della forza militare è l’ultima delle possibilità, riservata a pochi sociopatici come Osama bin Laden e il leader dei talebani”. Netanyahu oggi chiede agli Stati Uniti un nuovo round di sanzioni all’Iran per fermarne il programma nucleare. Obama risponde con la minaccia di veto a una eventuale decisione bipartisan del Congresso.
Ma non è soltanto in crisi il rapporto fra Israele e l’America. E’ a pezzi il legame fra la Diaspora europea e Israele. Ai capi della comunità ebraica francese, straziata dalla strage al supermercato kasher e da altri casi spaventosi di giudeofobia, non è piaciuto l’invito di Netanyahu a emigrare in Israele, a chiudere la parentesi dell’“esilio” in Europa, la galut. Sul Wall Street Journal, Bret Stephens scrive che “è tempo di fare le valigie per gli ebrei francesi”. E’ vero, Israele beneficerà di questa ondata di alyah, specie ora che l’emigrazione è in una crisi nera. Ma Gerusalemme perderà anche un pilastro nel suo rapporto con l’Europa, ovvero la presenza di forti comunità ebraiche in un continente dove l’antisemitismo si è rifatto il lifting.
Una Europa gravemente malata di israelofobia. Ieri, per citarne uno, l’ex ministro dell’Economia olandese Herman Heinsbroek ha rilasciato una intervista in cui sostiene che sarebbe bene spostare gli ebrei da Israele agli Stati Uniti: “E’ stato un errore storico dare agli ebrei un loro stato in mezzo all’islam. Date piuttosto agli ebrei un loro stato negli Stati Uniti”. Non siamo molto lontani da quanto propongono gli ayatollah iraniani. Quando l’accademico tedesco August Rohling, verso la fine dell’Ottocento, disse che agli ebrei si dovevano lasciare i diritti dell’uomo ma privarli di quelli del cittadino, che occorreva bandirli dalla vita politica e civile, concorse a creare le premesse delle future, atroci persecuzioni. Oggi si tenta di fare lo stesso con l’abbandono di Israele.
Pochi giorni fa lo stato ebraico è scomparso dalle mappe geografiche della Harper Collins, la maggiore casa editrice in lingua inglese del mondo.
Il riavvicinamento del Vaticano con il popolo ebraico dopo la Shoah, e soprattutto dopo la “Nostra Aetate”, ha avuto luogo a due livelli, che il Vaticano tiene spesso distinti: quello teologico e quello politico. Ogni passo in avanti sul primo livello è spesso controbilanciato da una regressione sul secondo, come se i due movimenti fossero sincronizzati. Più vicino il Vaticano sembra andare verso il dialogo con l’ebraismo, più forte cresce l’indifferenza per Israele. I pontificati di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI si erano contraddistinti per l’afflato verso il popolo ebraico: la permanenza di Israele come parte del disegno di Dio per arricchire il mondo, per renderlo un posto migliore per i suoi figli. Israele come rivendicazione dello spirito e dei valori biblici. Il pontificato di Francesco è freddo, poco interessato a Israele e al suo destino, se non ostile come quando il Papa si è fatto fotografare sotto la barriera israeliana e lo slogan che lo paragonava al ghetto di Varsavia.
[**Video_box_2**]Il progressivo isolamento di Israele nelle sedi internazionali ha fatto sì che la cultura dei diritti fondata dall’ebraismo sia oggi usata contro gli stessi ebrei, dalla Convenzione di Ginevra alle accuse di “crimini contro l’umanità”. La Corte internazionale dell’Aia ha appena aperto una inchiesta su Gaza che potrebbe trascinare Israele sul banco degli imputati. La proverbiale lentezza e miopia dei magistrati dell’Aia svanisce non appena si tratta dello stato ebraico (la Corte ha già condannato Gerusalemme per aver eretto un muro di difesa dagli attacchi terroristici). A marzo, la commissione di William Schabas presenterà all’Onu l’atteso rapporto sulla guerra di Gaza. E non sarà un bel sentire per Israele. Intanto, i terroristi di Hamas, non più sotto mora nella lista nera dell’Unione europea, possono rivendicare gli “eroici” accoltellamenti dei pendolari ebrei a Tel Aviv.
Se continua così, fra pochi anni lo stato ebraico sarà trattato alla stregua di un “rogue state”. Uno stato canaglia. Neanche fosse la Corea del nord. Il veleno dell’odio ha ripreso a circolare in questa internazionale del rancore, assieme al disagio pre-nucleare che cresce ogni giorno a Gerusalemme. Ovunque in occidente si sta offuscando la realtà dello stato ebraico, in attesa della scomparsa di questa enclave vulnerabile vista come un mero incidente di percorso della storia.
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